Berlin-Friedrichstraße

aprile 30, 2015

Mood: vasto
Reading: Italo Calvino, Lezioni americane
Listening to: Angus & Julia Stone – For you
Watching: Borgman di Alex van Warmerdam
Eating: a grandi morsi
Drinking: tea



«Friedrichstraße era la stazione di confine tra Berlino-Est e Berlino-Ovest.
Qui un sacco di amanti si sono lasciati piangendo.»

Sul Kottbußer Brücke, a Berlino, ho visto un uomo piangere, aggrappandosi stretto a un altro. Si sono dati le spalle tutt’e due quando quell’abbraccio non avrebbe potuto essere più forte in alcun modo e si sono allontanati seguendo due direzioni opposte, senza mai guardarsi indietro. Uno si è infilato in un taxi, l’altro – quello che piangeva – è disceso lungo la strada che fiancheggia il Landwehrkanal, in direzione Treptow, laddove il canale si divide.
Ho pensato a lungo a quell’occhio azzurro versato in una lacrima e al significato del disinnamoramento, pur senza capire come funzioni per logica perché a forza di pensare ho perso il senso dei miei pensieri. O forse perché la logica non è uno strumento abbastanza adeguato al nostro caso. E a Friedrichstraße, amore, ti ho ascoltato raccontarmi la storia degli amanti a Friedrichstraße e mi sono intristita. Mi dispiace soltanto non averti detto, amore, lasciamoci a Friedrichstraße, amore. Se anche avessimo sogni più simili, non potrei disseppellire l’amore che ho perso amandoti, amore. Non essere triste.

Parole

aprile 13, 2015

Mood: terso
Reading: Italo Calvino, Lezioni americane
Listening to: Paolo Nutini – Iron Sky
Watching: Kacper Kowalski’s
Eating: cioccolata, un pensiero fisso
Drinking: fiori ed erbette



A metà pomeriggio della domenica di Pasqua, sono stata sopraffatta da una domanda infinitamente pressante e ho trascorso minuti lunghi a guardare la neve cadere bianca sulle cime verdi di Sankt Georgen im Schwarzwald. Ho continuato a guardare anche quando i fiocchi hanno smesso di mulinare per aria e tutto si è fermato a respirare sommesso sotto una spessa coltre lattea. Perché la scrittura mi è venuta a mancare? Scrutavo il paesaggio – silenzio – e a ogni minuto che passava la domanda diventava più assillante, l’assenza di un qualsiasi confronto a tu per tu con le parole più pesante.
Mi dicevo: è perché sto vivendo con un tale slancio che diventa difficile trattenere qualsiasi cosa e, all’improvviso, di fronte a questa osservazione, mi sono sentita sperduta. Peggio della domanda che mi stavo ponendo c’era una cosa soltanto: non provavo alcun disagio. Ma pur sempre qui si parlava della perdita della scrittura, la scrittura! per cui da sempre ho un debole, un certo amore, una certa ossessione. E, si capisce, il fatto di non avvertire alcun disagio mi metteva a disagio, tutto ciò non so se è un bene, non so se è un male. Ma non è poi così necessario venire al bene e venire al male in questi termini.

Sono passata alle uova nascoste in giardino, al te nero con la torta al rabarbaro e al solletico tra le lenzuola pulite, alla fiducia nella felicità che provo d’istinto. E sono rimasta di nuovo con zero parole, ma come prima di domandarmi perché la scrittura fosse venuta a mancarmi, voglio dire serenamente. Ho idea che, se mi lascio respirare, le parole mi torneranno tra le mani.

Mood: esausto
Reading: J. S. Foer, Se niente importa
Listening to: Patti Labell & Moby – One Of These Mornings
Eating: gnocchi e pizza di patate e pesantezza di stomaco
Drinking: camomilla




dorotea pace photography

Italy, Bergamo-Orio al Serio Airport, 03 December 2014

Milano inizia lontano dai cinema, dai caffè e delle boutique abbaglianti. Inizia negli interstizi vuoti del mio cuore. È andata così fin dal primo momento. E ho l’impressione che, proprio nel rinnovarsi di questa formula, io mi senta a casa, a Milano – una casa possibile.

Mood: tritolo [sottopelle]
Reading: Jonathan Safran Foer, Se niente importa
Listening to: Eva Cassidy – Time After Time
Watching: Only God Forgives di Nicolas Winding Refn
Eating: biscotti dolci
Drinking: infuso di zenzero




planimetria

“La conquista dello SPAZIO*

da sognare/da pianificare
da articolare/da solcare
[da illuminare]

da abitare
da vivere.


O ancora:
mi preparo un’altra volta a traslocare.



* Georges Perec, Specie di spazi

Migratoria

giugno 24, 2014

Mood: disordinato
Reading: Bruce Chatwin, Invasioni nomadi, in Che ci faccio qui?
Listening to: Woodkid – The Great Escape
Watching: Sia – Chandelier (Official Video)
Eating: fragole
Drinking: caffè



Ci sono 2444 km tra me, la mattina specifica del 13 giugno, e me, la particolare sera del 17 giugno. Sono migrata in una notte da Rijswijk, a Rotterdam, a Gent, a Anversa, a Lille, a Londra – stop di due ore –, attraversando la Manica su un traghetto che ha costeggiando le Bianche Scogliere di Dover all’alba successiva, poi da Londra a Sheffield, a Wakefield, a Newcastle, a Edimburgo nelle prime ore della sera e indietro, tre giorni dopo, da Edimburgo a Newcastle, a Wakefield, a Sheffield, a Londra tutta una filata nel buio e da Londra a Lille, incapsulata in un autobus in un treno in un budello sotto le acque de La Manica, e poi a Anversa, a Gent, a Rotterdam, a Rijswijk, al calare del sole.

Ho portato sulle spalle il mio cosmo per 2444 km, la terra e il cielo, l’orizzonte e le sue stelle, ogni ciclo di vita, morte e rinascita. 2444 km non sono pochi. E in 2444 km sono uscita dalla vita e ci sono rientrata tante volte quante l’autobus che mi conduceva da una stazione all’altra, insieme a un carico scialbo di passeggeri più un essere umano a me caro, si è fermato ed è ripartito, di volta in volta ricompattando il mosaico di paesaggi e linee di fuga nello spazio sterile di un parcheggio già deputato a una successiva e immediata disintegrazione in nuovi paesaggi e linee di fuga, così per 2444 km.

È difficile in questa sede andare fino in fondo ai pensieri e alle emozioni del mio cosmo in quei giorni, sono complessi e riguardano troppi aspetti differenti della mia vita, ma si dà il caso che spostamenti simili a quello di cui sopra soddisfino per allegoria la mia necessità enterica di nuovi inizi: “la migrazione è di per sé un fatto rituale”, mi ricorda Chatwin, “una catarsi ʿreligiosaʾ, rivoluzionaria nel senso più stretto della parola in quanto l’atto di piantare e togliere il campo rappresenta ogni volta un nuovo inizio. Ciò spiega la violenza con cui un nomade reagisce quando qualcuno blocca le sue migrazioni. Per di più, se accettiamo la premessa che la religione sia una risposta all’inquietudine, allora il nomadismo deve soddisfare certe fondamentali aspirazioni umane che la stabilità non soddisfa.”
Il mio definiamolo nomadismo è nato, qualche anno fa, da un territorio troppo sterile perché potessi ipotizzare cosa fosse un sereno appagamento, il riguardo nei confronti di me stessa che è una cosa meno fine a se stessa di quanto possa sembrare. Per quel che mi riguarda, il movimento è metabolismo. Inizia di solito con un certo imbarazzo, se non proprio con la fame o con un’indigestione violenta. Di conseguenza, non posso far altro che spostarmi, pena la morte per astinenza subita o auto inflitta nel tentativo angoscioso di ritrovare la leggerezza. Mi lascio dietro qualcosa a ogni fermata e nuova partenza, è un dato di fatto che il movimento innesca le reazioni chimiche e fisiche di degradazione e trasformazione della materia e che allo stesso tempo, se non per concausa, sintetizza e libera nuove energie, alimentando lo spirito a nuove prospettive. Tutti i miei stati migliori li partorisco alla fine viaggiando, quando creo spazio espandendomi. C’è in questa formula qualcosa che tanto mi consola quanto mi eccita ed è nel cuneo tra queste due impressioni che respira la mia serenità.

