Appunti per un’indagine rigorosa a proposito di Milano, o più in generale ~ A proposito dello spazio geografico
dicembre 10, 2014
Mood: esausto
Reading: J. S. Foer, Se niente importa
Listening to: Patti Labell & Moby – One Of These Mornings
Eating: gnocchi e pizza di patate e pesantezza di stomaco
Drinking: camomilla
Italy, Bergamo-Orio al Serio Airport, 03 December 2014
Milano inizia lontano dai cinema, dai caffè e delle boutique abbaglianti. Inizia negli interstizi vuoti del mio cuore. È andata così fin dal primo momento. E ho l’impressione che, proprio nel rinnovarsi di questa formula, io mi senta a casa, a Milano – una casa possibile.
Couches on the Road // IV
novembre 23, 2012
Mood: sereno
Listening to: Milano che oggi fa tremare i vetri delle finestra
Watching: A dangerous method di David Cronenberg
Playing: a incastrare storie e personaggi
Eating: marmellata di mirtilli rossi di bosco
Drinking: caffè
Da che Sarah e Pacome hanno lasciato Milano sono trascorsi sedici giorni. Per me, non uno soltanto senza domandarmi dove fossero e cosa stessero facendo. Mi piace fermare la routine delle cose che fanno questo mio periodo per provare a immaginare. Sarà così per centosettantuno giorni ancora.
Sarah e Pacome sono in viaggio, un viaggio lungo duecento giorni che ha avuto inizio in Francia e attraverserà Italia, Portogallo e Spagna. Attualmente sono al giorno ventinovesimo.
Da un luogo all’altro, si spostano facendo autostop. Nel diario di viaggio di Pacome, un primo appunto sull’Italia riguarda la difficoltà a ottenere un passaggio, si può aspettare ore e ore prima che qualcuno si fermi, gli italiani, qualcuno ha detto, non si fidano di chi fa autostop a causa della mafia che rende tutti un po’ più sospettosi.
Nei luoghi dove si fermano, cercano ospitalità, ma non escludono l’eventualità di dormire per strada, hanno con sé i sacchi a pelo e una tenda, i loro zaini pesano cinquanta chili. È per questo che hanno scelto un periodo dell’anno molto freddo per viaggiare, in estate sarebbe stato impossibile spostarsi con così tanto peso appresso. La prima volta che ho incontrato Sarah e Pacome, nell’atrio del palazzo in cui vivo, ho pensato che fossero due tartarughe. Le tartarughe vanno sempre con la loro casa in spalla. In effetti, la casa di Sarah e Pacome è lo zaino, dacché la strada si è messa a chiamarli, Sarah ha congelato gli studi di psicologia, Pacome si è licenziato dal negozio di impianti audio per cui lavorava e, zaini in spalla, sono partiti.
Sarah è di Le Havre, Pacome di Parigi. Non si conoscono da sempre, né da tanto. Si sono trovati perché condividevano le stesse intenzioni e perché entrambi erano alla ricerca di un compagno di viaggio. Eppure, a vederli insieme, si direbbero intimi da tempo immemore, oltre che due bambini inguaribili. Fanno tutto insieme, vivono la loro simbiosi come fosse un cerimoniale di viaggio. Dopo due notti in quattro nel lettone a due piazze, abbiamo cambiato la geografia della cucina perché loro potessero starci in due, neanche per dormire vogliono separarsi, prima di coricarsi, parlano fitto e ridono, ridono tanto nel buio.
Sarah e Pacome sono arrivati a Milano al settimo giorno di viaggio e ci sono rimasti una settimana. Mi hanno chiesto ospitalità il giorno prima del loro arrivo perché si sono ritrovati all’improvviso senza un tetto. In casa c’erano già Kuba e Paweł ospiti. Arianna e io viviamo in un bilocale piccolissimo in affitto che in due ci si sta stretti, in sei diventa un formicaio, tanto più perché i posti letto sono quattro. Tutto già sperimentato, in verità, ma con amici molto amici. L’idea di ripetere con estranei un po’ ci spaventava. Ragazzi, c’è da stare stretti, benvenuti, abbiamo detto e sapevamo che li avremmo accolti prima ancora di pensarci. Perché negli anni Settanta, racconti come quello di Sarah e Pacome sono comuni, oggi mica tanto. E noi ne abbiamo sentito particolarmente il bisogno.
Erano le cinque del pomeriggio del 31 ottobre. Fuori pioveva a dirotto. Il corridoio di casa è finito nascosto dagli zaini da viaggio. Abbiamo comprato nuovo vino e riempito i bicchieri. Ci siamo stretti attorno al tavolo. Mancava già una sedia.
Figurarsi quando nei giorni seguenti, con Sarah e Pacome, sono arrivate altre persone incontrate da loro lungo la strada, Marco, milanese, che a gennaio molla tutto e va in Thailandia per costruire abitazioni col metodo tradizionale all’interno di un progetto di volontariato, Lorenzo, suo amico pisano, che sebbene guardi i suoi interlocutori dritto negli occhi, sembra perso a amare il suono di ogni singola parola sulla lingua, Ricardo, portoghese, e Ayşegül, turca, che sono migrati a Biella per lavorare in un network di volontariato. Un proverbio moresco recita che chi non viaggia non conosce il valore degli uomini. Del resto, viaggiare insegna a avere fiducia negli altri.
In verità, all’inizio non è stato facile comunicare con Sarah e Pacome. Davano l’impressione di cacciarsi a testa bassa nei loro discorsi, senza voglia di condividerli. Sarah per quanto capisse l’inglese, neanche voleva provare a parlarlo, le procurava vergogna. Date le circostanze caotiche di quei primi giorni, mi sono sentita scomoda. Ebbene, con Sarah e Pacome la prima lezione è che, sulla scia dei romanticismi del caso, spesso ci si illude che tutto debba essere gradevole fin dal primo momento. La seconda lezione è che, accettando un limite e tentando di oltrepassarlo, ci si ritrova a costruire qualcosa.
Una sera, Sarah era rannicchiata sul divano, leggeva On the road di Kerouac. Pacome se ne stava arrampicato sul lavandino della cucina sotto la finestra che dà sull’orizzonte di palazzi di Milano e sulle montagne in lontananza, fumava una sigaretta. Arianna preparava la cena. Io fissavo un foglio bianco, avrei dovuto scrivere una sceneggiatura, ma non trovando grandi idee, mi arricciavo il riccio, quello in cima, e sorridevo solo all’idea che poco prima tutti si erano fatti coinvolgere a dirmi la loro in merito. Coexist dei The xx andava e l’acqua sul fuoco stava per uscire a bollire. Pacome ha detto «Qui, mi sento davvero a casa. È bello. In viaggi come questi, spesso casa è ciò di cui si ha più bisogno.», così ha detto.
Il giorno in cui Sarah e Pacome sono partiti, sono rimasta a guardarli mentre organizzavano la distribuzione dei pesi nello zaino e scrivevano la loro destinazione su cartoni di riciclo. C’erano l’aria eccitata della partenza, la polvere della strada, l’orizzonte e un’infinità di storie a venire. C’era anche qualcosa che mi soffocava il respiro, o forse è più appropriato dire che c’era anche qualcosa che stavo soffocando, il pensiero martellante che il loro mondo in questo momento è pieno delle cose che io vorrei nel mio. Pensa se partissi adesso, pensa se… Ma adesso no, devo aspettare, devo stare ferma qui, ho abbracciato Sarah e Pacome e li ho accompagnati alla porta. Ci ritroveremo ad aprile a Parigi, o forse prima, lì in qualche punto imprecisato della loro mappa.
