Couches on the Road // IV

novembre 23, 2012

Mood: sereno
Listening to: Milano che oggi fa tremare i vetri delle finestra
Watching: A dangerous method di David Cronenberg
Playing: a incastrare storie e personaggi
Eating: marmellata di mirtilli rossi di bosco
Drinking: caffè




Da che Sarah e Pacome hanno lasciato Milano sono trascorsi sedici giorni. Per me, non uno soltanto senza domandarmi dove fossero e cosa stessero facendo. Mi piace fermare la routine delle cose che fanno questo mio periodo per provare a immaginare. Sarà così per centosettantuno giorni ancora.

Sarah e Pacome sono in viaggio, un viaggio lungo duecento giorni che ha avuto inizio in Francia e attraverserà Italia, Portogallo e Spagna. Attualmente sono al giorno ventinovesimo.
Da un luogo all’altro, si spostano facendo autostop. Nel diario di viaggio di Pacome, un primo appunto sull’Italia riguarda la difficoltà a ottenere un passaggio, si può aspettare ore e ore prima che qualcuno si fermi, gli italiani, qualcuno ha detto, non si fidano di chi fa autostop a causa della mafia che rende tutti un po’ più sospettosi.
Nei luoghi dove si fermano, cercano ospitalità, ma non escludono l’eventualità di dormire per strada, hanno con sé i sacchi a pelo e una tenda, i loro zaini pesano cinquanta chili. È per questo che hanno scelto un periodo dell’anno molto freddo per viaggiare, in estate sarebbe stato impossibile spostarsi con così tanto peso appresso. La prima volta che ho incontrato Sarah e Pacome, nell’atrio del palazzo in cui vivo, ho pensato che fossero due tartarughe. Le tartarughe vanno sempre con la loro casa in spalla. In effetti, la casa di Sarah e Pacome è lo zaino, dacché la strada si è messa a chiamarli, Sarah ha congelato gli studi di psicologia, Pacome si è licenziato dal negozio di impianti audio per cui lavorava e, zaini in spalla, sono partiti.
Sarah è di Le Havre, Pacome di Parigi. Non si conoscono da sempre, né da tanto. Si sono trovati perché condividevano le stesse intenzioni e perché entrambi erano alla ricerca di un compagno di viaggio. Eppure, a vederli insieme, si direbbero intimi da tempo immemore, oltre che due bambini inguaribili. Fanno tutto insieme, vivono la loro simbiosi come fosse un cerimoniale di viaggio. Dopo due notti in quattro nel lettone a due piazze, abbiamo cambiato la geografia della cucina perché loro potessero starci in due, neanche per dormire vogliono separarsi, prima di coricarsi, parlano fitto e ridono, ridono tanto nel buio.

Sarah e Pacome sono arrivati a Milano al settimo giorno di viaggio e ci sono rimasti una settimana. Mi hanno chiesto ospitalità il giorno prima del loro arrivo perché si sono ritrovati all’improvviso senza un tetto. In casa c’erano già Kuba e Paweł ospiti. Arianna e io viviamo in un bilocale piccolissimo in affitto che in due ci si sta stretti, in sei diventa un formicaio, tanto più perché i posti letto sono quattro. Tutto già sperimentato, in verità, ma con amici molto amici. L’idea di ripetere con estranei un po’ ci spaventava. Ragazzi, c’è da stare stretti, benvenuti, abbiamo detto e sapevamo che li avremmo accolti prima ancora di pensarci. Perché negli anni Settanta, racconti come quello di Sarah e Pacome sono comuni, oggi mica tanto. E noi ne abbiamo sentito particolarmente il bisogno.
Erano le cinque del pomeriggio del 31 ottobre. Fuori pioveva a dirotto. Il corridoio di casa è finito nascosto dagli zaini da viaggio. Abbiamo comprato nuovo vino e riempito i bicchieri. Ci siamo stretti attorno al tavolo. Mancava già una sedia.
Figurarsi quando nei giorni seguenti, con Sarah e Pacome, sono arrivate altre persone incontrate da loro lungo la strada, Marco, milanese, che a gennaio molla tutto e va in Thailandia per costruire abitazioni col metodo tradizionale all’interno di un progetto di volontariato, Lorenzo, suo amico pisano, che sebbene guardi i suoi interlocutori dritto negli occhi, sembra perso a amare il suono di ogni singola parola sulla lingua, Ricardo, portoghese, e Ayşegül, turca, che sono migrati a Biella per lavorare in un network di volontariato. Un proverbio moresco recita che chi non viaggia non conosce il valore degli uomini. Del resto, viaggiare insegna a avere fiducia negli altri.