Avrei potuto prendere un aereo: Amsterdam-Edimburgo, avendo fondamentalmente bisogno di essere a Edimburgo il 15 giugno in occasione della proiezione di Dreamer all’Edinburgh Short Film Festival. Ma avvertivo di più l’esigenza particolare di un passaggio intorno alla geografia delle mie emozioni e così ho rivendicato come miei 2444 km totali dentro un autobus. Credo volessi stremarmi, scivolarmi fino al limite delle mie sensazioni, abbandonata come sarei stata di fatto a un movimento organizzato e immutabile nell’alcova fastidiosa di una poltroncina strizzata tra cento altre.
Si aggiunga che allo stesso tempo io abbia avuto l’opportunità di segnare un percorso predisposto, di intaccarlo con decisione e questo perché i 2444 km che ho appena compiuto non sono stati per me un percorso a caso, piuttosto un sentiero che ha collegato alcuni dei luoghi e degli esseri umani che, in momenti molto diversi, sono stati tra i più fecondi e sui quali riverso un particolare attaccamento affettivo. Mi piacciono gli spazi del ritorno perché fanno luce sul presente e a loro volta si fanno illuminare da esso: in questo modo diventano la prova visibile dell’intreccio delle migliaia di vie del sentire e la vita si arricchisce all’istante col senso del cambiamento che è quando realizziamo di essere, esseri umani – materia emotiva – all’interno di un intrinseco processo evolutivo senza fine, processo evolutivo noi stessi, atto nobile di libertà spirituale.
Riconosco in questa visione dei fatti il mio impulso tenace a travalicare, forse anche a travalicarmi. Come se un giorno potessi salirmi in cima e da lì sopra stare a guardarmi,

mi sto guardando.


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Scotland, Edinburgh, Arthur’s seat, 16 June 2014,
tre mesi esatti dopo la prima scalata.

Strutture essenziali

marzo 31, 2014

Mood: zen
Reading: Margaret Mazzantini, Venuto al Mondo
Listening to: Meg – Succhio Luce
Watching: The Grand Budapest Hotel di Wes Anderson
Eating: con la cannuccia
Drinking: caffè con cannuccia



Comunque vada e ovunque vada, l’artefice della propria vita che si trovi a tras-locare dalla benevola condizione della sua normalità a una realtà del tutto nuova si darà con vigore a ricostituire la forma ideale del proprio spazio esistenziale, essendone mosso il desiderio dalla necessità nonché dalla nostalgia.

Un anno fa ero appena arrivata in Olanda, un anno lento e pesante che ha richiesto uno sforzo esagerato alle mie risorse di entusiasmo. Vivevo all’epoca una specie di atarassia trasformatasi in inadeguatezza sensoriale nei mesi seguenti. Mi aspettavo che in capo a qualche settimana tutta la mia vita si sarebbe riconformata e non soltanto con l’assolvimento dei fatti burocratici, un indirizzo civico e qualche lavoro temporaneo, quanto piuttosto attorno a piccoli embrioni di rapporti e circostanze ideali. Per un lungo periodo di tempo le cose non sono state elettrizzanti. Trovavo la situazione particolarmente frustrante. Mi sembrava che la vita si svolgesse troppo lontana da me. E ci sarebbe da dire che mortificavo i miei piccoli ottenimenti quotidiani tanto più mi crucciavo con l’aspettativa di qualcosa di meglio. Intanto, ne smuovevo di cose e di cose ne accadevano!
L’ho compreso in un abbraccio. Non uno come quelli di circostanza, ma un abbraccio così d’impulso da essere totalmente fuori luogo: una sera in un ristorante fra gente sconosciuta, mentre servo ai tavoli un pasto dietro l’altro tre per volta, bottiglie di vino e vassoi di bicchieri instabili. L’imprevedibilità dell’evento ha di che svuotarmi da ogni asprezza. Mi sento in pace. Respiro stretta contro una spalla amica in Olanda e a mia volta stringo forte.
Ho realizzato in questo momento che, dozzine di volte nel corso dell’ultimo anno, ho sentito mancarmi gli abbracci, chi si muove poco dalle proprie amicizie e consuetudini più preziose farà fatica a immaginarlo.

La mia struttura essenziale – da giorni ci penso – è quella dell’abbraccio. Un abbraccio è un insieme, intendo una forma di più elementi che, sebbene preesistenti singolarmente all’insieme, insieme determinano un nuovo carattere. In questo senso, nella tensione rotonda di un abbraccio coesistono una domanda e una risposta, l’espressione più elementare – attraverso la fisicità – di un’offerta e di una reciproca accoglienza nuda. Di modo che l’interno di questa conca ospitale diventa lo spazio in cui non solo ci si riconosce, ma soprattutto ci si è riconoscenti, grati, meravigliati. Così ci si aggrappa alla vita. E si comincia a sentirsi parte di un luogo, di un’idea, di un gruppo, di un sentimento, di un evento, a conti fatti, del corso dell’esistenza stessa.

La procreazione, il big-bang. Tutto potrebbe cominciare da un abbraccio.


[A Tara.]
Mood: sereno
Reading: Janne Teller, Niente
Listening to: Steve Miller Band – Mary Lou
Watching: Her di Spike Jonze
Eating: concentrati di calcio e vitamine
Drinking: acqua




dorotea pace
dorotea pace
dorotea pace
dorotea pace
dorotea pace
dorotea pace

Scotland, Edinburgh, Arthur’s seat, 16 March 2014. Marilù and me.

Mood: irrequieto
Reading: Jack Kerouac, On the road
Listening to: Cowboy Bebop OST 2 No Disc – Don’t Bother None
Watching: Arcade Fire – Afterlife live agli YouTube Music Awards. Diretto da Spike Jonze.
Eating: pane nero
Drinking: latte di nocciola



Domani voglio salire sul primo treno che capita e non badare alle destinazioni perchè tutto quello che mi interessa é consegnarmi al movimento del mondo e leggere finchè ne ho voglia.

Parentesi grassa

“Non riuscivamo neanche a immaginarlo, il viaggio. Era il più incredibile di tutti quelli che avevamo fatto.”

[Jack Kerouac, On the road, Parte Quarta]

Intro-[…]

ottobre 21, 2013

Mood: pacato
Reading: Bruno Schulz, Gli uccelli, in L’epoca geniale e altri racconti
Listening to: Laura Marling – Little Love Caster (Live on KEXP)
Watching: Screen Lovers di Eli Craven
Eating: cavatelli con funghi e carote
Drinking: caffè



Sono successe molte cose diverse nell’ultimo mese. Soprattutto mi sono sentita priva di senso, insoddisfatta e inadeguata alla tensione che ne è conseguita tra una docile nostalgia dell’annullamento e un dispotico anelito vitale.

Mi sono messa in cammino. Ho percorso un ritorno silenzioso dalla mia nuova condizione esistenziale alla terra in cui sono nata e alla casa in cui non ho mai avuto più di diciotto anni, a Milano e ai suoi flussi rapidi di ricambio, alla condizione esistenziale infine da cui sono partita, ma non proprio la stessa, piuttosto la condizione esistenziale visibilmente rinnovabile – pertanto già rinnovata in una qualche misura – da cui sono partita.

Il fatto, ho l’impressione nasca da dentro, da uno sforzo titanico eppure minimale all’apparenza di intro-spaziare e intro-ispezionare,
‘ché io sempre, tutte le cose migliori le colgo mentre sono in movimento e, andando, riconquisto la certezza di avere i piedi robusti quanto basta e anche più per poterle inseguire.