Ho chiuso la porta di casa di fronte a me. Poi, accovacciata sul divano, ho spulciato per un po’ con Arianna il sito web di Decathlon nella sezione degli zaini da viaggio.
Un paio di giorni dopo, ho ricevuto un messaggio da Pacome. Mi chiedeva se sapessi cosa sia un bidet e a cosa serva perché alcuni italiani gliene avevano parlato, ma lui era certo che lo stessero prendendo in giro. Gliel’ho spiegato. Mi ha risposto che la trovava una cosa fuori di testa. Gli ho chiesto cosa gli avessero detto gli altri italiani. Loro avevano detto esattamente la stessa cosa. Quando gli ho chiesto cosa avesse pensato del sanitario bianco accanto al water lui ha detto solo per lavare i piedi. Ho riso mezz’ora. La terza lezione, con Sarah e Pacome, è che i bagni sono sempre oggetto di scambio interculturale. Effettivamente, a voler citare un solo esempio tra altri degni di nota, in Norvegia, la ragazza greca che ospitava me e Arianna a Oslo, ci ha tenuto a spiegarmi come buttare la carta direttamente nel bagno dopo essermi pulita. Ho capito che evidentemente, in Grecia, la carta si getta in un cestino a parte.
Couches on the Road // III
novembre 8, 2012
Mood: addormentato
Reading: quanto vorrei…
Listening to: la notte che scende su Milano
Watching: L’esplosivo piano di Bazil di Jean-Pierre Jeunet
Playing: a inventare metodi per non farmi cogliere dal panico-tesi
Eating: zuppa di legumi
Drinking: acqua
Martedì scorso, Kuba e Paweł sono spuntati dalla torma accalcata contro i tornelli della stazione metropolitana di Romolo, Milano, all’ora di pranzo, semplicemente agitando le braccia verso di me che stavo dall’altro lato, con movimenti che, tracciando sorrisi nell’aria, sembravano spaccarla. O almeno così mi sembrava. Mi sono chiesta se, per caso, non ci fossimo già incontrati in un altro tempo, da qualche parte. Poco dopo ho realizzato che Kuba e Paweł semplicemente percorrono la Via con occhi trasparenti e senza distacco.
Avevano in spalla lo zaino e venti giorni di viaggio tra Spagna e Portogallo e le facce vagamente interdette di chi nelle ultime dodici ore ha avuto a che fare per le strade di Granada con un gruppo di zingari malintenzionati e misteriosamente l’ha fatta franca, poi ha trascorso una notte in aeroporto, accusando il pavimento direttamente sotto il culo, e alla fine non sogna che una doccia e un piatto caldo per sentirsi a casa. Passavano da Milano prima di ritornare in Polonia perché era la strada last minute più economica e, per dirla tutta, avrebbero potuto essere ovunque.
Sono nati entrambi in Polonia, in una città di cui non mi è chiaro il nome, ma che si trova al confine con la Germania, al punto che entrambi riconoscono come capitale Berlino più che Varsavia, ma nessuno dei due ama la lingua tedesca, il cui insegnamento viene imposto nelle scuole dell’obbligo soltanto per condizione geografica.
In Polonia, il loro periodo di viaggio sarebbe finito e “ritornare alla realtà” non li entusiasmava. Ho il sospetto che dentro di loro qualche certezza stesse vacillando. A Lisbona, avevano incontrato Gogy che vive facendo il giocoliere agli incroci delle strade principali e raccogliendo durante la notte gli alimenti di cui ha bisogno dai cartoni della roba scartata dai supermercati. Ne sono rimasti impressionati. Abbiamo discusso della realtà in cui viviamo, fatta di oggetti, comodità e soprattutto abitudini. Ci siamo domandati quanto coraggio e incoscienza ci vogliano per sradicarsene. Qualcuno ha espresso l’ambizione di provarci un giorno, ma già con la consapevolezza che proprio l’ambizione non è il sentimento più opportuno per affrontare una tale scelta di vita. La verità è che, allo stato attuale, nessuno di noi darebbe un calcio alla sua realtà.
Kuba è uno programmatore informatico, ma più che un nerd – come ci si aspetterebbe – sembra un poeta vagabondo con il mare negli occhi e la terra nel sorriso, un miscuglio che tanto destabilizza, tanto rassicura. È innamorato della Spagna, della sua musica e della sua letteratura, ha studiato per sei mesi a Barcellona, dove ha sviluppato un’antipatia viscerale per l’ambiente Erasmus, fatto di gente che gli sembra voler collezionare amici da tutte le parti del mondo, «Ciao-nome-età-nazionalità-ciao», senza mai soffermarsi un po’ di più.
Paweł invece è tanto più buffo, smilzo con i capelli rossi e la faccia che sembra essere modellata dalla penna di un fumettista, sembra Figaro del Pinocchio di Walt Disney quando articola una catena bassa di «Hmm-hm, hmm-hm» e con la testa fa su e giù. Dei due l’avrei detto il più piccolo e invece è il contrario, lavora già nel reparto logistico di una qualche ditta di trasporti polacca, ma quello che mi sembra lo esalti di più è organizzare partite di ping-pong con i colleghi durante l’orario di ufficio. Di Milano, una delle cose che più gli è rimasta più impressa è la pasta al sugo col peperoncino – che neanche è propriamente di Milano –, ma ha confessato subito che per lui ogni tappa dei suoi viaggi va ricollegata a un buon piatto e che gli unici momenti di tensione con Kuba sono arrivati insieme allo stomaco vuoto.
Quando gli ho chiesto come si fossero conosciuti, Kuba e Paweł prima si sono guardati, poi hanno detto di non ricordarlo perché è stato tanti anni fa durante una festa del vino dove il motto in termini di alcool è «don’t mind the taste, but the waste», si capisce!
Per certi versi anche i nostri tre giorni insieme si possono trovare al fondo di una bottiglietta di Vodka Lubelska aromatizzata al pompelmo che ha viaggiato dalla Polonia a Milano, tre bottiglie di vino bianco Esselunga, un Lambrusco, due bottiglie di vino bianco Carrefour, una Vodka pura Keglevich, messe in fila sul piano del lavandino, e litri di Peroni. Non che ci siano affogati, piuttosto sono scivolati con leggerezza lungo le pareti di vetro, mentre storie e pensieri si innalzavano per intrecciarsi alle nuvole di tabacco sovrastanti.
Anche perché, nel frattempo, al nostro tavolo si è aggiunta tanta di quella gente con cui condividere i fondi delle bottiglie che affogare non ci si sarebbe riusciti neanche a provarci con caparbietà.
Sì, è un “to be continued”
Ottobre 2012, «E dopo?»
ottobre 27, 2012
Mood: sereneggiante
Reading: Paola Bressan, Il colore della luna
Listening to: Bonobo – Noctuary
Watching: Nuovomondo di Emanuele Crialese
Eating: latte e biscotti
Drinking: caffè
Questo ottobre 2012 è un mese inequivocabilmente degno di nota nella mia vita. Per la prima volta in ventitré anni, l’inizio di un nuovo anno accademico non mi ha trascinata di fronte a una qualche cattedra con congruo professorone in tale eccelsissima scienza – senza sottigliare sul fatto che quando ero al liceo dovevo rientrare in aula il primo lunedì di settembre, quando, a Sud dove sono cresciuta, tutto il resto dell’umanità se ne sta ancora abbarbicato sugli scogli per sfuggire alla bollitura a secco e mai nessun istituto si sognerebbe di aprire le porte di quella che sarà certamente una fornace, nessuno tranne il mio che era speciale e aveva anche le reti di sicurezza alle finestre.
