Tutto, i tuoi capelli rossi tra settemila manifestanti.
dicembre 1, 2015
Mood: pericolante
Reading: What’s really at stake at the Paris climate conference now marches are banned Naomi Klein su The Guardian (trad. disponibile su Internazionale)
Listening to: Camille Yarbrough – Take Yo’ Praise
Watching: This changes everything by Naomi Klein
Eating: zuppa di lenticchie
Drinking: acqua
The Netherlands, Amsterdam, 29 November 2015.
Klimaatparade, part of the global People’s Climate March 2015.
C’era il vento. Correvo da una parte all’altra, volevo testimoniare tutto*,
i tuoi capelli rossi tra settemila manifestanti.
Suon di #lutto
novembre 15, 2015
Mood: addolorato
Reading: aria fritta
Listening to: Brett Dennen – Ain’t No Reason
Watching: The Salt of the Earth by Wim Wenders
Eating: uova
Drinking: caffè
Troppo spesso negli ultimi anni ho assistito a lutti clamorosi a suon di ashtag e non serve un filosofo per capire che il sensazionale motiva l’opinione. Troppo più spesso il populismo.
Io risparmio il fiato e penso alla vita, alle bombe, al cielo che avvampa nella luce delle fiamme, ai cadaveri disseminati su tutto il Globo, alle anime in fuga dal Globo – dal Libano a Parigi, dalla Siria all’Iraq e poi ancora in Afghanistan, Pakistan, Nigeria, Ucraina, Gaza, Somalia, Yemen e Tanti Altri Ancora difficili da tenere a mente. È un’epoca di massacri orribili, la nostra: il Mondo intero sta andando in briciole. E il cuore mi salta all’aria ogni giorno più volte al giorno.
Basta essere uomini per vergognarsi di essere uomini. Certo, la vita continua perché la vita continua anche quando ne avvertiamo il peso per le troppe lacrime raccolte nelle tasche, persino quando con le tasche ossidate pronunciamo l’ulteriore chiamata alle armi. Ma a essere onesti per la prima volta mi sto chiedendo se davvero la vita valga tutta la pena che viene dal vivere. E, nell’infinito numero di storie da raccontare e già raccontate, non trovo una sola risposta soddisfacente.
Mood: trepidante
Reading: Mario Calabresi, A occhi aperti
Listening to: Moddi – House by the Sea
Watching: film senza impegno
Eating: gelato
Drinking: una tisana dopo l’altra
Nata in Francia nel 2007 su iniziativa dell’Union Internationale de Conservation de la Nature e della rivista Terre Sauvage, Fête de la Nature è una manifestazione annuale che anima città e nazioni intere con eventi di ogni genere a diretto contatto con la natura, di modo che organizzazioni locali e internazionali e cittadini possano mettersi tutti insieme a scoprire e riscoprire il proprio ambiente. Dacché è stata proposta e presentata in Francia, Fête de la Nature è stata accolta anche in Svizzera e in Portogallo e, quest’anno per la prima volta, in Olanda.
Vier de Natuur, la prima edizione olandese della Fête de la Nature, è stata celebrata il 24 e il 25 maggio ed è stata definita a ragion veduta un gran successo dacché si sono contati quarantatremila partecipanti e duecentonovantuno attività su tutto il territorio.
Den Haag ha aderito all’iniziativa con un festival organizzato da DHiT – Den Haag in Transitie, in collaborazione con Stichting Duurzaam Moerwijk, nel quartiere di Moerwijk, uno di quelli con i palazzoni grigi tutti uguali dove sembra sempre autunno, nonostante il circostante Zuider Park rigonfio come un polmone. Nel corso della Fête de la Nature, dieci iniziative locali hanno trovato supporto di modo che la comunità di Moerwijk potesse vivere fuori dalle porte di casa, per strada e nei giardini e negli orti tra un condominio e l’altro, godendo dei colori, della musica e delle danze, dei giochi e dei picnic, ma soprattutto del benessere che deriva da un momento di condivisione allegra a diretto contatto con la natura. Dal primo rullo di tamburi della parata che ha aperto il Festival percorrendo il quartiere come un’arteria veloce per spingere tutti uno dopo l’altro fuori dalle porte di casa, al tramonto della domenica successiva nella quiete di Eetbaar Park, Moerwijk non ha smesso di fermentare.
Ma c’è una cosa più interessante ed è questa: alla chiusura della Fête de la Nature, le organizzazioni sorte in occasione del festival si sono sviluppate e hanno dato seguito alle loro iniziative. I giardini hanno portato le piante e i frutti seminati mesi prima e non c’è retorica in questa frase. Vier de Natuur è stato soltanto un punto di partenza nella direzione di una dimensione più solidale e sostenibile a Moerwijk, un quartiere come tanti altri delle nostra città.