“Ma sì, adesso mi faccio trascinare dalla bufera attorno al distributore,
fintantoché non mi spuntano le ali.”
[Werner Herzog, Sentieri nel ghiaccio]


dorotea_pace

Italia, Puglia, Monopoli, 28 settembre 2013


Mia nonna quando sono andata a trovarla in cima a uno dei cinque colli del paesello, se non fosse stata solo una fotografia sul marmo di una lapide, mi avrebbe detto Datti da fare, Dorotea, come se mai fosse abbastanza.

Tras-locare #5

agosto 20, 2013

Mood: decisivo
Listening to: Krista Polvere – Jack and Me
Watching: Francesco Paolo Catalano’s
Eating: crema pasticciera fresca
Drinking: caffè



Sono sbarcata all’aereoporto di Düsseldorf il 30 aprile per poi fare rotta verso Rijswijk, Olanda. C’era il sole tiepido e qualche fiocco di neve andava per aria. Ho cercato mio padre tra quelli in attesa e tra quelli appena sbarcati in attesa di quegli altri che avrebbero dovuto essere in attesa, ma erano in ritardo. Come ogni volta negli ultimi due anni all’aereoporto di Düsseldorf ho sostato tra quelli della seconda categoria, il che mi ha concesso di starmene per un po’ al sole, offrendo il corpo intero a profonde infiltrazioni di levità. Mi piace tanto quando c’è il sole sulla pelle nuda, ma fa anche un po’ freddo e bisogna stringersi nei vestiti, la considero una disposizione elementare armonica, fra l’altro la più appropriata a figurare i miei sentimenti all’aereoporto di Düsseldorf il 30 aprile, va tutto bene, io sto benissimo.

Nei giorni a seguire, sono rimasta ben salda nella mia serenità, circostanza questa che ho considerato non priva di straordinarietà. Voglio dire, è risaputo che io punti buona parte del mio benessere sull’andare di qua e di là. Ma, trattandosi adesso di un tras-loco, in altri termini di un commiato dalla mia vita passata come fino a allora per andare a destreggiarmi in un’abbondanza di scelte e intenzioni, eventi e persone, argomenti di discussione e modi di passare la giornata che ancora non sapevo – ma per certo differenti –, mi è sembrato quantomeno una diavoleria non provare quella ragionevole misura di eccitazione e timore, di vaghezza baldanzosa e ansia sciolta che potrebbe considerarsi il segnale privilegiato di un qualsiasi tras-loco verosimile. Io, nell’abbondanza di sentimenti e stadi emotivi di cui avrei potuto disporre e tutti insieme, ero serena, mi renderò conto prima o poi di essere migrata?

Tanto ho considerato e riconsiderato la particolarità della situazione che a un certo punto mi è sembrata completamente inopportuna e, andandomene per così dire alla ricerca del turbamento, mi sono spinta nell’attesa di procacciarmelo a rintracciare le cagioni della sua insussistenza.
L’ho buttata su Pasqua – dopotutto uno spostamento dall’Italia per l’Olanda a Pasqua potrei percepirlo, preposta una rimozione coscienziosa, non diversamente dall’intera filiera di partenze per festività degli ultimi due anni,
poi su Parigi – dopotutto andarmene a Parigi con uno zaino in spalla senza neanche essermi sistemata in Olanda, potrebbe farmi sentire, sempre preposta una rimozione coscienziosa, al centro soltanto dell’ennesima peregrinazione.
Tutte analisi queste in proporzione alle quali mi è sembrato quantomeno ragionevole non avvertire da subito il disorientamento.

In tre settimane, entrando giorno dopo giorno sempre più scelte e intenzioni, eventi e persone, argomenti di discussione e modi di passare la giornata nella mia nuova quotidianità, ho congetturato che con buone probabilità non mi si sarebbe offerto mai neppure un minuscolo traboccamento d’incertezza.
A controprova, è risalito perfettamente verticale il ricordo del mio primissimo tras-loco che, nel suo essere innanzi ai successivi, preserva intatte le tracce di un evento essenziale, istintivo voglio dire e pertanto privilegiato.
Avevo allora diciott’anni e poca familiarità ancora col mio animo da rondine. Me ne andai dal paesello nel barese dov’ero nata a Siena, i documenti ufficiali dicevano per studiare archeologia, ma io non ho mai cercato di nascondere che fosse di fatto per vedere com’era la vita fuori tant’è che rinunciai agli studi sei mesi dopo e mi sistemai a Milano. Fu a Siena che per la prima volta io, dimostrando una sicura benevolenza e un interesse privo di remore e malinconie per la mia nuova situazione di fronte ai messaggi malfermi di quanti tra gli amici di sempre erano anche loro andati via dal paesello verso altre città e con diverse motivazioni, mi crucciai, ma senza espormi più di tanto, col sospetto di non avere un cuore, di averlo affogato magari in qualche risata o in un goccio di troppo in Piazza del Campo.