Ritornando indietro di qualche riga, fino a prima dell’inciso, e riprendendo le fila del discorso, si tratta di una cosa che letteralmente deforma il tempo di ogni giorno per come ero abituata a viverlo e questo un po’ mi confonde, ma per lo più mi sconfinfera perché adesso, senza darmi alla nullafacenza, né sollazzarmi oltre misura, finalmente posso starmene con i muscoli di qualche centimetro più distesi e persino concedermi un diletto di tanto, in tanto.
Facendo i conti in rapidità, a oggi mi trovo a un esame, una tesi e una dissertazione di distanza dal mio brillante foglio di carta da incorniciare nello studio che mai avrò. A febbraio avrò azzerato anche questi numeri,
«E dopo?»
«Dopo arriverà», rispondo generalmente.
Ebbene, la mia potrebbe definirsi una crisi communis da laureando in merito alla quale non c’è bisogno di aggiungere alcunché. Effettivamente ci sono giorni che mai come adesso mi sono sentita tanto uguale a tutti gli altri.
In realtà io, se mi metto la testa alla rovescia, chiunque potrebbe vedere che non è vuota, ma che è frullata ininterrottamente da un gran numero di idee tutte di prima classe, desiderabili e persino attuabili, ma tutte intrugliate con un numero superiore di eventualità, cause e effetti precisabili da me, dagli altri, dalle situazioni, dal caso, cioè da tante cose che – chiunque converrà con me – variano di giorno, in giorno, e sulle quali non si può fare affidamento quando si tratta di prevederne gli esiti. Un matematico definirebbe questa condizione “sistema complesso”, se fosse più pignolo “sistema caotico”.
Del resto io, se mi metto a pensare al dopo, mi distraggo subito perché non voglio fare come chi se ne va lontano dal presente a causa di un’attrazione superiore per il futuro che, invece, io dico, si riempirà delle cose che saranno passate sicché adesso mi limito – se di limitazione si può parlare, senza farmi torto – a vivere al meglio che posso tutto quello che mi circonda, “sistema complesso” incluso.
Accordo però che, tra gli elementi che mi rimescolano il cervello, il più frequentemente a galla è esodo
1 // da me che, determinata come sono nell’inseguire quello che voglio e abituata a superare ogni momento di crisi, non ho voluto riconoscere di essermi ridotta con i nervi a pezzi nell’ultimo anno, errore mai tanto grande perché adesso l’unica cosa che mi va a fagiolo è stare appesa a testa in giù dal ramo di un albero mentre il mondo fa avanti e dietro e io lo interiorizzo per alimentare il mio genio ammutolito.
2 // da uno Stato che, miseria di offerta di lavoro a parte – a maggior ragione per eretiche come me che osano pensare di poter svolgere una professione di appannaggio maschile –, ma non del tutto, si arricchisce di “puttanieri, faccendieri e tragattini”, demolisce continuamente i diritti fondamentali dell’essere umano in virtù di una legge tutt’altro che laica, millanta un ideale di democrazia che non bacia la realtà tanto più perché è vuoto fin dalle origini dei concetti di cittadino e di popolo sicché tutti l’importante è il mio piatto di pasta due volte al dì, per quello si può scendere in piazza, fottere e ammazzare, ma del bene comune, dello Stato sociale – quei famosi – chissenefrega, e quali virtù, quali beni può trasmettere tutto questo al piccolo figlio – che forse mai avrò – quando dovrà insegnargli a stare al mondo, quale serenità a me che non mi ci riconosco e che me ne vergogno? Dicono che ho il dovere di essere arrabbiata e giuro, lo sono. Fino a qualche anno fa, sarei anche stata nelle schiere di chi resta a dare capocciate contro i muri, guadagnando infine [con tempi da olocene] piccole crepe interstiziali – tanta stima a riguardo –. Ma onestamente io, non che abbia mai affinato un forte sentimento di italianità e questo scombussola un po’ i fatti: oggi andrei via perché vedo mancare le condizioni per restare o forse semplicemente perché oggi sono geneticamente italiana più di qualche anno fa e voglio interessarmi di me soltanto e non dell’Italia.
Fra l’altro, prima o poi, dovrà arrivare il momento in cui fare per davvero i conti con la mia irrequietezza che tanto mi spinge a vagabondare, tanto mi tormenta – talvolta morbosamente – con la ricerca delle radici.
Couches on the Road // II
aprile 25, 2012
Mood: eccitato, più tardi vi racconto
Reading: un libro di semiotica – per finta – per un esame che mi inventerò
Listening to: The Chain – Fleetwood Mac [in loop da giorni, si sappia ormai che Eta è la mia personal dj]
Watching: disordine pre-…, sempre più tardi vi racconto
Playing: a smaltire la lista delle cose da fare
Eating: macine con nutella
Drinking: caffè
Raquel appartiene a quel tipo di esseri umani che suscitano in me un interesse essenziale immediato dettato dal fatto che con qualsiasi strumento io li bilanci loro sembrano non aver subito appesantimento dagli anni che portano sulle spalle. Certo, Raquel porta sulle spalle vent’anni che non sono un macigno come potrebbero essere per esempio ottant’anni sulle spalle, ma già iniziano a essere qualcosa con un potenziale gravitazionale non indifferente. Lei tutt’altro, effonde dai suoi pori caffellatte il semplice calore gioioso di chi ha nel sangue il Sud del Mondo perché sebbene sia nata in Pennsylvania e lì abbia sempre vissuto, trae nutrimento dai suoli della Grecia e del Porto Rico che le ritornano ogni giorno nel cuore per cordone ombelicale senza che mai ci sia stata per un momento soltanto fin’ora, sarà per tutto questo che il Sud del Mondo esercita su di lei un fascino magnetico, la richiama, ‹‹I have to go››, lo dice con la nostalgia di chi ha lasciato dietro di sé un amore tanto amato e a me che sembra che si sia fatta spedire con un Erasmus a Madrid per ingannare le distanze.
La prima volta che l’ho vista, Raquel abbracciava la cabina del telefono pubblico in Stazione Centrale a Milano dalla quale descriveva ad Arianna quel che vedeva attorno a sé per riuscire a incrociarci nel flusso di gente continuo e massiccio con facce ignote ed era braccata stretta dal vecchietto grande la metà di lei che le aveva prestato la scheda telefonica ma senza rinunciare al risarcimento. Che fosse disorientata era evidente, che fosse fiduciosa era evidente, qualsiasi sentimento sul volto di Raquel è evidente in tutta la sua semplicità primigenia come se non fosse mai cresciuta come se non le avessero mai insegnato che a essere così esposti nel mondo senza neanche un foglio di carta velo sopra l’ultimo strato di pelle all’occorrenza si corrono rischi e rischi grossi, così ho pensato la prima volta che l’ho vista, ma c’è voluto un attimo per capire che Raquel ha ben presenti nella testa i rischi e i rischi grossi, ma ne fa la misura con i benefici anche quando non le viene facile come mangiare un mirtillo e le procura ansia e io di questo ho sorriso venti minuti dopo la prima volta che l’ho vista correndo abbracciate tutte insieme sotto un pioggione all’improvviso, un’ora dopo la prima volta che l’ho vista trovandola rannicchiata sul divano di casa nostra, che fosse a suo agio era evidente che lo fossimo anche noi era evidente, sicché sembrava che ci fosse sempre stata che non l’avessi vista la prima volta che l’ho vista che era un’ora prima soltanto, ho sorriso.