Quelli di Moerwijk li ho conosciuti abbastanza. Una settimana prima dell’inizio della Fête de la Nature a Moerwijk, attraverso DHiT, ho accettato l’incarico di documentare fotograficamente l’evento, ma allora non mi era chiaro quanto fosse ampio il progetto che avevo iniziato a seguire e con quante e quali persone mi avrebbe portato a contatto, non solo nella contingenza di un weekend particolare, ma anche nel corso dei mesi successivi.
Penso a ognuna di loro come a un dono prezioso e poi un pezzo fondamentale nella mia grande ricerca sul senso dell’entusiasmo. Son tipi in gamba, quelli di Moerwijk, con una molla gigantesca che li spinge in aria dal centro del loro intestino. Appartengono a razze e credi religiosi totalmente differenti, talvolta discordano, ma mettono a disposizione la stessa umanità e lo stesso slancio amoroso per il mondo nel quale vivono e nel quale in molti casi hanno messo alla luce dei figli: sono vivi e si impegnano per rendere la loro realtà un posto migliore.
Io con una camera in mano spero di averne saputo restituire un pochino forza e emozioni, non solo perché allora quelli di Moerwijk si ritroverebbero belli nelle loro immagini – e io davvero voglio che si rendano conto di quanto sono belli! – e non solo perché anche qualcun altro sarebbe in grado di vederli belli con i propri occhi così come io ho fatto coi miei e proverebbe magari a seguirne gli espedienti. Ci spero soprattutto perché avercela fatta sarebbe il segno che adesso contengo sottopelle la bellezza che ho visto e ascoltato, ‘ché quest’accoglienza empatica senza riserve è l’unico modo per riconsegnare tutto quanto al mondo, laddove la bontà deve stare. Se penso in questi termini, il mio lavoro ha un senso. E io ho bisogno dei sensi.
Le storie della Fête de la Nature a Moerwijk sono state raccolte in un libro, Vier de Natuur in Moerwijk: een festival door de wijk voor de wijk / La Fête de la Nature a Moerwijk: un festival dal quartiere per il quartiere, perché a una cosa è davvero importante dar peso: Vier de Natuur – Den Haag arriva dal basso, dall’energia e dall’entusiasmo stesso della gente di Moerwijk, una popolazione che si riconosce parte integrante di un ecosistema più grande e familiarizza con questa scoperta a modo suo, nel proprio quartiere, a partire dal proprio quartiere.
Il libro sarà lanciato mercoledì 8 ottobre, alle ore 20, a Eetbaar Park [qui l’evento]. Ci saranno tutti. Devo dire che sono parecchio emozionata? Molto più di quando ho fotografato in uno dei giardini a Moerwijk la principessa Irene Emma Elisabeth d’Olanda, madrina della Fête de la Nature.
The Netherlands, Den Haag, Moerwijk, 24 May 2014.
Princess Irene Emma Elisabeth of the Netherlands, who has strongly promoted Fête de la Nature in the Netherlands, visiting one of our garden, at the end Carnival Parade.
La somma di una sottrazione
luglio 24, 2014
Mood: inquieto
Reading: Khaled Hosseini, Il cacciatore di aquiloni
Listening to: Pink Floyd – Wish you were here
Watching: Lea, una fotografia di Carla Kogelman
Eating: piadina
Drinking: birra
Sottrai la compassione alla vita e resta la somma delle centinaia di esseri umani smembrati nell’ultima settimana, 298 sul velivolo civile MH17 diretto da Amsterdam a Kuala Lumpur, abbattuto «per errore» da un missile Buk sul confine ucraino-russo, oltre 600 uccisi e più di 4000 feriti palestinesi e circa 30 militari e 2 civili israeliani morti durante i bombardamenti israeliani nella Striscia di Gaza e, anche senza contare una per una le centinaia di vittime sconosciute dei conflitti «minori» quotidianamente in corso su tutto il Globo, il bilancio va da sé per le migliaia, migliaia! che mi ballano sulla testa senza tregua, mi sfondano il cranio BOOM madame, ecco il benservito per essere venuti al mondo. Non c’è da star comodi: questa tragedia l’abbiamo avuta in dote restando in vita, ciascuna di queste vite possibili senza più un risvolto ci appartiene e marca un lutto sulla nostra coscienza. Vorrei che tutti ne fossimo consapevoli, ecco cosa vorrei perché penso sarebbe un primo grande passo verso l’umanizzazione della nostra specie: il lutto è metabolismo, il momento in cui realizziamo di essere vivi e di dover provare a vivere meglio e noi siamo vivi per provare a vivere meglio. Che sia il meglio o il peggio a venire lo dovremo a noi stessi come comunità in ogni caso.