Ora, io mi aspetto il turbamento a ogni nuovo tras-loco perché mi sembra qualcosa da provare, se così succede in tutti gli altri. Lo cerco dappertutto, ma è una specie di garanzia che non arrivi mai e questo talvolta mi si pone come un difficile problema etico.
Per risolverlo basterebbe ammettere nel mio caso specifico che l’aspettativa del turbamento da tras-loco è un’illusione: comunque vada, è evidente che io nei panni del migrante ci sto comoda.
A ogni nuova stazione, porto, aereoporto, la mia impressione non è quella di arrivare o tornare, ma più spesso quella di stare. Per meglio dire, benché sia chiaro che qualsiasi confine vada rosicato prima di poterlo passare, io mi naturalizzo con serenità ai luoghi differenti che incontro perché, d’accordo, starò pure in un luogo, ma prima di tutto sto nella vita e la vita per me segue i flutti del mare e il soffio del vento, ha luogo, per così dire, ovunque. Sicché – se la familiarità non è che una congerie di costituenti della vita di tutti i giorni – ovunque esistono anche le eventualità con cui nutrire il mio senso di familiarità. Di qui in poi, preso in considerazione un valore temporale più o meno ampio a seconda dei casi particolari, con quel tanto di entusiasmo vitale e di sicurezza disinvolta in me stessa, le coglierò, confacendomi un posto da chiamare casa. Del resto, il sottotesto è per sua natura quello di una sfida, non fosse altro di un’ipotesi da confermare e a me ne basta il sentore per intestardirmi a volerla spuntare.
Sarebbe nient’affatto lungimirante rilevare nel mio sentire un qualsiasi tipo di incapacità d’affezione nei confronti della mia vita passata – come fanno taluni – o un atteggiamento mentale di comodo nei confronti di quanto mi trovo a vivere – come fanno tal altri.
Ci sono uomini che hanno la vita a comparti stagni, in ognuno un certo numero di scelte e intenzioni, eventi e persone, argomenti di discussione e modi di passare la giornata tra loro isolati – come se già non fosse un abbaglio l’idea di poter ripartire la vita, estromettendo un momento da un altro, una storia dall’altra, una causa dalla sua conseguenza. A queste persone costrette dentro una visione esistenziale striminzita sembra per esempio di iniziare una vita nuova ogni qual volta, mossi da un intento catartico, piombano un contenitore e cominciano a stiparne un altro facendo qualche accomodamento di qua e di là rispetto alla vita precedente, ma per lo più alla rinfusa e in maniera compulsiva finché non raggiungono il limite oltre il quale precipitano in un lungo periodo di stasi che è quando ci convinciamo di essere intrappolati in un universo immobile e non realizziamo di essere invece noi stessi un ganghero guasto e impalato di un sistema che a modo suo mulina senza sosta. In uno stato di cose così, la cassa toracica di questi esseri umani finisce per riverberare il desiderio soltanto di ritornare alle scelte e alle intenzioni, agli eventi e alle persone, agli argomenti di discussione e ai modi di passare la giornata ammassicciati nel reliquario di una vita oltrepassata, nonché perfezionata con disinvoltura e nobilitata nel tempo dai processi della memoria – una ben arzigogolata disfunzione reazionaria questa, tipica della specie.
Io no: la mia geografia esistenziale esprime una sorta di ideale pangenetico in virtù del quale ciascuno dei territori che mi do guarda gli altri, tutti riconoscendosi – sebbene alla deriva e al di là di grandi oceani – appartenenti a una stessa formazione anteriore che si è spezzata e si è dislocata e che continuerà a farlo per naturale moto e andamento delle cose. Non incidentalmente ci si accorgerebbe, analizzandole, che le linee costiere di ogni singola regione non solo aderiscono, ma si richiamano l’un l’altra dacché attaccato a ogni versante c’è un lotto che avrebbe potuto essere degli altri, cose come il piede di un amore dentro la gola di un altro o la secca salmastra di un vecchio fiume di lacrime salito al sole. Nella pratica, non esistono transizioni brusche a carattere volontario nella mia vita. Solo processi lunghi e metabolismi ininterrotti le cui necessità e finalità si formano mentre, così com’è intrinseco in qualsiasi processo evolutivo, certe scelte e intenzioni, eventi e persone, argomenti di discussione e modi di passare la giornata finiscono e, poniamo, ne iniziano altri, mentre il qui diventa l’altrove e l’altrove il qui, mentre un treno mi porta e un altro mi riporta, così io segno la mia rotta nel mondo.
Non che, mi si creda, quest’andamento sia disinvolto al punto da diventare scanzonato. Di tanto in tanto anch’io, avvertendo i presupposti di un tempo tanto diverso dai precedenti, emetto fiati nostalgici in direzione di luoghi lontani, senza necessità, né finalità. Ma non ho mai la sensazione di poter stare completamente bene in un ricordo inerte, inchiodandomici e smettendo di disporre d’una volontà sulle eventualità di ogni giorno. Ho notato, del resto, che la mia nostalgia ha sempre più spesso lo sguardo della tenerezza e della gratitudine, le modalità di un commiato in considerazione del fatto che mi porto dentro, come chi ha conosciuto l’irrequietezza tra le più divoratrici e l’ha sanata andandosene da un posto all’altro per scoprire quanto il mondo ha da sorprendere e emozionare un passo più in là del proprio naso, la convinzione che la vita inizia laddove inizia il movimento – che l’idea stessa di vita coincide con quella di movimento – e che se tutto quello che ho vissuto fa di me la persona che diversamente non sarei stata, non esiste uno stato di cose indegno d’essere o di essere stato esperito. Tutto produce, avendo imparato a coglierlo, nuovo materiale grezzo con cui costituirmi, farmi tesoro, io che in principio non possedevo nulla e questo nulla mi piaceva persino, finché non ho ingerito una molecola d’aria e la mia coscienza non ha iniziato a espandersi. Sicché, pur amando e tanto il punto da cui sono partita e ciascuno di quelli che ho attraversato, non smetto di muovermi, di inseguire il senso di una direzione.
Talvolta mi colgono ascessi di vita come stati febbrili – tanto più pressanti quando realizzo che la misura del mondo è di gran lunga più ampia del tempo a disposizione e dei miei organi di metabolismo. C’è così tanta vita dietro ogni cosa e tutta insieme. Tal altre volte, dallo stesso livello di profondità da cui questi ascessi di vita derivano, esala il timore di perderli e di perdermi per sempre. Ma poi mi rilasso e considero l’idiozia sottesa al tentativo di assicurarmi il vivere dal momento che si tratta di qualcosa che è spontaneo e che in ogni caso va avanti. Al più si tratta di vivere bene, senza affanni superflui.
Allora se di una cosa posso esser certa, parlando di me, è che per nulla al mondo sarei capace di cadere vittima dell’abulia e trarne appagamento. Tra i vari più o meno notabili nel bene e nel male che mi costituiscono, ho esercitato, desiderandoli ardentemente, un paio di marchingegni direi di meraviglia, ovvero l’entusiasmo che mi predispone a notare la bellezza e uno sguardo mobile col quale penetro tra i diversi livelli di esistenza della realtà, nonché la curiosità che mi pungola a non smettere di ricercare, mantenendo a distanza l’orizzonte.
È un’evidenza che in tutto questo ci sia la mia tensione alla felicità. E che in questa certezza ci siano le motivazioni stesse della mia felicità, se non altro della mia capacità di essere felice,

va tutto bene, io sto benissimo.
Effettivamente questa mia natura mi solleva.


[e con Tras-locare #5 chiudo l’argomento, per adesso.]
Mood: plumbeo
Watching: Jayne Mansfield’s Car di Billy Bob Thornton
Eating: muffin
Drinking: tea



Ho paura di perdere l’entusiasmo,
di arenarmi in uno spazio neutro, vuoto, ininteressante

– senza più esplorare nè desiderare, del tutto impreparata a meravigliarmi,
in poche parole, inabile alla felicità dentro me.


[Parigi, aereoporto Charles de Gaull. 11 aprile 2013.
A matita su uno scontrino – 2 espresso, 1 bombolone, 7.30 euro – che da giorni continuava a spuntare tra le pagine del taccuino con la copertina rigida verde e in ogni pensiero.
Poi oggi sono anche incappata in certe “reliquie di lavori che vengono conservati come tesori di cani sotto la terra del prato” di Sara Ricciardi, voglio dire i fili rossi.]
Mood: carico
Reading: Elogio dei fatti di Lee Marshall
Listening to: Vadoinmessico – Teeo
Watching: la Westland Floating Flower Parade attraverso Delft
Eating: yogurt alla vaniglia
Drinking: spremuta d’arancia




white sands | dorotea pace | photography

USA, New Mexico, White Sands. 28 luglio 2012


Io ho l’impressione che tutta la mia geografia interiore sia stata rimodellata dal vento d’America, non credo di sbagliarmi, ho scritto d’impulso al ritorno un anno fa.
E non mi sbagliavo affatto.

A distanza di un anno, il deserto, quando ci penso,
i crinali abbacinanti di fresca sabbia bianca a perdersi incastrati sotto i volumi del cielo bassissimo appartengono a quelle esperienze che se non avessi vissuto sarei per certo stata una persona diversa.

Mood: salvo
Listening to: Modena City Rambelrs – Notturno Camden Lock
Watching and reading: Jonathan Safran Foer, Tree of codes [finalmente tra le mie mani]
Eating: purè
Drinking: acqua




foto_camden_web

e l’uomo che meditando di guadagnarci 25 pences, ha insistito invece per donarmela.

Hotel Leonardo Royal

luglio 25, 2013

Mood: in rivolta
Reading: di orari di partenza e di orari di arrivo
Listening to: Jimmy Cliff – I can see clearly now
Watching: la farfalla notturna che zampetta su e giù lungo il monitor
Eating: il pane che qualcuno sta cuocendo e che il vento ha sgraffignato
Drinking: acqua



Tra l’una e le due di una già domenica a Düsseldorf, pochi passi in là dalla vacuità e dai corpi che sbattono al Nachtresidenz e più avanti in Bolkerstraße, una donna tra i venti e i trent’anni, schiacciata contro una colonna d’ingresso dell’Hotel Leonardo Royal – Graf-Adolf-Platz numero 8 e10 – si adombra dietro i suoi disagi la cui origine rileva senza tergiversare nell’uomo che le sta di fronte.
Si dedurrà dal fatto inconsueto che quest’uomo e questa donna smezzano un pacco di patatine di mais con indifferenza di fronte a un hotel di un certo lusso – lounge in moquette a motivi geometrici color vinaccio e beige, dotata di portiere in livrea e piano bar dai profili dorati il tutto avvolto in un’atmosfera soffusa e luccicante emessa da abat-jour e luci a cascata –, completamente incuranti della porta a vetri automatica che continua a aprirsi e chiudersi a causa dalla loro eccessiva vicinanza, si dedurrà da questo la natura giocosa del loro rapporto, spensierata azzarderei se non andasse in contrasto con l’intimo assetto della donna in questo momento,