Raquel guarda il mondo con gli occhi come se ogni giorno si aprissero al mattino dopo il buio dell’utero, si meraviglia per ogni più piccola cosa dà nomi a ciò che non conosce o forse davvero quest’Europa è tanto diversa da questi Stati Uniti non so, ‘ché persino all’Esselunga con Raquel sembrava di essere in un parco divertimenti, spalancava lo sguardo davanti ai peperoni che in Italia sono gli ortaggi quelli indigesti e che negli Stati Uniti basta aggiungere una “p” per avere i pepperoni che però sono delle salsicce tipo wurstel, spalancava lo sguardo di fronte a tutti i reparti ma di più di fronte a quelli dei derivati e del latte e della pasta e del pane e io la osservavo incredula spalancare lo sguardo e mi chiedevo cosa potesse avere di speciale l’Esselunga cosa rispetto a un supermercato degli Stati Uniti che io mi immagino immenso e pieno di fesserie come quelli in Olanda che la prima volta che ci sono entrata ormai quasi dieci anni fa venivo ancora da un paesino del Sud Italia e neanche avevo mai immaginato potessero esistere supermarket così grossi e attrezzati li trovavo mostruosi eppure non potevo che provare meraviglia esprimendo in pieno tutta la perversione di una mente umana, e mentre così osservavo Raquel spalancare lo sguardo mi si è aperto nella testa un nuovo pensiero che però penso già da un po’ di tempo, è così enorme il fatto che oggi le singole identità degli uomini occidentali coincidano con i prodotti sugli scaffali nei negozi da essere diventato invisibile.
Raquel è stata nostra ospite per un giorno e una notte dopo i quali sarebbe rimasta a Milano ma altrove. È andata a finire che siamo state insieme anche dopo quel giorno e quella notte e la vita è stata come in un giorno qualsiasi niente di quelle cose troppo speciali che si fanno per riempire il tempo con un estraneo, ammesso che già non sia oltremodo speciale star tanto bene con una persona che la prima volta che l’ho vista era il giorno prima mentre a parlarci – malgrado l’inglese tutt’altro che da super pro – sembrava di avere di fronte un’amica d’infanzia. Ovunque fossimo, ovunque andassimo, Raquel aveva sempre sulle spalle il suo zainone da viaggio, ‹‹Per piacere, ditemi quando la mia presenza diventa di troppo perché io sto bene con voi, ma voi magari avete altro da fare.›› mi ha detto, ‹‹Stai scherzando? Io sono felice se ci sei. Chissà quando potremo rivederci, dopo questi giorni!›› le ho detto e infine ‹‹Come back home when you want, Raquel.››
Avere le scarpe al contrario
aprile 13, 2012
Mood: vegetativo post nottataccia
Reading: Nick Hornby, Non buttiamoci giù
Listening to: Mina Mazzini – Io sono il vento
Watching: la pioggia che si attacca alle finestre
Eating: caramelle Ricola LemonMint, l’assenza della cucina di mamma si fa sentire tanto più se il frigo è vuoto
Drinking: acqua
Quando ho lasciato l’Olanda per l’Italia passando per la Germania, ieri pomeriggio, provavo il solito sentimento misto di nostalgia ed euforia che mi assale a ogni nuova partenza. Succede così alle persone di tutto il mondo che dicono Casa non quando hanno un tetto sulla testa ma quando sentono i piedi stare saldi al terreno le scarpe adeguate e questo tipo alternativo di Casa – si capisce? – non ha problemi logistici burocratici legali può essere piazzata un po’ ovunque in mezzo a milamilioni di esseri umani, per esempio ho visto giustappunto ieri su un’autostrada olandese una casa di legno sopra un camioncino una casa di legno tutta pronta pareti porte e infissi per essere abitata dopo esser stata piazzata così mi ha detto papà e io ho pensato sono un po’ come quella casa pronta per essere abitata, ma molto più impalpabile, molto meno concreta e insomma succede così alle persone di tutto il mondo quelle come me succede che sentono la mancanza e il desiderio di tanti luoghi – si capisce? – emotivi più che geografici tutti quanti insieme e poi un po’ si sentono confusi, occorre sempre un grande sforzo per andare e un grande sforzo per restare.
Quando ho lasciato l’Olanda per l’Italia passando per la Germania, ieri pomeriggio, io mi stavo sforzando, ma tanto e non solo perché così succede alle persone di tutto il mondo quelle come me quando devono andare o restare, ma anche perché io provavo la sensazione scomodissima di avere le scarpe al contrario i lacci ingarbugliati le suole impiastricciate e di non sapere cosa non lo so, forse di non sapere cosa sapere perché nella vita c’è sempre bisogno di sapere qualcosa sennò ci si sente scomodi come mi stavo sentendo io. Adesso, a onor d’onestà, sono giorni forse un mese che mi sento molto scomoda tra un sorriso e un altro e vario da una condizione a un’altra opposta con estrema facilità, se c’è una cosa peggio di tutte le altre è quando non riesco a starmi dietro, vado troppo di corsa e mi viene il fiatone, mi si gonfia nella laringe un nonsochè come una poltiglia, dolore credo nero denso grave mi si gonfia nella laringe e non fa passare l’aria sicché per alleviare il fastidio io continuo a cacciarmi le mani in gola e a suonare forte le corde vocali pizzicarle sfregarle nella speranza di urlare come quando
una notte ho sognato mia nonna che è morta e nel mio sogno mia nonna che è morta era la prima ballerina di uno spettacolo del Mouline Rouge, stava tutta torta e rinsecchita dentro la sua bara che oscillava a metri d’altezza attaccata al soffitto per delle funi tese da un paio di ruzzulani e io lì a guardare che ne avessero cura non la sballottassero troppo facendola piroettare e poi all’improvviso i due ruzzulani hanno calato la bara con dentro mia nonna che è morta e lei ha vomitato un rivolo di sangue giù per una ruga e come se questo l’avesse rianimata come se tutto il sangue fosse tornato a gorgogliare mia nonna che è morta si è alzata mi ha guardata e giuro non faceva nessuna paura voleva rassicurarmi tranquillizzarmi offrirmi una possibilità e quando mi ha abbracciata io le sono caduta in mezzo alle braccia sono caduta in ginocchio di peso e ho iniziato a urlare che sembrava non avrei finito mai che sembrava che mi stessi liberando persino degli organi, urlavo e non avrei mai finito se non quando mi fossi svegliata,
così
pensavo e c’era la luce dorata ad avvolgere l’Erasmusbrug i palazzi vetrati del porto di Rotterdam in lontananza dall’autostrada che porta a Dordrecht Utrecht Havens e pochi chilometri dopo, svoltando per Gorinchem c’erano le nuvole viola pesto a imbrogliare i prati sconfinati le poche costruzioni l’intreccio delle strade e quasi non volevo crederci che già a un angolo dell’orizzonte c’era l’arcobaleno solido e spezzato in cima simile a un marshmallow e che soltanto dopo l’arcobaleno è arrivata la pioggia a chicchi grossi poi a aghi sottili e di nuovo a chicchi grossi verso Venlo Nijmegen Köln fin quando al confine con la Germania non è ricomparso il sole uno spicchio sanguigno di prepotenza che la terra stava inghiottendo per illuminarsi bruciare col fuoco da dentro prima della notte, sembrava che per tanti chilometri noi non avessimo fatto altro che inseguire lo spettacolo finale, in Olanda, un momento prima c’è il sole quello dopo la pioggia così mi ha detto papà e io ho pensato – si capisce? –
Couches on the Road // I
aprile 3, 2012
Mood: malinconico andante
Reading: Nick Hornby, Non buttiamoci giù
Listening to: Antonella Ruggiero – Inafferrabile (“Sono nata col cuore di scimmia / e non so se lo sai / vivo sopra gli alberi”)
Watching: la pila di libri ai piedi del letto che reclama di essere sfogliata, garantisce ispirazione che non trovo
Playing: per superare una crisi artistica molto drammatica che ha il tempismo perfetto di chi si presenta quando è più inopportuna, tipo quando dovrei progettare la mia tesi, ma questo è un capitolo a parte della mia storia contemporanea
Eating: spaghetti al sugo
Drinking: caffè
I. è un ragazzo di ventitrè anni con la testa spaccata tra il Medio Oriente e l’Occidente, rientra non del tutto nell’uno e non del tutto nell’altro. È nato in Turchia, ha studiato nelle scuole musulmane del suo paese poi genetica nell’università di Istanbul poi ancora medicina all’università di Barcellona dove è arrivato due mesi fa, crede che il progresso scientifico e tecnologico renda l’uomo molto più potente della natura, crede anche che Allah abbia creato il primo uomo e la natura. Beve alcool in compagnia fuma frequenta le feste scatenate guarda senza peccato le mie braccia scoperte di donna, pensa a suo padre solo con la sua famiglia e il suo negozio e non capisce come possa essere felice privandosene per una vita intera perché così la sua cultura gli impone, non vuole tornare a vivere in Turchia, eppure più viaggia attorno al mondo più incontra gli occidentali dallo sguardo triste e pensa a suo padre che è felice senza alcool fumo feste scatenate braccia scoperte di donne solo con la sua famiglia e il suo negozio e non capisce come cosa fare, sicuramente un giorno si sposerà pensa che gli uomini non possano star bene se soli anche se con un buon lavoro e una bella casa, ama una donna americana è difficile che la sua famiglia la accetti gli permetta di sposarla appartiene a una cultura troppo diversa sorgerebbero zizzannie non è bene, ma lui proprio non vuole tornare a vivere in Turchia e questo rende tutto un po’ più semplice, anche il servizio militare che nel suo Paese è obbligatorio per i maschi sani soprattutto è un onore un disonore per chi non può assolverlo, suo zio ha perso cinquanta chili pur di essere ammesso al servizio di leva, a lui poco importa vuole continuare a studiare ottenere la cittadinanza altrove cosicché il suo dovere militare da tre anni si riduca a un mese, gli ho detto che i guai iniziano quando ci si accorge che nella vita ci sono molte più possibilità di una e ho sorriso, ma lui era troppo turbato, naturale, ormai è nei guai.