Den Haag in Transitie
Maggio 23, 2014
Mood: felice
Reading: le mail e i messaggi arretrati a cui neanche stanotte riuscirò a rispondere
Watching: Slavery, un reportage di Jodi Cobb per National Geographic
Listening to: il sonno che arretra e mi lascia stecchita a occhi aperti sui pensieri
Eating: purea di fave
Drinking: acqua
Nell’ottobre 2013 ho incontrato per la prima volta quelli di Den Haag in Transitie, che allora non aveva sede fissa, ma si appoggiava dove trovava ospitalità, per l’occasione uno squat alla semi periferia di Den Haag. Quella sera nello specifico, un gruppo di ragazzi aveva iniziato a riunirsi per sperimentare attorno a tecniche e metodologie del teatro sociale partecipativo. Ricordo l’atmosfera distesa e davvero ispirante, oltre che la sinergia immediata del tipo che si sviluppa tra persone che si colgono al volo, condividendo magari intenti e propositi.
Da allora frequento regolarmente Den Haag in Transitie, sia attraverso il gruppo di teatro, sia proponendomi parte attiva nelle attività più ampie della comunità, che nel frattempo ha acquisito una sede momentanea, ma molto bella, in Witte de Withstraat, 119.
Den Haag in Transitie è un’iniziativa che si inserisce nel movimento delle Transition Town maturato in Irlanda tra il 2005 e il 2006 sulle basi del lavoro di Rob Hopkins con alcuni studenti del Kinsale Further Education College. In risposta all’idea che il nostro mondo, così com’è, non può più andare avanti e che bisogna prepararsi alla flessibilità richiesta dai mutamenti in corso, il progetto delle Città in Transizione immagina e incoraggia all’interno dalle comunità esistenti nuovi modelli di sviluppo a impatto zero, sperimentando pratiche differenti e approcci creativi e partecipativi da applicare dal basso.
Wu Ming 1 scrive che “[…] non possiamo continuare a vivere com’eravamo abituati, spingendo il pattume (materiale e spirituale) sotto il tappeto finché il tappeto non si innalza a perdita d’occhio. […] Non siamo immortali, e nemmeno il pianeta lo è. […] Se ce ne rendessimo conto, se accettassimo la cosa, vivremmo la vita con meno tracotanza. […] E i danni? Gli ecosistemi che abbiamo rovinato? Le specie che abbiamo annientato? Sono problemi nostri, non del pianeta. Verso la fine del Permiano, duecentocinquanta milioni di anni fa, si estinse il 95% delle specie viventi. Ci volle un po’, ma la vita ripartì più forte e complessa di prima. La Terra se la caverà, e finirà solo quando lo deciderà il sole. Noi siamo in pericolo. Noi siamo dispensabili.» Al di là dello scenario post-apocalittico, credo che ci siano ottime possibilità di recupero, credo anzi che si possa persino prospettare un mondo migliore, uno spazio più vitale fuori dall’epoca del petrolio e del consumo alienante, ma per questo è necessario educare la comunità e farlo superando la suddivisione rigida ed arbitraria della conoscenza in ambiti disciplinari così da proporre una lettura rinnovata della realtà, più organica e problematica. Dopotutto l’intralcio è sempre lo stesso: la disinformazione, mentre, per quella che è la situazione attuale e perché ci riguarda tutti in prima persona, dovremmo essere in grado di comprendere a fondo la portata e le conseguenze delle nostre azioni sugli equilibri naturali.
A Den Haag in Transitie, DHiT, i concetti principali sono “comunità locale”, “eco-compatibilità” e “sviluppo sostenibile”, mega contenitori tematici all’interno dei quali “ecologia” e “biodiversità”, “verde urbano” e “demografia”, “produzione e consumo alimentare”, “riscaldamento globale”, “impatto energetico”, “modelli economici”, “uso”, “esaurimento”, “spreco” e “scambio di servizi” sono soltanto alcune tra le molteplici declinazioni in una rete di punti incredibilmente problematici e interconnessi.