E se restassi qui stanotte? Mi intristisce particolarmente sapere che stai andando via.
Perché solo poche ore fa passeggiavamo attorno alla sponda sinistra del Reno e nella piena di gente sull’Oberkassel Brücke, a quarantasette metri e mezzo di altezza dove il vento è più forte, ma non abbastanza da coprire lo sferragliare del Größte Kirmes am Rhein, noi ci siamo fermati in silenzio a vedere il sole spegnersi dietro la linea dell’orizzonte e tingerla di un arancio così intenso che per qualche secondo di seguito avremmo visto il mondo in blu e tu ti sei stupito che nessun altro lo facesse come noi, a me sorrideva proprio lo stomaco.
Insomma, se restassi? Te lo chiedo perché ci sono tante cose che succedono quando ti guardo e quando ti ascolto e non tutte le capisco. Allora desidero sapere se secondo te esiste – nel caso – una possibilità per noi di riempire tempi più lunghi di un incontro fuggevole, intendo dire più lungo, non per forza per sempre perché in tanti – immagino – dicono «Per sempre» e poco dopo non si riconoscono più, io non sono così.
Dopotutto c’è questo fatto che da mesi ci ritroviamo con naturalezza a qualche capo improbabile del mondo, in circostanze di volta in volta diverse e di sorpresa e, questa è la cosa più straordinaria, sempre mi emoziono in quel modo lì che rende distanti e superflui molti altri aspetti del mondo. Come oggi quando ti ho lasciato un messaggio e tu sei arrivato, il portiere ti ha detto in quale camera mi avresti trovata – 306 – e tu mi sei venuto incontro con una scatola di te e dissimulando a fatica un certo imbarazzo per il luogo inusuale finché non mi hai vista a piedi nudi. Non hai tardato a dirmi che sei davvero curioso di sapere dove ci incontreremo a questo punto la prossima volta,
ma se restassi?

E proprio qua, si fanno avanti le traveggole: ovvero il sospetto che la sola domanda possa fare male a entrambi, riaccendere la malinconia che dietro allo sfoggio dei sorrisi poggia appena sopra una polveriera, nello specifico una somma di piccole immagini e gradi sensazioni di retaggio dalle rispettive storie d’amore del passato, intendo amori di quelli massicci tanto massicci da sembrare unici e inamovibili anche – e a maggior ragione – quando restano spogli del loro quotidiano, a meno di non considerare il richiamo incessante alla memoria che avviene attraverso le più piccole cose di ogni ora e le riempie, per meglio dire amori di quelli in cui – ne sono consapevoli entrambi, vivendoli – si resta in una qualche forma nel più ostinato dei modi come al limite di un vizio insostituibile, sicché la sola domanda – ma se restassi? – sarebbe come insinuarsi senza garbo, né discrezione in uno status quo e profanarlo, questa è l’ipotesi sconcertante e insopportabile. Meglio seppellirle domande così,
come si fa a restare essendo ancora appesantiti lungo il fianco di un altro amore insoluto?
Non che in linea etica non si possa, questa donna lo sa, ma a meno di non avere due vite da passare la prima con l’uno e la seconda con l’altro, servono scioltezza e stabilità interiore per amare in modo schietto e genuino – incredibilmente profondo – un essere umano avendone già in animo un altro con tutta la geografia enucleata. Perché qui non si tratta di essere una misura in più o in meno di qualcun altro del passato, né si tratta di trovarsi a un livello di amore più o meno elevato, piuttosto di essere qualcun altro e nel cuore di un altro sentimento, motivo per cui potrebbero esserci due amori grandi uguale, ma in modo diverso. Se esistessero termini di paragone oggettivi, sarebbe più semplice ponderare gli amori, ma di fatto si tratta soltanto di moti, coincidenze e impressioni in evoluzione e dacché sulla Terra viviamo in sette miliardi, si vorrà mica che davvero esista una sola combinazione esclusiva tra due esseri umani?
La vita continua e il tempo passa, ogni giorno ci svegliamo e siamo un po’ più agili, un po’ meno appesantiti. Scegliamo di andare via o scegliamo di restare per condividere un pezzo di storia in più con qualcun altro. Troviamo il modo di sorridere.
E a ragion veduta da dove ci troviamo cosa c’è di così malvagio nel modo in cui facciamo parte l’uno dell’altra, se sempre alla fine di un incontro ci accorgiamo di aver trascorso una bella giornata e ci sorridiamo?

Adesso, a voler essere proprio audace così come sembra nelle sue vesti di narratrice – i più svegli avranno colto la coincidenza –, questa donna potrebbe confessare il suo stato d’animo all’uomo che le sta di fronte facendo verso di lui tutti i passi necessari a portarsi alla distanza di un fiato per poi irrigidirsi lì con lo sguardo recalcitrante a battere i piedi sul posto, incapace di andare tanto avanti quanto indietro, fino a crollare per lo sforzo, ammesso che lui non l’abbracci per primo.
Invece declama «Il mio problema è che il più delle volte credo di amare il mio sentimento d’amore per Qualcuno molto più di Qualcuno» che è una cosa che ha serbato per così tanto tempo nel cuore da non riuscire più a distinguere se si tratta di una verità o di una bugia reiterata al punto da diventare una verità, ma che comunque sia si rivela inadeguata all’illimitatezza dei suoi desideri più teneri del momento, il cuore stesso svuotato le casca nello stomaco.
Lui intuisce la distonia e gli balena in tutt’e due gli occhi lo sconcerto e poi al di fuori delle palpebre, tra le mani di colei che l’ha concepito e lei, ritrovandoselo così innocente e palpitante sotto lo sguardo, stringe i pugni e li nasconde dietro la schiena, mi domando se non possiamo per caso fare finta che siamo rimasti in silenzio a smangiucchiare patatine di mais con indifferenza di fronte a un hotel di un certo lusso.
Ma entrambi si sono persino accorti che la porta a vetri automatica continuava a aprirsi e chiudersi a causa dalla loro eccessiva vicinanza e si sono spostati per permetterle di bloccarsi. Ci si potrebbe aspettare che lui su due piedi la saluti con gentilezza malgrado lei gli abbia insterilito un battito e percorra i centocinquanta metri fino alla stazione centrale di Düsseldorf con la scusa che si è fatto tardi, che lei cammini i suoi passi indietro nella hall dell’Hotel Leonardo Royal – che il portiere le auguri la buonanotte –, indietro per i corridoi foderati di moquette a motivi geometrici color vinaccio e beige, indietro nella stanza 306, indietro nel letto e punti lo sguardo perpendicolare al soffitto, la distanza tra te e me quando l’avvertirai sappi che sono io.

Lui invece resta sulla porta d’ingresso. Certo non si fa gabbare dai pugni stretti dietro una schiena attorno al suo disorientamento. Ma sorride alla donna che l’ha provocato, senza ipocrisie, le allunga di nuovo il pacco di patatine di mais, invitandola a lasciare la presa delle mani e a rimettere il cuore tra le costole. Ci sono esseri umani così, che rivoltano la tristezza perché semplicemente sanno che qualche volta capita di essere più prossimi alla tristezza che alla felicità, ma non per questo si è inabili alla felicità e alla serenità. Dice «Io credo che quando mi innamorerò il corpo lo riconoscerà. Me lo diranno i muscoli, le ossa, ogni movimento. Secondo me anche tu. Voglio dire, non c’è bisogno tu ti convinca di alcunché.» e il ventre di lei sboccia con molte varietà di sentimenti che tremolano come sotto la carezza di mille gocce di rugiada e più di una foresta intera consumano anidride carbonica e producono ossigeno.