‹‹I’m not acceptable for Turkish people, do you know?››, mi ha detto I. Mi sono accartocciata sullo stomaco.
I. è stato il primo – di altri – viaggiatore sconosciuto verso il quale ho spalancato le braccia con un sentimento di fiducia prima ancora che di paura perché so che è facile nutrirne quando si sguazza nell’ignoranza di chi si ha di fronte e della sua cultura. Nel corso dei due giorni e mezzo insieme, I. mi ha raccontato mille e una storia sulla politica sulla religione sulla vita di tutti i giorni sulla condizione della donna sulla condizione dell’uomo sulla sessualità sul matrimonio sul lavoro nella terra in cui è nato io gli ho raccontato (sicuramente meno di) mille e una storia sulla politica sulla religione sulla vita di tutti i giorni sulla condizione della donna sulla condizione dell’uomo sulla sessualità sul matrimonio sul lavoro nella terra in cui sono nata. Prima di conoscere I. sapevo che gli esseri umani di tutto il mondo assumono forma e spessore succhiando linfa dall’habitat culturale dentro il quale fanno presa, ma lo sapevo come un enunciato che sta nell’aria un enunciato che bisogna sapere un po’ da buon intellettuale. Ritrovarmelo sotto il naso, tra le mani così fisico denso concreto mi ha emozionata sconvolta esaltata scossa tutta quanta io che non so provare un solo sentimento per volta e poi finisce che mi sento ubriaca come innamorota, iniziano così tutte le mie storie d’amore con l’umanità nomade.
Del resto, il giorno in cui ho iniziato ad aprire la porta di casa ai viaggiatori sconosciuti ai vagabondi della strada per offrire loro un divano un letto un pavimento un piatto di pasta una chiacchierata, tutto quello che volevo era il rovesciarsi del mondo nella mia vita di tutti i giorni. Fare del mio nido il mondo del mondo il mio nido e del mio un nido per il mondo. Questa è un’esigenza per chi come me fa del viaggio una questione ontologica.
Piccolo inciso a proposito dell’idea di fotografare i divani nel quale hanno dormito i viaggiatori sconosciuti che Yanna e io ospitiamo a PaRecchia al Tre. Non è niente di nuovo. Nel 1979, Sophie Calle ha realizzato Les Dormeurs [altre fotografie non troppe si trovano in Google immagini], invitando a dormire per otto ore consecutive nel suo letto ventinove persone conosciute e sconosciute nel corso di una settimana e scattando loro una foto ogni ora nel sonno.
Il mio è un approccio molto maldestro perché, ho scoperto, crea imbarazzo fotografare il letto in cui qualcuno ha dormito è come frugare nella sua intimità assomiglia a un furto. C’è da dire che non intendo smettere di farlo. Ciò che voglio è proprio questo racconto di vita intima attraverso gli oggetti e le mappe del corpo e dei suoi movimenti nelle lenzuola. Non chiedo scusa, al prossimo però chiedo il permesso.
Emigrare, la prima regola del Fight Club
novembre 12, 2011
Mood: teso
Listening to: Crystal Castles – Crimewave
Watching: Pina, di Wim Wenders (per la prima volta in vita mia, dico da vedere in 3d)
Playing: a scaricare la tensione accumulata
Eating: patate bollite e taralli ridotti a farina dal viaggio Bari-Milano
Drinking: acqua
Quando ci racconta di come ruota la vita che (si spera) ci aspetta là fuori, una mia professoressa di regia snocciola le “Regole del Fight Club” che non sono propriamente quelle di Chuck Palahniuk, ma un riadattamento delle suddette al nostro habitat professionale. Forse è inutile specificare che non c’è una sola che non ti metta in bocca un sorriso cinico o amaro, ma a me la dicitura “Regole del Fight Club” piace proprio tanto perché ha intrinseco il valore della lotta e della resistenza sul ring dove l’idea stessa del futuro picchia più di una grandinata non preannunciata. Noi uomini siamo stati abituati male con tutti gli omogenizzati e le pappine pronte che ci hanno propinato da cuccioli. Le bestie invece imparano presto che la ciccia si conquista con le unghie e con i denti, pena la vita.
E quindi ieri in mezzo, in mezzo ai tornanti di un discorso, questa mia professoressa si è girata di scatto verso di me e mi ha concesso il privilegio di una bastonata ‹‹Tu vuoi fare il direttore della fotografia? Emigra.››
Ma cazzo, mi è venuto da obiettare, io voglio fare la direttrice della fotografia, non il direttore, possibile che non mi si riconosca mai il genere femminile?
Esperti del settore sono tutt’ora al lavoro per capire se lei pensasse di sconvolgermi con una rivelazione simile. Io sono una bestia.
Emigrare
È la prima regola del Fight Club. Nel fu Bel Paese le uova marciscono. Se si vuole che si schiudano e che i pennuti crescano e vivano, bisogna svolazzare verso lande più favorevoli.
Del resto, per quanto mi riguarda, non ho mai pensato di restare a vivere nel nido da cui sono sgusciata e mi è venuto spontaneo forzarne da subito i confini per elasticizzarli. Quando le traiettorie migratorie hanno iniziato ad essere le uniche immagini di me che riuscissi a proiettare tanto in là nel futuro, emigrare e vivere “oggi qui, domani lì, dopodomani ancora chissà”, fiutando soltanto l’umanità, era un sogno e l’aspettativa più elevata che potessi coltivare. Non ci ha messo molto a diventare la dinamica essenziale di tutta la mia vita, e-migrare, andare da un luogo ad un altro, ma anche da un’emozione ad un’altra, da uno status quo ad un’altro.