A maggior ragione in vista del WEO-2040 – quando, attraverso i nostri politici e i nostri industriali, saremo chiamati a testimoniare degli sforzi fatti per ampliare l’offerta di energia in modo sicuro e sostenibile sotto il profilo economico e ambientale –, DHiT si propone, attraverso i suoi gruppi di lavoro, come piattaforma in grado di catalizzare idee e realtà progettuali differenti per informare e educare, diffondere consapevolezza e facilitare intensi dibattiti e pratiche collettive attraverso i quali indagare il senso della resilienza e gli scenari della sostenibilità. Si parte dal vicinato, dai piccoli quartieri con i loro abitanti, dal negozio all’angolo, dalle scuole e dalle strade e di qui ci si collega e ci si espande alle piccole attività commerciali, alla municipalità e alle organizzazioni internazionali. È in questo questo brodo amniotico che si genera e si muove il processo di transizione verso modelli (ri)creativi eco-compatibili: a DHiT, l’idea – da non sottovalutare – è che le piccole autosufficienze locali siano il dispositivo principale di coincidenza tra pensiero e azione, nonché le linee guida che articolano e mantengono un sistema più ampiamente ecosostenibile.
Le immagini provengono da quelle che ho scattato durante il King’s Day, quando a DHiT abbiamo festeggiato costruendo giardini verticali e aiuole dove c’era soltanto un marciapiedi, ricavato strutture mobili dai materiale di scarto, animato attività teatrali per bambini, giocato come bambini. Il tutto annaffiato dai frullati 100% organici di Passie Voor Pure e coronato da una grande cena di quartiere in collaborazione con Eco Revolt,
senza possibilmente dimenticare di andare sempre a ritmo di musica e a passo di danza!
#coglioneNo, pensiamoci su
gennaio 16, 2014
Mood: energico
Reading: In fondo non sei nessuno: perché dovremmo pagarti? di Davide Calì;
Sapete cos’è il lavoro? di Gioacchina
Listening to: i gorgheggi del mio stomaco affamato
Watching: La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino
Eating: il presente
Drinking: caffè poi acqua poi un nuovo caffè
In questi ultimi giorni è tutto un gran parlare di “creatività”: #coglioneNo, la campagna virale lanciata sul web dal collettivo ZERO ha fatto il botto a tutti gli effetti.
Il problema sollevato è abbastanza spesso: a noi così genericamente detti “creativi”, quando lavoriamo, non viene corrisposto il compenso economico. In cambio ci vengono concesse possibilità e esperienze formative, la vana gloria della visibilità 2.0 e la facoltà, ma ve lo immaginate?, di citare la nostra prestazione sul curriculum e sul portfolio, rimpolpandoli alla grande in vista di chissà quale eminente futuro – magari siamo pure ardenti studentelli universitari e ci crediamo davvero –, big boss, ci tengo a riferirle che il mio curriculum e il mio portfolio sono ciccioni seriali con l’ego a palla, mentre le mie tasche hanno fame, fame nera. Di aspettative, poi, non parliamo neanche. Eppure il capitale della società in cui viviamo è l’immagine, ce ne sarebbero di soldi da investire.
Ma affrontiamo il problema, colleghi “creativi”: è naturale che così sia! Dopotutto noi andiamo avanti a gradire, acconsentire, rassegnarci e, diciamolo con onestà, non solo per noi stessi, ma anche per tutti gli altri ai quali andremo a chiedere collaborazione senza poter corrispondere un compenso per il progetto senza budget al quale stiamo lavorando senza retribuzione, e inoltre per tutti quelli che si affaccenderanno nel mondo professionale della creatività negli anni a venire il nostro incanutimento, mentre comunque sia noi non saremo arrivati da nessuna parte pur avendo acconsentito a lavorare gratis, anzi proprio a causa di tutte le circostanze in cui abbiamo acconsentito a lavorare gratis, eppure ci promettevano la luna. Certo, a patto di non voler considerare una conquista il fatto di aver impedito che anche tante altre persone vengano pagate.
Io vi capisco, colleghi “creativi”, voglio dire se mai dovessimo chiedere la giusta remunerazione in cambio della prestazione per la quale siamo stati ingaggiati, vedremmo qualcun altro rimpiazzarci e soffiarci l’odor di gloria da sotto il naso. E vedrai!, la fila è lunga dietro di noi che siamo una generazione di creativi. O presunti tali, questo è il guaio. “Non esiste oggi parola più oscena e più malsana della creatività”, io sono completamente d’accordo con Enzo Mari.