Molte e tali cose meravigliose si potrebbero scrivere in merito a questa circostanza, volendo vagare tra le sue proiezioni nello spazio e nel tempo. Ma ad allontanarsi dai frangenti, affannandosi sconsideratamente dietro ai concetti e alle esasperazioni sentimentali, si esce spesso dalla felicità, se non altro la si scoraggia e questa donna così attratta dai contrasti e dalle disfunzioni emozionali potrebbe allontanarsi e allontanarsi e allontanarsi fino a perdere l’orientamento in capo a un secondo, è evidente. Imprevedibile era, invece, che l’uomo sul quale si era capovolta la trattenesse con uno sguardo così tanto limpido. Limpido è quando trovandocisi a fronteggiare un grande guazzabuglio esistenziale di quelli che è risaputo possono succedere ogni giorno, si risolve in prima analisi di non restare indifferenti e immediatamente dopo di non ridurne la misura né di ingigantirla d’un colpo, tentando di trovare un capo per mezzo del quale, facendo scivolare il groviglio, scioglierlo secondo il naturale accadere e divenire delle cose. Leggendo tra le parole, limpido è questione di non spezzare un respiro, riassettando tutti i nodi alla gola nell’esatto momento in cui ci si sente vivere,

adesso, proprio adesso, tra l’una e le due di una già domenica a Düsseldorf, pochi passi in là dalla vacuità e dai corpi che sbattono al Nachtresidenz e più avanti in Bolkerstraße, di fronte all’Hotel Leonardo Royal, una donna e un uomo tra i venti e i trent’anni. Si abbracciano. Nel mezzo c’è un pacchetto di patatine di mais. Il portiere in livrea sbircia. Qualche taxi passa a velocità sostenuta con l’insegna luminosa in cima come un lampo. L’olezzo delle ultime friggitorie internazionali si spande per l’aria. E una donna e un uomo si abbracciano.

Non è un fermo immagine, tuttalpiù una sequenza lunga cinematografica.

Spazi a utero

Maggio 12, 2013

Mood: sovreccitato
Listening: David Bowie – How Does the Grass Grow
Watching: The Big Wedding di Justin Zackham [per la serie: il gusto del trash]
Eating: se non fossi troppo pigra per alzarmi dal letto adesso
Drinking: birra



Alcuni spazi hanno la forma di un utero.

Spazio [un tipo di] è il contenitore che viene a costituirsi tra due esseri umani quando si mettono a esplorarsi.
Due esseri umani che fanno l’amore sono uno spazio. Anche due esseri umani che si raccontano sono uno spazio.

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Holland, Noordwijk aan Zee
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Holland, Noordwijk aan Zee with Dominic

Ho conosciuto Dominic a Milano quando pensavo non avesse più nulla da offrirmi, l’ultima sera prima di tras-locare verso l’Olanda. Io avevo un tetto e un lenzuolo, lui – tedesco in viaggio a Milano con le scarpe da trekking – un pacco di te alla fragola e una stecca di cioccolata fondente. Tutt’e due un “forte gusto per la boheme tira a campare” – così la definisce Perec.
Quello sera abbiamo passeggiato senza itinerari. Poi si è fatta notte ed è trascorsa fino all’alba a dirci tante cose l’un l’altro e a spiegarci cosa e come ci sentivamo tra un bicchiere di te e un pezzo di cioccolata, rannicchiati sotto lo stesso lenzuolo su un divano tanto piccolo che i piedi si toccavano. Ci siamo addormentati così, dopo un po’ che avevamo iniziato a biascicare e a chiudere gli occhi.
Ora che ci penso, non ero affatto intimidita, né provavo vergogna. L’intimità per me – a maggior ragione con un estraneo – ha spesso questo risvolto, ma quella sera non ci ho proprio pensato. Era naturale com’era.

Come in utero.

Tras-locare #4

aprile 27, 2013

Mood: entusiasta
Reading: notizie dall’Italia
Listening to: Vinicio Capossela – Che coss’è l’amor
Watching: il sole, finalmente il sole
Eating: toast
Drinking: caffè per non addormentarmi sul computer



Avrei potuto andar via da Milano subito dopo aver svuotato l’appartamento del sesto piano, al centro a destra dov’era stata PaRecchia – se non proprio in mezzo ai miei stessi scatoloni e alla pasta fresca in un camion Guanzate-Delftauw. Ma vivere per tre giorni ancora a Milano, usando il mio vecchio appartamento immerso nella luce intensa più che mai ora che a diffonderla erano pareti bianco-vuoto mi è sembrato un opportuno rito di passaggio. In termini pratici: il primo volo abbordabile per l’Olanda sarebbe partito solo tre giorni più in là.

Vuoto, l’appartamento del sesto piano, al centro a destra lo era per davvero, a meno di non voler tenere in elevata considerazione il te e il caffè in uno scaffale in alto della cucina, un bollitore e una caffettiera sul fornello, una valigia con lo stretto necessario per andare altrove-ovunque – pochi vestiti, il computer e la macchina fotografica, un barattolo di peperoncino e uno di cannella – nel corridoio d’ingresso o d’uscita che dir si voglia, il sacco a pelo sul materasso in camera da letto per dormirci la notte,
«e che problema ci sarà mai per una zingara?»

L’eco, forse.

Voglio dire, l’eco è un elemento tale che
quando colto in uno spazio appena occupato, genera un forte senso di appartenenza costruttiva in colui che lo sta abitando, esprimendo tutta la disponibilità dello spazio appena occupato a farsi modellare secondo i desideri e le necessità di colui che lo sta abitando;
quando invece ritrovato in uno spazio un tempo occupato, ma lì lì per essere lasciato in favore di un altro spazio lontano, genera un insalubre senso di disagio e impazienza in colui che lo ha un tempo abitato, ma sta per andare a occupare un altro spazio, rimarcando se non la natura morta dello spazio un tempo occupato, il richiamo da parte di quell’altro lontano che sta per essere occupato,

Devo andare, grazie di tutto” [citazione non a caso], ma

A un uomo che sia in attesa di tras-locare sembra che la vita resti in sospeso fin tanto che non sarà partito. A dire il vero, fintanto che non sarà arrivato
, ma che ci faccio qui, mentre il resto della mia vita è già altrove?
[del resto, proiettandosi tutto il suo concentrato emotivo nel futuro, finisce che davvero la sua vita resti in un certo qual senso in sospeso]


Invece.

Tras-locare #3

aprile 22, 2013

Mood: costruttivo
Reading: George Perec, La vita, istruzioni per l’uso
Listening to: i versi d’amore di mia sorella
Watching: Tutti i santi giorni di Paolo Virzì
Eating: maccheroni pasticciati
Drinking: te alla menta



La signora del quinto a destra dello stabile n° 3 di Viale Romolo dov’era PaRecchia al Tre – sesto piano, al centro a destra –, usava, incontrandomi in ascensore, per le scale – sul pianerottolo del quinto –, rivolgermisi sempre con una saputa valutazione in merito al numero delle mie partenze e dei miei ritorni di cui lei stessa aveva memoria essendone stata per caso o ficcanaso testimone oculare «Ma che bellezza, sempre in viaggio, lei!»

La mattina in cui le cose superstiti considerate di mia proprietà sono partite da Guanzate con un camion di pasta fresca, mittente Teo Pace BV, Delfgauw, Olanda, da dove poi sono state spostate nell’appartamento e nella cantina – per lo più – della mia famiglia a Rijswijk, sempre Olanda,
quella mattina là – saranno state le undici o poco prima – la signora del quinto a destra sembrava essersi messa in mia attesa al pianterreno. Voglio dire che stava di fronte alla porta dell’ascensore spandendo con gli occhi e con le labbra tutto l’entusiasmo del suo consueto approccio: «Ma sempre con una qualche valigia, lei!», gliel’ho intercettato sulla punta della lingua che neanche avevo aperto le porte con finestrella dell’ascensore. Il più delle volte, infatti, la signora del quinto a destra era venuta a trovarsi nella condizione di aiutarmi a uscire dall’ascensore, trattenendo le porte esterne mentre io lottavo per disincastrarmi dalle porte interne troppo strette anche solo per un essere umano senza carico aggiunto al suo corpo.