In certi momenti, ho pensato che sarebbe stato massimamente bello nascere su un aereo in volo, originaria di nessun posto in particolare e di tutti insieme. Ebbene, chi l’avrebbe mai detto, guarda il caso birichino!, tra qualche ora sarò concretamente e non solo emotivamente una persona inuncertoqualsenso di nessun posto in particolare. Anche la mia famiglia emigra ufficialmente, mamma e sorella raggiungono papà in Olanda. E qualcosa in me cambia.
Mi sarebbe piaciuto nascere su un aereo, ma sono nata a Sud, in provincia di Bari. Ho bruciato lì i primi diciott’anni della mia vita e, crescendo, ho sfumato la mia patologia e la mia essenza da e-migrante con l’amore e la sofferenza per il nido in cui sono nata. Un tempo sapevo che, per quanto potessi prendere, andare, partire, vivere altrove, di tanto in tanto e ad un certo punto non ben precisato avrei affrontato un viaggio di ritorno al mio vecchio Sud, inteso come luogo degli affetti, ma anche come puro confine geografico. Perché, al di là di qualsiasi poltiglia patetica, lì ci vivevano mamma, papà e sorella e anche il più volatile degli esseri umani, tra un viaggio e un altro torna indietro per baciare la propria famiglia natale.
Tra qualche ora però anche la mia famiglia emigra ufficialmente, si svuotano gli armadi, si stacca l’elettricità, si chiudono le imposte alle finestre della nostra casa e si fa silenzio o quasi perché la vita che ha percorso un luogo difficilmente si stacca dalle sue pareti. E allora faccio il conto delle ore che restano, dodici per approssimazione, e non so bene come districare il groviglio emotivo e celebrale che mi sta dentro, mi stringo nelle spalle perché è come se mi mancasse la terra sotto i piedi. E tra l’esaltazione e l’insicurezza, mi riesce persino di incazzarmi, non avevo previsto che il caso mi fottesse e svoltasse senza ritegno nella direzione delle mie vedute da vita sperimentale, enfatizzandole fino a privarle di quel po’ di nostalgia classicheggiante da ritorno che serbavo nel profondo. Ma soprattutto non avevo previsto che potesse svoltare investendo il mio sogno e l’aspettativa più elevata che potessi coltivare con la forza inderogabile di un’imposizione impartita addirittura a tutta la mia famiglia, ché, non fosse stato per la visita da parte di Madame Disoccupazione e Monsieur Come Cazzo Sbarchiamo il Lunario, mamma e papà sarebbero rimasti volentieri nel nido, e sorella avrebbe a buon diritto preferito rotte più libere ed indipendenti.
Ma bando ai piagnistei e benvenuti al Fight Club, miei amati Signori. Qui si combatte e, come vuole la settimana regola del Fight Club di Chuck Palahniuk, “i combattimenti durano per tutto il tempo necessario.”
Paradossi Cardio(a)ritmici
ottobre 7, 2011
Mood: stranamente ansiogeno
Reading: Salvador Dalì, La mia vita segreta
Listening to: la ventola del computer che si incazza e minaccia di andare in orbita
Watching: disordini
Eating: chissà quando se non mi sbrigo a cucinare qualcosa
Drinking: effettivamente necessiterei litri liquidi alcolici
Dopo più di due anni di totale assenza dalle scene sanitarie per la noia di sentir prima ricondotto ogni mio malessere fisico alla somatizzazione e per il cipiglio di sentirlo poi elevato senza ragioni sufficienti a grave male degenerativo, dopo più di due anni di totale assenza dalle scene sanitarie, dicevo, mi sono persuasa per forze di causa maggiore ad andare a far visita al mio medico curante che, effettivamente sorpreso, mi ha chiesto se non mi avesse per caso costretta mia madre. E, dopo i convenevoli di rito, ‹‹Come stai?››, ‹‹Alla grande!››, non iniziamo subito con la storia della somatizzazione, ‹‹Dove vivi?››, ‹‹A Milano.››, ‹‹In che zona?››, ‹‹Sui Navigli.››, ‹‹Mia figlia anche sta a Milano…››, eccetera eccetera, andiamo al dunque che c’ho da fare, gli ho raccontato che da quando un giorno di qualche mese fa sono caduta al suolo come una pera marcia dal suo pero in mezzo ad un gregge umano nel cesso pubblico di un multisala, continua costantemente a girarmi tutto intorno alla testa, poi improvvisamente e frequentemente la testa suddetta mi si svuota e mi affloscio, ma cosa assai peggio ed imbarazzante – che tanto di tenermi su mi riesce per il momento – mi sciolgo in un bagno di sudore, sospetto di soffrire di violenti cali di pressione, gli ho raccontato anche, subito, subito, che, non stia a chiedermelo, tutto questo mi succede per lo più in spazi chiusi o molto affollati, sono affetta da claustrofobia io e contemporaneamente dalla smania di tenerla sotto controllo, e frequentemente quando provo dolore e disgusto, ciò è strano, ché io ho una soglia di sopportazione del dolore molto, ma molto elevata, e che, neanche s’immagini di domandarmelo, ho una vita dai ritmi stressanti, dormo poco e male, lavoro tanto e vanto una tragedia shakespeariana per vita sentimentale, disastrata e priva di certezze, ora più che mai confusa, sicché neanche provi a tirarmi fuori la storia della somatizzazione, so da me, voglio solo controllarmi con degli esame del sangue, una cernita di valori, nero su bianco, me li prescriva, che tra le varie sono anche vegetariana e nell’ultimo periodo non mi sono alimentata da brava vegetariana, nonostante possa vantare un ciclo mestruale stabile, e non si sa mai.
Al che il mio medico curante mi ha puntato al cuore lo stetoscopio che è un aggeggio che mi affascina decisamente e massimamente, al punto che, dovessi possederne uno, rischierei la dipendenza da auscultazione delle mie viscere. ‹‹Sei agitata?›› mi ha domandato il mio medico curante, ‹‹No! Sto un pascià!››. Allora mi ha punzonato il dito con un altro aggeggio elettronico che schizzava bmp a caratteri squadrati gialli e non me lo ha tolto fino alla fine della visita, ‹‹Lo vedi?, questa è la tua frequenza cardiaca regolare››, 102,103,108, e mi ha notificato che normalmente il cuore di un adulto ha frequenza regolare di 80 battiti per minuto, da che ho dedotto che io non rientro nella famiglia “Normalmente”, dovremmo vedere, fare, controllare questa dinamica, in verità sono anni che ci provo, gli ho detto, ma nessuno sa dirmi niente ed io resto col cuore in gola vita natural durante.
‹‹Questo fatto che il tuo cuore è sempre in corsa con se stesso…›› ha esordito ad un certo punto il mio medico curante per dirmi che questo fatto è un problema da non sottovalutare nella diagnostica della problematica e per lanciarsi infine in una lunga spiega che accompagnava con una mano misurandomi la pressione, ‹‹Regolare››, con l’altra mimando il mio cuore come fosse una pompetta, ‹‹Lo vedi? Il cuore fa così››, solo che il mio, pulsando tanto rapidamente, ‹‹non ha il tempo sufficiente per pompare bene il sangue in tutto il tuo corpo e nemmeno per riempirsi a sufficienza di ossigeno››, sicché a me viene da mancare, negli atleti, dovrei saperlo, sono un battito cardiaco ed una respirazione regolari il passpartout per le migliori prestazioni!, e poi non dobbiamo svalutare le crisi di panico, che sarò anche brava a controllare, ma mica sempre!, ed il dolore che ‹‹mia cara, stende anche i più forti.››, ché c’è un comportamento fisico, m’ha spiegato, o qualcosa di simile, per cui il cuore rallenta all’improvviso il suo ritmo usuale, sicché il mio, che d’uso batte accelerato, non riconosce quella nuova aritmia ed a me ugualmente viene da mancare.