Allora qui vi chiedo, colleghi, dov’è la stima per la nostra “creatività” individuale? Intendo la consapevolezza che quello che facciamo è un lavoro vero e proprio, ci richiede tempo, energie e dedizione, ha un valore di mercato e pertanto merita un regolare ritorno economico perché big boss, non c’ho famiglia, ma la panza sì, qualche vizio pure e se credi che l’esito del mio lavoro sia un battito di ciglia e non esiga delle competenze specifiche, prego, fa da te. Ed, ecco, per stima intendo anche la certezza del singolo di essere unico, di aver sviluppato con la ricerca e la sperimentazione un’identità creativa individuale, arrivando a gestire una formula concettuale e estetica del tutto personale, niente a che vedere con quella del tizio dietro di sé, nè con quanto potrebbe fare un chicchessia in possesso degli strumenti tecno-tecnologici, ma non per ciò delle dovute cognizioni di ambito. È di questo che abbiamo bisogno: fare la differenza per produrre discrimini e opportuni elementi di valutazione così che l’uno non valga l’altro.
Io lavoro col video. Negli ultimi due anni mi sono sbattuta dalla mattina alla sera perché da grande voglio fare la direttrice di fotografia. A voi sembreranno pochi due anni, ma se di portfolio si tratta, vi mostro il mio. E a testa alta.
Si discute spesso del fatto che il nostro è il tempo della comunicazione per immagini, nonché del fatto che, nel tempo della comunicazione per immagini, l’evoluzione tecnologica ha democratizzato gli strumenti di produzione e la possibilità di ottenere belle immagini a basso costo e poco impegno, che la pura estetica spesso vince sulla ricerca del senso, laddove, invece, il low budget sembra ragionare su ben altri fattori che l’estetica e la qualità dell’immagine. Volete sapere cosa mi hanno lasciato due anni di esperienza nel settore? La sensazione che oggi realizzare un prodotto audiovisivo sia diventata sempre più una mera operazione esecutiva dai risultati preimpostati e standardizzati, mediocre al punto da diventare stomachevole.
Per quello che mi riguarda, mi sono presa del tempo lontano dal settore e ho riflettuto su quello che voglio fare e su come lo voglio fare, mi sono rigenerata. Non intendo rinunciare ai miei progetti e nei miei progetti, proprio perché li ho a cuore, rientra la voglia di non essere schiacciata, nè aderendo al livello dell’insignificanza, nè prestando le mie competenze a titolo di favore. Sono serena, un po’ per volta mi assicurerò quello che voglio. Gli Acqua Sintetica, invece, non demordono mai e hanno da pochi giorni lanciato online un altro videoclip degno di nota, Sex Appeal per i PloF distribuito da Pumpk Music e The Jackal, videoclip con il quale riconfermano – tanta stima per i miei ragazzi – la loro convinzione che i processi creativi devono svilupparsi attorno a un’idea forte, al di là dei panorami stucchevoli a cui ci siamo abituati e delle logiche di mercato. Il che è una modalità di rivolta persino ben più accetta della mia.
Ecco, colleghi – soprattutto voi con un certo fuoco primitivo nella testa, pensateci su, non siate coglioni! Perché qui l’unica cosa che stiamo producendo è il nulla, ve lo dico onestamente.
“La felicità è rivoluzionaria”
gennaio 8, 2014
Mood: conciliante
Reading: Jack Kerouac, On the road
Listening to: tic tac, tic tac, tic tac,
Watching: The Hobbit: The Desolation of Smaug di Peter Jackson
Eating: melone
Drinking: tisana della buonanotte
Nine Feathers – Heidi Harris (ft. Eta)
“È mia precisa missione dirlo a tutti.”
***
E comunque se la storia della collaborazione tra Heidi Harris – Astoria, New York, USA, America – e Eta – Utrecht, Olanda, Europa – è già di per sè particolare [si veda qui],
quella che sta dietro Nine Feathers lo è ancora di più. La storia è questa:
Ottobre 2012, «E dopo?»
ottobre 27, 2012
Mood: sereneggiante
Reading: Paola Bressan, Il colore della luna
Listening to: Bonobo – Noctuary
Watching: Nuovomondo di Emanuele Crialese
Eating: latte e biscotti
Drinking: caffè
Questo ottobre 2012 è un mese inequivocabilmente degno di nota nella mia vita. Per la prima volta in ventitré anni, l’inizio di un nuovo anno accademico non mi ha trascinata di fronte a una qualche cattedra con congruo professorone in tale eccelsissima scienza – senza sottigliare sul fatto che quando ero al liceo dovevo rientrare in aula il primo lunedì di settembre, quando, a Sud dove sono cresciuta, tutto il resto dell’umanità se ne sta ancora abbarbicato sugli scogli per sfuggire alla bollitura a secco e mai nessun istituto si sognerebbe di aprire le porte di quella che sarà certamente una fornace, nessuno tranne il mio che era speciale e aveva anche le reti di sicurezza alle finestre.