Di fronte al quantitativo di scatoloni contro il quale mi sono stagliata quando ho aperto la porta dell’ascensore per spingere fuori il primo borsone, la signora del quinto a destra si è fatta d’un tratto confusa. «Ma sempre con una qualche valigia, lei!» le è caduto ai piedi dalla bocca lettera per lettere e lei è rimasta con gli occhi a ciondolare su di me, come sentendo il bisogno di adattarsi a una nuova condizione inattesa.
Il che – la sua tenerezza – mi ha fatto sorridere. «Signora, questa volta parto per un viaggio più lungo», le ho detto. Poi, vedendola ancora turbata: «Ho bisogno di un attimo di tempo in più per scaricare l’ascensore.»
E lei mi ha augurato tante cose belle.

Tras-locare #2

aprile 16, 2013

Mood: disteso
Reading: George Perec, La vita, istruzioni per l’uso
Listening to: Little dragoon – Twice
Watching: un bocciolo di orchidea che domattina sarà orchidea
Eating: cantuccini
Drinking: te



Tras-locare.
Por[si] in un luogo (al di là, oltre), passare da un luogo all’altro. Ma prima ancora, selezionare cosa portare con sé che è un modo per spazializzarsi – identificarsi, raccontarsi – nei confronti di un territorio ancora inesplorato, cosa invece buttare che è un’attitudine a fare spazio per quello stesso territorio ancora inesplorato. Ecco perché non è mai così semplice come potrebbe sembrare selezionare cosa portare con sé e cosa invece buttare.
Io, soltanto a pensarci su, mi sentivo parecchio molle.

Ho iniziato enumerando le cose considerate di mia proprietà nel corso di tre anni a Milano, cose dalle più comuni alle più strampalate, ipotizzando e abbozzando montagnole e cumuli dai quali, in sette giorni successivi, ma non consecutivi, sono derivati di fatto n° 10 scatoloni – senza contare le scatole dentro le scatole – rinforzati da scotch [di carta, da pacchi, da elettricista] all’interno dei quali il principio d’ordine per categoria stabilito in un primo momento è diventato sempre meno rigoroso dacché i vestiti in eccesso hanno trovato posto in Libri e Quaderni di viaggio, l’accappatoio in Pentolame, il carillon con la molla allentata in Profumeria e Farmacia, l’analogica Yashica in Scarpe, il sacco a pelo e la maschera da sub con i fori per poter respirare in Necessità di lavoro, così tanto per esemplificare; n° 2 borsoni di biancheria intima, calze, pigiami e qualche vestito ancora; n° 2 bustoni di coperte e cuscini; n° 1 branda; n° 1 mobiletto bucato e svuotato; n° 1 apparato alare con sistema di apertura e chiusura; n° 1 violino scordato e ammaccato.
Quel ch’è rimasto fuori, in altri termini lo scarto indipendentemente da qualsiasi categoria, è stato tale e impietoso che al massimo potrei scrivere n° elevato-ma-assai sacchi da evacuare.

Ho affinato la mia tecnica di scarto col passare dei giorni: dapprima disorientata, ho poi iniziato a destreggiarmi nella strategia uno-sguardo-e-via-nel-sacco-apposito. Le cose da scartare mi sembravano inesauribili e così la voglia di scartare.
È anche vero, infatti, che, dopo le prime incertezze, l’idea stessa di scartare [di alleggerirmi] mi sovreccitava,

vado a reinventarmi un’esistenza, uno-sguardo-e-via-nel-sacco-apposito,
segno virgola e
via-nel-sacco-apposito,

Vado a essere libera, violentemente libera.

Tras-locare #1

marzo 31, 2013

Mood: lieve
Reading: George Perec, La vita, istruzioni per l’uso
Listening to: Bonobo – First Fires
Watching: Bellas Mariposas di Salvatore Mereu
Eating: cioccolata fondente
Drinking: caffè



Il giorno in cui siamo entrati per la prima volta a PaRecchia al Tre, Yanna, Nicolò, io e una teglia da forno nuovanuova per cuocere il dolce d’inaugurazione [e pressapoco nient’altro],
in mezzo all’imbroglio dei palazzi all’orizzonte cimavano tre gru.
Nel corso dei due anni a PaRecchia, le tre gru sono sempre rimaste sulla scena, enormi, immobili, sacre,
un approdo sicuro per lo sguardo.

Finché una mattina, tre settimane fa, non abbiamo assistito allo smantellamento dell’ultima delle tre gru. Da qualche tempo, avevano iniziato a scomparire una dopo l’altra. Era solo questione di giorni perché non ne restasse più una soltanto, forse di minuti a Milano dove tutto cambia rapidamente. L’ultima delle tre gru si è abbassata senza vacillare, ha ruotato su se stessa, è scomparsa in mezzo ai palazzi. Credevo avrebbe fatto fragore. E invece.
Ho sentito il silenzio come mai prima a PaRecchia.

Abbiamo pensato È finita un’era. Non ricordo se una di noi lo ha detto. Può anche darsi che il pensiero sia stato così animoso da aver instillato in me il dubbio della parola.
Primo colpo al cuore.

dorotea pace | photography

Il secondo colpo al cuore è arrivato quando Yanna è andata via da PaRecchia all’improvviso due settimane prima della data prestabilita per la consegna delle chiavi, il trenta marzo.
Il terzo colpo al cuore è arrivato quando ho chiuso il primo scatolone e ho scritto sul lato corto in alto Libri e Quaderni di viaggio.

L’ipotesi di lasciare PaRecchia, ma anche Milano, ma anche L’Italia, andava nell’aria da un po’. Eppure mi è sembrato che la decisione arrivasse all’improvviso a inizio marzo, quando è diventato evidente che non avrei trovato le condizioni [economiche in questo caso prima ancora che umane] per restare. Qualche parte di me deve essersi augurata una soluzione un secondo prima dell’ultimo.
Dopotutto PaRecchia è Casa mia. Il luogo fisico più stabile che abbia vissuto negli ultimi due anni, quello che più di tutti mi ha assomigliato, contenendo i miei ritmi e le mie necessità, trasformandosi, giorno per giorno, nel mio personale porto di mare, un approdo anche se piccolissimo per una moltitudini di storie e di esseri umani. Ne è passata di vita per PaRecchia. Tutt’ora che è vuota, che suona diversamente a ogni passo – il mio passo già diverso in un luogo caro –, continuo a riconoscere i segni degli ancoraggi nell’intonaco scrostato, nelle strisciate di colore e nei segni lasciati dalla colla e dallo scotch sulle pareti bianche, nei calzini spaiati dentro i cassetti e nei cappelli sull’attaccapanni, nella polvere sotto al letto, tutt’ora
Persino Milano, che non ho mai compreso davvero, che non so raccontare, persino Milano, quando resto a guardarla da quassù in una qualche forma, lo sento chiaramente, appartiene ai miei affetti.
Oppure qualsiasi cosa appartiene gli affetti quando si è sul punto di andare via. Gli affetti che sono ciò che suscita l’idea della stabilità e in contraddizione sono ciò che di più suscettibile c’è nella vita di chiunque. [L’Italia effettivamente richiede un discorso più articolato. Ma, sintetizzando, non potrei forse intendere disgusto e disinteresse come conseguenze dell’amore?]
Questo pensiero mi ha strizzato le ghiandole lacrimali per qualche giorno.