In verità, all’inizio non è stato facile comunicare con Sarah e Pacome. Davano l’impressione di cacciarsi a testa bassa nei loro discorsi, senza voglia di condividerli. Sarah per quanto capisse l’inglese, neanche voleva provare a parlarlo, le procurava vergogna. Date le circostanze caotiche di quei primi giorni, mi sono sentita scomoda. Ebbene, con Sarah e Pacome la prima lezione è che, sulla scia dei romanticismi del caso, spesso ci si illude che tutto debba essere gradevole fin dal primo momento. La seconda lezione è che, accettando un limite e tentando di oltrepassarlo, ci si ritrova a costruire qualcosa.
Una sera, Sarah era rannicchiata sul divano, leggeva On the road di Kerouac. Pacome se ne stava arrampicato sul lavandino della cucina sotto la finestra che dà sull’orizzonte di palazzi di Milano e sulle montagne in lontananza, fumava una sigaretta. Arianna preparava la cena. Io fissavo un foglio bianco, avrei dovuto scrivere una sceneggiatura, ma non trovando grandi idee, mi arricciavo il riccio, quello in cima, e sorridevo solo all’idea che poco prima tutti si erano fatti coinvolgere a dirmi la loro in merito. Coexist dei The xx andava e l’acqua sul fuoco stava per uscire a bollire. Pacome ha detto «Qui, mi sento davvero a casa. È bello. In viaggi come questi, spesso casa è ciò di cui si ha più bisogno.», così ha detto.


Il giorno in cui Sarah e Pacome sono partiti, sono rimasta a guardarli mentre organizzavano la distribuzione dei pesi nello zaino e scrivevano la loro destinazione su cartoni di riciclo. C’erano l’aria eccitata della partenza, la polvere della strada, l’orizzonte e un’infinità di storie a venire. C’era anche qualcosa che mi soffocava il respiro, o forse è più appropriato dire che c’era anche qualcosa che stavo soffocando, il pensiero martellante che il loro mondo in questo momento è pieno delle cose che io vorrei nel mio. Pensa se partissi adesso, pensa se… Ma adesso no, devo aspettare, devo stare ferma qui, ho abbracciato Sarah e Pacome e li ho accompagnati alla porta. Ci ritroveremo ad aprile a Parigi, o forse prima, lì in qualche punto imprecisato della loro mappa.
Ho chiuso la porta di casa di fronte a me. Poi, accovacciata sul divano, ho spulciato per un po’ con Arianna il sito web di Decathlon nella sezione degli zaini da viaggio.



Un paio di giorni dopo, ho ricevuto un messaggio da Pacome. Mi chiedeva se sapessi cosa sia un bidet e a cosa serva perché alcuni italiani gliene avevano parlato, ma lui era certo che lo stessero prendendo in giro. Gliel’ho spiegato. Mi ha risposto che la trovava una cosa fuori di testa. Gli ho chiesto cosa gli avessero detto gli altri italiani. Loro avevano detto esattamente la stessa cosa. Quando gli ho chiesto cosa avesse pensato del sanitario bianco accanto al water lui ha detto solo per lavare i piedi. Ho riso mezz’ora. La terza lezione, con Sarah e Pacome, è che i bagni sono sempre oggetto di scambio interculturale. Effettivamente, a voler citare un solo esempio tra altri degni di nota, in Norvegia, la ragazza greca che ospitava me e Arianna a Oslo, ci ha tenuto a spiegarmi come buttare la carta direttamente nel bagno dopo essermi pulita. Ho capito che evidentemente, in Grecia, la carta si getta in un cestino a parte.