Ritornando indietro di qualche riga, fino a prima dell’inciso, e riprendendo le fila del discorso, si tratta di una cosa che letteralmente deforma il tempo di ogni giorno per come ero abituata a viverlo e questo un po’ mi confonde, ma per lo più mi sconfinfera perché adesso, senza darmi alla nullafacenza, né sollazzarmi oltre misura, finalmente posso starmene con i muscoli di qualche centimetro più distesi e persino concedermi un diletto di tanto, in tanto.
Facendo i conti in rapidità, a oggi mi trovo a un esame, una tesi e una dissertazione di distanza dal mio brillante foglio di carta da incorniciare nello studio che mai avrò. A febbraio avrò azzerato anche questi numeri,
«E dopo?»
«Dopo arriverà», rispondo generalmente.
Ebbene, la mia potrebbe definirsi una crisi communis da laureando in merito alla quale non c’è bisogno di aggiungere alcunché. Effettivamente ci sono giorni che mai come adesso mi sono sentita tanto uguale a tutti gli altri.
In realtà io, se mi metto la testa alla rovescia, chiunque potrebbe vedere che non è vuota, ma che è frullata ininterrottamente da un gran numero di idee tutte di prima classe, desiderabili e persino attuabili, ma tutte intrugliate con un numero superiore di eventualità, cause e effetti precisabili da me, dagli altri, dalle situazioni, dal caso, cioè da tante cose che – chiunque converrà con me – variano di giorno, in giorno, e sulle quali non si può fare affidamento quando si tratta di prevederne gli esiti. Un matematico definirebbe questa condizione “sistema complesso”, se fosse più pignolo “sistema caotico”.
Del resto io, se mi metto a pensare al dopo, mi distraggo subito perché non voglio fare come chi se ne va lontano dal presente a causa di un’attrazione superiore per il futuro che, invece, io dico, si riempirà delle cose che saranno passate sicché adesso mi limito – se di limitazione si può parlare, senza farmi torto – a vivere al meglio che posso tutto quello che mi circonda, “sistema complesso” incluso.
Accordo però che, tra gli elementi che mi rimescolano il cervello, il più frequentemente a galla è esodo
1 // da me che, determinata come sono nell’inseguire quello che voglio e abituata a superare ogni momento di crisi, non ho voluto riconoscere di essermi ridotta con i nervi a pezzi nell’ultimo anno, errore mai tanto grande perché adesso l’unica cosa che mi va a fagiolo è stare appesa a testa in giù dal ramo di un albero mentre il mondo fa avanti e dietro e io lo interiorizzo per alimentare il mio genio ammutolito.
2 // da uno Stato che, miseria di offerta di lavoro a parte – a maggior ragione per eretiche come me che osano pensare di poter svolgere una professione di appannaggio maschile –, ma non del tutto, si arricchisce di “puttanieri, faccendieri e tragattini”, demolisce continuamente i diritti fondamentali dell’essere umano in virtù di una legge tutt’altro che laica, millanta un ideale di democrazia che non bacia la realtà tanto più perché è vuoto fin dalle origini dei concetti di cittadino e di popolo sicché tutti l’importante è il mio piatto di pasta due volte al dì, per quello si può scendere in piazza, fottere e ammazzare, ma del bene comune, dello Stato sociale – quei famosi – chissenefrega, e quali virtù, quali beni può trasmettere tutto questo al piccolo figlio – che forse mai avrò – quando dovrà insegnargli a stare al mondo, quale serenità a me che non mi ci riconosco e che me ne vergogno? Dicono che ho il dovere di essere arrabbiata e giuro, lo sono. Fino a qualche anno fa, sarei anche stata nelle schiere di chi resta a dare capocciate contro i muri, guadagnando infine [con tempi da olocene] piccole crepe interstiziali – tanta stima a riguardo –. Ma onestamente io, non che abbia mai affinato un forte sentimento di italianità e questo scombussola un po’ i fatti: oggi andrei via perché vedo mancare le condizioni per restare o forse semplicemente perché oggi sono geneticamente italiana più di qualche anno fa e voglio interessarmi di me soltanto e non dell’Italia.
Fra l’altro, prima o poi, dovrà arrivare il momento in cui fare per davvero i conti con la mia irrequietezza che tanto mi spinge a vagabondare, tanto mi tormenta – talvolta morbosamente – con la ricerca delle radici.