Couches on the Road // IV

novembre 23, 2012

Mood: sereno
Listening to: Milano che oggi fa tremare i vetri delle finestra
Watching: A dangerous method di David Cronenberg
Playing: a incastrare storie e personaggi
Eating: marmellata di mirtilli rossi di bosco
Drinking: caffè




Da che Sarah e Pacome hanno lasciato Milano sono trascorsi sedici giorni. Per me, non uno soltanto senza domandarmi dove fossero e cosa stessero facendo. Mi piace fermare la routine delle cose che fanno questo mio periodo per provare a immaginare. Sarà così per centosettantuno giorni ancora.

Sarah e Pacome sono in viaggio, un viaggio lungo duecento giorni che ha avuto inizio in Francia e attraverserà Italia, Portogallo e Spagna. Attualmente sono al giorno ventinovesimo.
Da un luogo all’altro, si spostano facendo autostop. Nel diario di viaggio di Pacome, un primo appunto sull’Italia riguarda la difficoltà a ottenere un passaggio, si può aspettare ore e ore prima che qualcuno si fermi, gli italiani, qualcuno ha detto, non si fidano di chi fa autostop a causa della mafia che rende tutti un po’ più sospettosi.
Nei luoghi dove si fermano, cercano ospitalità, ma non escludono l’eventualità di dormire per strada, hanno con sé i sacchi a pelo e una tenda, i loro zaini pesano cinquanta chili. È per questo che hanno scelto un periodo dell’anno molto freddo per viaggiare, in estate sarebbe stato impossibile spostarsi con così tanto peso appresso. La prima volta che ho incontrato Sarah e Pacome, nell’atrio del palazzo in cui vivo, ho pensato che fossero due tartarughe. Le tartarughe vanno sempre con la loro casa in spalla. In effetti, la casa di Sarah e Pacome è lo zaino, dacché la strada si è messa a chiamarli, Sarah ha congelato gli studi di psicologia, Pacome si è licenziato dal negozio di impianti audio per cui lavorava e, zaini in spalla, sono partiti.
Sarah è di Le Havre, Pacome di Parigi. Non si conoscono da sempre, né da tanto. Si sono trovati perché condividevano le stesse intenzioni e perché entrambi erano alla ricerca di un compagno di viaggio. Eppure, a vederli insieme, si direbbero intimi da tempo immemore, oltre che due bambini inguaribili. Fanno tutto insieme, vivono la loro simbiosi come fosse un cerimoniale di viaggio. Dopo due notti in quattro nel lettone a due piazze, abbiamo cambiato la geografia della cucina perché loro potessero starci in due, neanche per dormire vogliono separarsi, prima di coricarsi, parlano fitto e ridono, ridono tanto nel buio.

Sarah e Pacome sono arrivati a Milano al settimo giorno di viaggio e ci sono rimasti una settimana. Mi hanno chiesto ospitalità il giorno prima del loro arrivo perché si sono ritrovati all’improvviso senza un tetto. In casa c’erano già Kuba e Paweł ospiti. Arianna e io viviamo in un bilocale piccolissimo in affitto che in due ci si sta stretti, in sei diventa un formicaio, tanto più perché i posti letto sono quattro. Tutto già sperimentato, in verità, ma con amici molto amici. L’idea di ripetere con estranei un po’ ci spaventava. Ragazzi, c’è da stare stretti, benvenuti, abbiamo detto e sapevamo che li avremmo accolti prima ancora di pensarci. Perché negli anni Settanta, racconti come quello di Sarah e Pacome sono comuni, oggi mica tanto. E noi ne abbiamo sentito particolarmente il bisogno.
Erano le cinque del pomeriggio del 31 ottobre. Fuori pioveva a dirotto. Il corridoio di casa è finito nascosto dagli zaini da viaggio. Abbiamo comprato nuovo vino e riempito i bicchieri. Ci siamo stretti attorno al tavolo. Mancava già una sedia.
Figurarsi quando nei giorni seguenti, con Sarah e Pacome, sono arrivate altre persone incontrate da loro lungo la strada, Marco, milanese, che a gennaio molla tutto e va in Thailandia per costruire abitazioni col metodo tradizionale all’interno di un progetto di volontariato, Lorenzo, suo amico pisano, che sebbene guardi i suoi interlocutori dritto negli occhi, sembra perso a amare il suono di ogni singola parola sulla lingua, Ricardo, portoghese, e Ayşegül, turca, che sono migrati a Biella per lavorare in un network di volontariato. Un proverbio moresco recita che chi non viaggia non conosce il valore degli uomini. Del resto, viaggiare insegna a avere fiducia negli altri.

In verità, all’inizio non è stato facile comunicare con Sarah e Pacome. Davano l’impressione di cacciarsi a testa bassa nei loro discorsi, senza voglia di condividerli. Sarah per quanto capisse l’inglese, neanche voleva provare a parlarlo, le procurava vergogna. Date le circostanze caotiche di quei primi giorni, mi sono sentita scomoda. Ebbene, con Sarah e Pacome la prima lezione è che, sulla scia dei romanticismi del caso, spesso ci si illude che tutto debba essere gradevole fin dal primo momento. La seconda lezione è che, accettando un limite e tentando di oltrepassarlo, ci si ritrova a costruire qualcosa.
Una sera, Sarah era rannicchiata sul divano, leggeva On the road di Kerouac. Pacome se ne stava arrampicato sul lavandino della cucina sotto la finestra che dà sull’orizzonte di palazzi di Milano e sulle montagne in lontananza, fumava una sigaretta. Arianna preparava la cena. Io fissavo un foglio bianco, avrei dovuto scrivere una sceneggiatura, ma non trovando grandi idee, mi arricciavo il riccio, quello in cima, e sorridevo solo all’idea che poco prima tutti si erano fatti coinvolgere a dirmi la loro in merito. Coexist dei The xx andava e l’acqua sul fuoco stava per uscire a bollire. Pacome ha detto «Qui, mi sento davvero a casa. È bello. In viaggi come questi, spesso casa è ciò di cui si ha più bisogno.», così ha detto.


Il giorno in cui Sarah e Pacome sono partiti, sono rimasta a guardarli mentre organizzavano la distribuzione dei pesi nello zaino e scrivevano la loro destinazione su cartoni di riciclo. C’erano l’aria eccitata della partenza, la polvere della strada, l’orizzonte e un’infinità di storie a venire. C’era anche qualcosa che mi soffocava il respiro, o forse è più appropriato dire che c’era anche qualcosa che stavo soffocando, il pensiero martellante che il loro mondo in questo momento è pieno delle cose che io vorrei nel mio. Pensa se partissi adesso, pensa se… Ma adesso no, devo aspettare, devo stare ferma qui, ho abbracciato Sarah e Pacome e li ho accompagnati alla porta. Ci ritroveremo ad aprile a Parigi, o forse prima, lì in qualche punto imprecisato della loro mappa.
Ho chiuso la porta di casa di fronte a me. Poi, accovacciata sul divano, ho spulciato per un po’ con Arianna il sito web di Decathlon nella sezione degli zaini da viaggio.



Un paio di giorni dopo, ho ricevuto un messaggio da Pacome. Mi chiedeva se sapessi cosa sia un bidet e a cosa serva perché alcuni italiani gliene avevano parlato, ma lui era certo che lo stessero prendendo in giro. Gliel’ho spiegato. Mi ha risposto che la trovava una cosa fuori di testa. Gli ho chiesto cosa gli avessero detto gli altri italiani. Loro avevano detto esattamente la stessa cosa. Quando gli ho chiesto cosa avesse pensato del sanitario bianco accanto al water lui ha detto solo per lavare i piedi. Ho riso mezz’ora. La terza lezione, con Sarah e Pacome, è che i bagni sono sempre oggetto di scambio interculturale. Effettivamente, a voler citare un solo esempio tra altri degni di nota, in Norvegia, la ragazza greca che ospitava me e Arianna a Oslo, ci ha tenuto a spiegarmi come buttare la carta direttamente nel bagno dopo essermi pulita. Ho capito che evidentemente, in Grecia, la carta si getta in un cestino a parte.