13 Responses to “Couches on the Road // IV”


  1. In realtà un pezzettino di noi è partito con loro.
    Comprimiamo il magone che cresce in noi giorno dopo giorno in attesa di una data di Febbraio, prima di poter respirare a pieni polmoni e comprarci un bello zainone dal Decathlon vicino il Castello, no?
    Non vedo l’ora.

  2. losengriol Says:

    Storie del genere ti fanno friggere, lo so. Sei lì che vorresti prendere in spalla il tuo zaino e imboccare la porta, sei proprio lì, ti vedo che hai già un piede fuori. Fanno venire voglia di tirare fuori un piede anche a me, che pure non ho neanche lontanamente lo spirito girovago che hai tu. Per il momento, almeno (ché nella vita non bisogna dare nulla per scontato).


  3. …scusa ma com’è che si butta la carta, in grecia? :S

  4. eta849 Says:

    Mi stupisce non trovare citato il particolare ripiano interno ai wc olandesi, che permette di:
    a) non ricevere i fastidiosi spruzzi sul culo quando depositi materiale pesante;
    b) consente l’osservazione del materiale depositato e lo studio del proprio corpo tramite ciò che emette.

    Apprezzo molto la deriva riguardo le toilette, oui, anche questo sarebbe un bell’argomento di tesi, eh. Ha!

    Sono fiera di poterti dire che “mi ricordi me” solo per metà: anche io avevo questa voglia di andare in giro che mi faceva impazzire, ma tu stai già producendo, nonostante tutti i nonostante. Questa è una differenza notevole e mi fa felice assai.

    Ho bisogno di ribadire con onestà intellettuale, di lettrice, che ti sono grata per i post che ci regali comunque.

    Mi insegni, mi nutri.

  5. eta849 Says:

    Altra cosa importante.

    Sei una grande per aver scritto in questo modo della prima e della seconda lezione.

    Te lo dico con ammirazione.

    In modo anche conscio e scelto, io sono [gianvetianamente] “ostinata alla felicità”, mi sono educata a vedere la bellezza ovunque. Qualcuno mi ha rimproverato di deformare la realtà.
    Questo è un discorso lungo alla fine del quale (un anno fa…) mi dissi comunque fiera di ciò che sono, ma devo ammettere che mi accade questa cosa ridicola di potermi sentire delusa e triste quando mi manca l’assolutamente stupendo cui, paradossalmente, sono abituata.
    Ecco, mi piace molto, quindi, come hai riportato schiettamente questa storia.

    La metto in tasca.

    • dorotea Says:

      Confesso che è stata una precisa scelta non citare i wc olandesi, ne parlo di continuo, vorrei aprire un commerci di wc normali in Olanda, inizio a sentirmi monotematica in termini di cessi. Perciò, volendo citare un solo esempio, ho optato per il caso greco che mi è sembrato comunque degno di nota! 😀

      Così come ho scelto di riconoscere che non è stato facile al primo colpo con quest’esperienza perché tanto mi ha sconvolto doverlo riconoscere nella realtà dei fatti, tanto avrei evitato di raccontarlo. Ma era giusto così. E bello a modo suo. Nella selezione dei fatti, ho riconosciuto che questa prima lezione era tra le cose più importanti della divanata. Ho dovuto lavorare un po’ con me stessa, ma ce l’ho fatta. Le motivazioni sono le tue stesse. E comunque, love.

      Mi sento te per metà, sì. L’ho realizzato scrivendoti la mail quando ti raccontavo di come la tesi si stia intrecciando a certe derive emozionali.

      Per tutto il resto, vabbè, faccio le fusa strisciandoti intorno. Ecco.

      • eta849 Says:

        Pensa che io invece vorrei diffondere le tazze olandesi in Italia!

        Ti faccio le fusa anche io e spero che la mia metà dorica sia degna del ruolo, è un’alta responsabilità!


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