Nella caosmosi sociale contemporanea
settembre 23, 2012
Mood: calmo
Reading: fogli pseudo-muti su un certo linguaggio di programmazione
Listening to: The Tallest Man on Earth – I Won’t Be Found [risveglio suggerito da Eta]
Watching: Price is Rice
Eating: frutta
Drinking: caffè
Nella caosmosi sociale contemporanea, il numero infinito di informazioni e immaginari inviato simultaneamente da macchine trasmittenti di ogni tipo verso innumerevoli riceventi provoca nelle menti umane una diffusa perdita di coscienza e di intensità a causa dell’impossibilità biologica a assorbire e elaborare (“secondo le modalità intensive del godimento e della conoscenza”) tutti gli stimoli in arrivo con la stessa velocità (sempre più) impetuosa con la quale invece la tecnologia-comunicazione li genera.
“L’esperienza dell’altro si snerva, si banalizza; l’altro, divenuto parte di una stimolazione ininterrotta e frenetica, perde la sua ricchezza e singolarità, perde la sua bellezza. L’altro suscita sempre meno curiosità, sempre meno sorpresa, tende a divenire fonte di irritazione. Nella relazione interumana prevale allora il fastidio, l’ansia, la paura e alla fine l’aggressività. […]
Si deve partire dalla sofferenza della relazione, si deve catturare il piacere della relazione se si vuole riformare la sfera sociale, se si vuole sottrarre la società alla paura, all’aggressione, alla guerra al fascismo.”
[Franco Berardi Bifo, Ciberspazio e cibertempo]
“Oggi non è più possibile pensare o parlare del mondo, dell’esteriorità, come se fosse qualcosa di completamente indipendente da noi. Anche e soprattutto dal punto di vista delle trasformazioni sociali, il mondo è sempre di più una nostra costruzione. Il mondo è sempre di più un campo di possibilità, e non qualche cosa che viene dato una volta per tutte. Comprendere questo è la precondizione indispensabile per poter costruire qualunque strategia di riqualificazione del simbolico, anche di riscrittura delle regole del patto di convivenza che lega gli uomini l’uno all’altro.”
Del perché sono vegetariana
agosto 16, 2012
Mood: zen
Reading: dispense sinonimo di esami in avvicinamento
Listening and Watching: Devendra Banhart – A Sight To Behol (Live Jools Holland 2004)
Eating: crepes ai funghi
Drinking: caffè
Se “una persona ben nutrita, ben vestita, bene alloggiata e per ogni altro rispetto ben assistita, può essere persuasa a fare una data scelta tra un rasoio elettrico e uno spazzolino da denti elettrico” – lo scrive il più illustre di me J. K. Galbraith ne Il nuovo stato industriale, io che per grazia concessa al principio del mio tempo appartengo a questa specie di persone posso permettermi – volendo, il lusso sfrenato – di ragionare su cosa mangio cosa voglio mangiare sul perché sì perché no traendone conclusioni da porre in atto.
Si risolve con questo articolato esercizio linguistico celebrale il tormento di anni e anni di pranzi – con amici parenti amici di parenti amici di amici parenti di amici parenti di parenti – causato dal non sapere come dire perché sono vegetariana al lì presente curioso incredulo sconvolto estremista mistico onnivoro altrimenti carnivoro di turno [a cui il boom economico degli occidentali anni Cinquanta sembra aver lasciato il sospetto della panza vuota del dopoguerra più che la consapevolezza dei tempi più prosperi bene o male e checché se ne dica] senza ammorbarlo con dissertazioni meno concettualmente concentrate – oltre che meno romantiche rispetto alle aspettative – in merito a non condivise meccaniche economiche sociali ecologiche date al contemporaneo dai secoli dei secoli amen, Vuoi sapere perché non mangio carne?, prova a pensarci almeno nel mentre smetti di ammorbarmi.
A onor del vero, le discussioni alimentari in special modo quelle protratte davanti ai piatti pieni nelle ore cruciali della giornata sono quelle che più mi esasperano tanto più perché io col cibo, vegetarianismo a parte ma non del tutto, ho instaurato da subito un rapporto molto intimo e complesso che a sviscerarlo ne verrebbe fuori un trattato programmaticamente abortito fintanto che non avrò trovato il modo adeguato per scongiurare i patetismi.
Markette
marzo 1, 2012
Mood: esausto
Listening to: Milano che si evolve
Watching: Milano che resiste nella Milano che si evolve al tramonto, pura poesia concreta
Playing: a non finire schiacciata in un triplo fuoco
Eating: schifezzuole a volontà ed esperimenti culinari impegnativi come pasta, panna per dolci e insalata cotte (ai fornelli, Lou)
Drinking: birra doppio malto, la carica dell’alcool quando c’è da fare e manca il tempo e allora ogni notte è buona
Che andare a far markette sia una meccanica alquanto diffusa per assurgere alla sopravvivenza dato il mondo com’è oggi s’intende.