Ad ascoltare il mio medico curante, a me è venuto da sorridere, quasi da ridere, ché appena recepite queste parole, direi fin dalle prime ineluttabili, ‹‹Il tuo cuore è sempre in corsa con se stesso››, il mio cervello s’è messo in opera per definire e ridefinire strutture e sovrastrutture, sensi e sovrasensi scientifici ed emotivi, a me lo racconti che il mio cuore è sempre in corsa con se stesso?, a me proprio che sono condannata a sentirmelo ogni giorno nelle vene, ed esserne animata, incalzata, bruciata!
Mi riempio gli occhi di strade e stazioni, di esseri umani comuni, ma sopra le righe e di storie e racconti di gioie e dolori che sono tanto i miei, quanto i loro e di corolle di amori, do nuovi nomi alle cose ed al centro di questa ritmica incalzante mi si dispiega nello stomaco il sentimento stesso della vita, la sua complessità e la sua bellezza, come posso spiegarlo diversamente con le parole?, lo spazio sconfinato ed estremamente essenziale che interconnette me a quello che è fisicamente fuori da me, ma emotivamente già dentro di me. Il mondo mi colma e mi nutre ad ogni palpito ed io, che pulso tanto veloce, raccolgo più ossigeno nei polmoni, non meno, diffondo più sangue in vena, non meno!
Eppure.
Talvolta, tra una strada ed una stazione, mi coglie impreparata il ritmo del mio passo solitario, comincio ad andare oltre più adagio, meno spasmodicamente, mi appesantisco. Negli anni, ho sviluppato concezioni di vita che travalicano il senso comune, imbevute di platonismo, amore e casa prima di ogni altri sono diventati per me eteree ed incorruttibili parentesi di condivisione nel corso del viaggio. Eppure a dispetto di tutto ciò che di ascetico e di fuori le righe penso e faccio, “una qualunque” ci sono nata e ci sono rimasta anch’io, mi è toccato crescere prima di riuscire a raccontarmelo in serenità. È questa la mia umana contraddizione in cui si annida, guarda caso, il desiderio di un passo che si confonda col mio, un comunissimo desiderio di stabilità nel mio caso emotiva, più che propriamente geografica. ‹‹Beata te›› mi dicono quando racconto delle mie pratiche di nomadismo ‹‹Per tutto l’amore che non ho, anche per questo›› ho confessato l’ultima volta ad un’amica fidata, ché ora, per dirla pane al pane, vino al vino, sempre a dispetto di tutto il mio sistema filosofico plurinominato e non rinnegato sul movimento come condizione necessaria al sentire la vita per intero e complessa e sul sentire la vita per intero e complessa come condizione necessaria al nutrimento dell’anima, nei miei vagabondaggi convivono anche tutte le folgoranti possibilità del non essere legata a niente e nessuno in particolare come “una qualunque” e la speranza timida di un giorno diverso da questi in cui stringere tra le mani i miei sogni lontani da “una qualunque”, quelli su un buon motivo per cui smettere di andare oltre spasmodicamente in primis. Non che io non ne abbia mai riscontrato nessuno, anzi, in tutta onestà, ce n’è in particolare uno che mi assilla, ma, non nascondiamocelo, mai un “Baby, please don’t go” come quello che gorgheggia nelle radio a mezzanotte, che imbarazzo io che sogno ed aspetto una professione sentimentale così tanto banale, ma ebbene sì, talvolta l’aspetto. Voglio dire, i buoni motivi per cui smettere di andare oltre spasmodicamente, finanche quello in particolare che mi assilla, mi si sono affacciati al cuore eccome, ma sono stati miseramente sviliti e snaturati dalla consapevolezza di restare ancora una volta miei soltanto e di nessun’altro, iperglicemica monnezza non condivisa. Questo certe volte, ché certe volte altre invece andare oltre spasmodicamente si è rivelato per me più facile, meno compromettente e più opportuno che restare e soffrire ancora, intendo quando i buoni motivi per cui smettere di andare oltre spasmodicamente hanno iniziato a svilupparsi e sviluppandosi mi hanno fatto paura.
In buona sostanza, quando talvolta tra una strada ed una stazione, mi coglie impreparata la crisi da “una qualunque” ci sono nata e ci sono rimasta anch’io, mi sembra che la mia vita intera annaspi in un corollario di strade e stazioni ed esseri umani e storie e racconti e gioie e dolori ed amori interrotti o esauriti nel ciclo di un attimo, di cui non restano che le briciole come eroiche vestigia al limitare della strada di cui non m’è dato sapere se sarebbero diventati castelli semplicemente perché sono andata oltre spasmodicamente. Allora il mondo mi scivola via dagli occhi ad ogni palpito, strano, fino a poco prima erano colmi, o almeno così mi pareva, adesso invece mi sembrano disabitati, ed io che pulso tanto velocemente, raccolgo meno ossigeno nei polmoni, non di più, diffondo meno sangue in vena, non di più!
Per farla breve, paradosso cardio(a)ritmico migliore non avrei potuto fantasticarlo. A volte mi ritrovo a pensare che prima o poi dovrò smettere di essere in corsa con me stessa e di professare la vitalità e l’equilibrio della squilibratezza per allenarmi invece ad una qualche forma di regolarità più comunemente intesa. Ne gioverebbe anche la salute, pare. Ma che pretendo?, non sono nata per far l’atleta io! Pur volendo, non me ne sono stati forniti i connotati neanche biologicamente!
Storie del Vecchio Sud // Intanto Ri-generarsi
aprile 18, 2011
Mood: stabilmente instabile
Listening to: Gianluca Grignani – L’aiuola con Zulio a tutto volume sulla Vicenza-Milano
Playing: il gioco della felicità
Eating: Asiago
Drinking: acqua
Fuori dal centro abitato del paesello in cui sono nata, le strade sfuggono con naturalezza nell’aperta campagna, disconnesse e sempre più ristrette tra i muretti a secco diroccati che due macchine insieme spesso non ci si passa. La partitura del paesaggio muta gradualmente, il verde dei prati e delle fronde degli alberi si infiltra nel grigio fino a fagocitarlo, e così il viola del glicine abbarbicato tra i massi, il giallo e l’arancione delle macchie di margheritine ed il marrone del terreno arato di fresco, il rosa del fiore del pesco e il bianco di quello del ciliegio e l’argento delle foglie d’ulivo e l’azzurro del cielo terso con il tempo, si sa, muterà ancora tutto, aspetto e colori.
Da bambina, scorazzavo in questi campi a briglia sciolta, i miei nonni materni avevano costruito masso su masso una grande casa bianca in mezzo ad un oceano di terra e mio nonno ci urlava dietro perché a correre a piedi nudi gli rovinavamo il solco e a costruire le casette con le casse di plastica gli mettevamo tutto in disordine e da dire ce ne sarebbe sui nostri giochi invasati e sordi a qualsiasi minaccia.
Tornandoci, dopo mesi di vita milanese trascorsi a fissare senza amore palazzi più o meno elevati e vetrine e traffico, sulle prime mi sembra di non cogliere la realtà di quello che sto vedendo, ma che begli scenari in questo sogno ad occhi aperti, persino il cielo ha colore! Poi con il trascorrere dei minuti, il respiro dei campi, pulito e leggero, mi solletica la gola e si dà alla discesa verso il cuore, lo gonfia e lo incalza, lo rianima, c’è odore di terra, di petali infastiditi dal venticello, di acqua e di pietra, ci sono la terra, i petali infastiditi dal venticello, l’acqua e la pietra, mi emoziono timidamente.