Che io negli ultimi tempi mi sia data a piene mani per la pratica è chiaro – latente – abbastanza, sono ormai lontani gli anni gloriosi tutta d’un pezzo prima di andare in crisi con gli idilli e i furori sentimentali le ascesi.
L’epifania – non troppo – del caso dopo averlo saggiato è che, in termini di sopravvivenza, andare a far markette nel parcheggio dello stadio è cosa assai più onesta e snella da burocrazia occulta forse persino appagante.
Il problema – non proprio problema – del caso dopo averlo saggiato è che, sempre in termini di sopravvivenza, andare a far markette non si confà per niente a me medesima questa cosa bisogna che la tenga in conto nei giorni a venire e lo farò sopravvivere altrimenti vivere altrimenti si può, tanto spreco cinetico senz’anima e passione concluso in se stesso e sempre prossimo ai fondi vuoti senz’aria dell’esistenza è per la mia pancia un pugno dritto senza preavviso, una porcata estrema con cui non posso non voglio conciliarmi.
Comunque, non ci giro attorno, Markette è l’operazione mediale con la quale pianifico la gloria di questo spazio uéb dove le chiavi di ricerca a tema porno sono quelle che vanno per la maggiore, lo dimostrano le statistiche.
Soddisfazioni grandi.
Ecco.
A Roma soltanto
ottobre 15, 2011
Mood: inquieto
Watching and listening to: la diretta RaiNews da Roma
Drinking: tanta acqua
Oggi 952 città in oltre 82 Paesi sono state occupate dagli Indignados.
A Roma soltanto la protesta si è fatta guerriglia. In diretta RaiNews io vedo autonomi sfondare le banche ed i negozi, le agenzie e le sedi istituzionali, polizia e carabinieri caricare la folla, fumogeni e sampietrini volare, bombe carta esplodere, autonomi mettere a fuoco automobili, polizia e carabinieri manganellare, fumogeni e sampietrini volare, bombe carta esplodere, autonomi fare razzie, polizia e carabinieri lanciarsi tra i manifestanti in camionetta, senza frenare se qualcuno gli si para davanti, fumogeni e sampietrini volare, bombe carta esplodere, ambulanze andare avanti ed indietro, autonomi feriti, polizia e carabinieri feriti, un blindato della polizia esplodere in mezzo alla gente, sembra un bollettino di guerra, sembra Genova durante il G8.
A Roma non c’è nessuno che abbia ragione e nessuno che abbia torto. A Roma non si sta costruendo nulla, in nessun modo la violenza è legittimabile. Ma senza ingegnarsi in semplicistiche considerazioni di giudizio, a Roma, sta traboccando dal vaso un concentrato di disperazione per un futuro che sta morendo. E, al di là della crisi mondiale, che un tale concentrato di violenza ci sia a Roma soltanto dovrebbe far riflettere su certi modi particolarmente oligarchici ed offensivi tutti all’italiana di considerare la dimensione statale, sociale, economica, politica, culturale ed umana.
Peccato ci sia ancora chi banalmente parla di teppisti e di polizia. Peccato perché non c’è un bel cazzo di niente da minimizzare.
Oggi io mi sento davvero tanto indignata.
C’era una volta…
ottobre 5, 2011
Mood: in movimento
Reading: Wikipedia: comunicato 4 ottobre 2011
Wathcing: Leica Fail
Listening to: le parole spezzate dentro
Eating: uva
Drinking: acqua
C’era una volta lo spirito tecno-utopico della rete Internet: concatenare persone ed informazioni, liberandole dall’egemonia culturale (o sculturale come ogni egemonia) dei media tradizionali, per valorizzare il dibattito e la cooperazione.
Poi è arrivato il porco governo italiano.
Ed ullallà, il comma 29!
Salutiamo, caliamoci le braghe e prostriamoci.
E adesso fuori i manganelli.
Èvento a Milano!
Maggio 28, 2011
Mood: tranquilleggiante
Reading: gli appunti di direzione della fotografia, in vista dell’esame
Listening to: Freshlground – Pot Belly
Watching: 27 maggio 2011 – Évento
Eating: pan di stelle
Drinking: latte
Alle 20.30 circa ieri, Milano se ne stava col naso all’insù. Dicono che l’arcobaleno arrivi solo quando il tempo cambia davvero. Ed a Milano, ieri sera, ne è spuntato uno doppio.
Sempre a Milano, sempre ieri sera, in Piazza Duomo, un’orda arancione cantava e ballava “Tutta mia la città, un deserto che conosco, tutta mia la città, questa notte una donna piangerà.”
E’ persino bella, Milano, quando spera.