Poi in fondo ad una discesa, incorniciata dalle fronde degli alberi, si schiude la visione sublime di dolci declivi verdi disseminati da piccoli agglomerati sbiancati nella luce piatta di metà pomeriggio, è un colpo all’anima, com’è possibile che esista ancora tanta bellezza? Il fatto è che la natura resiste anche se ferita, l’uomo con tutti i suoi conti in tasca non si sa per quanto.
L. abita due svolte in là, in una casa col porticato in legno, affacciato su un giardinetto sul quale lei stessa profonde amore, coltivando fiori e piante d’ogni genere che, crescendo, s’aggrovigliano tra loro, e sembra una piccola giungla. In uno studiolo ricavato da uno spazio di troppo, L. pratica la tradizione degli aggiustaossa, della pronoterapia e della riflessologia plantare. «I piedi parlano», mi ha detto ed ho sorriso io, io che ho sempre un po’ tanto creduto che la vita passi attraverso i piedi, il passo, il modo in cui la pianta si arpiona al suolo, la penetra, la scava, nei luoghi che segna, è questione di pesi, di ritmi, di umori. Io che da qualche mese stavo affrontando la vita con un passo zoppicante a causa di un paio di faccende emotive e, guarda caso, dell’alluce destro accartocciato su se stesso, senza particolari spiegazioni, «ossa accavallate in calcificazione con principio di alluce valgo, un calcio o un passo a vuoto», mi ha detto più tardi L. mentre, pian, piano, riportava tutto al posto giusto ed io sentivo il piede allungarsi e rilassarsi e sì, ora lo poggio di nuovo per terra e, a volerla dire tutta, la radiografia e l’ecografia del giorno dopo non sono state in grado di rilevare alcun tipo di malformazione e semplicemente perché non c’era più.
La gente del circondario spesso conosce L. come Anselma, in verità la gente del circondario conosce l’intera zona come “Àbbasce ad Anselm” (“Giù ad Anselma”). Anselma era un’istituzione in questioni di ossa a spasso da riportare a casa ed abitava appena qualche metro in là rispetto a L.
Da bambina, Anselma mi ha rimessa a posto centinaia di volte, ché io ero pazzerella ed una volta ruzzolavo giù da un albero, un’altra cadevo dalla bicicletta e mi incastravo nella raggiera della bicicletta, un’altra ancora perdevo l’orientamento mentre facevo una ruota dietro l’altra con una sola mano e finivo contro un muro, fatto sta che mi ritrovavo sempre con un piede, una caviglia, un braccio, qualche dito dis-locato. Aveva l’odore della terra, Anselma, ricurva su se stessa e nodosa come la radice di un ulivo secolare e scura e segnata come un suolo riarso dal sole. Aveva raccolto tutta la forza e l’energia nelle mani, scheletriche e lunghissime, e la si avvertiva fisicamente quando premeva a fondo tra i muscoli e le ossa, poi cranck, tessuti distesi, «È a posto», e in verità Anselma parlava un dialetto che mi era incomprensibile. Non ha mai imposto pagamenti in moneta, ricordo che a mio papà chiedeva pale da camino e non ho mai capito bene per quale motivo, comunque qualcosa a che fare con mio nonno. E il suo camino era nero, nerissimo, nero fuliggine, lo fissavo e mi ci perdevo mentre muscoli ed ossa si spostavano sotto le sue dita e stringevo le labbra tra i denti, ché fiatare il dolore lo reputavo infantile anche quand’ero una poppante
A volte mi sembra impossibile incontrare tutt’oggi per strada gente che ritenga Anselma ancora viva, non c’è più da così tanto tempo, ma se è vero che si vive agitati nella memoria, effettivamente Anselma è viva, altroché se è viva!
Il caso aveva voluto che Anselma e L. fossero l’una per l’altra suocera e nuora. Ma Anselma non ha insegnato nulla a L., lo si avverte nelle loro mani. Della terra, Anselma aveva anche l’asprezza e la rudezza, mentre nelle mani di L. non si incontra mai un gesto disattento o maldestro, mai nella sua voce un tono acuto o sbrigativo, «la dolcezza, non provoca dolore», mi ha detto, la dolcezza è la cura, l’ha imparato con i polletti e le galline e i conigli ed i vitelli quand’era bambina, prendendosene cura se erano inquieti, massaggiandoli e curandoli se si facevano male e loro continuavano a crescere e la riconoscevano, la amavano. Ad ascoltarne i racconti, il cuore incalza il sangue velocemente, «Ho un cuore anch’io, solo è diversamente abile», come posso aver pensato che mi si fosse essiccato?, era solo sopito, annichilito, corroso, mi emoziono timidamente.
Insomma, lo so, una serie di cosette degne di scetticismo e che la medicina ufficiale spara a vista come cialtroneria, ignoranza e via elencando e certamente di truffe ce n’è a palate in giro, ma quello che la pura razionalità non sa valutare è l’istintività animale di un corpo che si approccia ad un altro, carne, ossa e sangue, l’emotività di un contatto e la forza congenita in un sentimento. Dopotutto, quello che la medicina ufficiale non si spiegherà mai compitamente è il meccanismo psico-fisico dello stomaco, egguardacaso!
Mentre aspetto il mio turno, me ne sto così a ricordare e a pensucchiare insieme, semplicemente appoggiata alla staccionata che divide il terrazzino dal giardino, «Sto fuori, mamma, fuori dal bunker». Bevo tutto nei sensi, il cielo ed il sole col suo ciclo lento verso il tramonto, il percorso dei raggi che colpiscono le piante e le fanno vibrare, le armonie degli uccelli quando al calar del sole tutt’attorno la vita si quieta nel fruscio delle fronde e l’abbaiare di un cane lontano, la vecchina ricurva ad estirpare l’erba nel campo di fronte con il fazzoletto bianco a ripararsi dal sole, i nani nel terreno e i nidi tra i rami, le girandole che gorgheggiano al vento, e appena cambio la prospettiva tutto cambia, le curve delle foglie ed ogni loro oscillazione, gli arabeschi tra le nervature, la forma di una nuvola all’orizzonte, scopro dettagli che non avevo notato prima, il giallo del limone nel verde, mi immergo nel ritmo, ne divento parte integrante, un gatto grosso e dagli occhi languidi si avvicina e si procaccia carezze tra le mie gambe.
Quanto sei bella, mia terra addolorata, mia terra abbandonata, pensavo di non poter provare più meraviglia di fronte al mondo, né curiosità, come se mi avesse detto tutto e tutto male, ma che errore, un altro, come posso averlo compiuto, quand’è che ho iniziato a fare il callo alla sterilità estetica ed affettiva, quand’è che ho spento la torcia e mi sono dimenticata della bellezza, ora ne faccio scorta, ché senza mi sento soffocare, sì, sto proprio soffocando di bruttezza e non trovo rimedio, è una fuga continua e mai nessuno che alza lo sguardo e sorride e bisognerebbe fermarsi di più a meravigliarsi e a lasciarsi andare e un attimo… dov’è la lotta quotidiana dentro di me, dove sono la rabbia e l’amore e le cicatrici, dove le incertezze e le risposte agli estremi, dove lo sporco nel sangue ed ogni malsano prospetto?, ma dico, sono serena, ma dico, sto sorridendo, ma dico, ci sono e per un momento non mi sto smembrando, dico di più, sto respirando cos’è questa storia? È coscienza e insieme rapimento, ragazza, non t’accorgi che in realtà ci sei ed insieme non ci sei?, sei in un’altra condizione, lasciati andare, ragazza, lasciati andare, resta sospesa ancora un po’. Che in verità, la storia è tutta qua.
Quanto tempo sprecato a correre, nell’ultimo anno, quanto tempo sprecato a non fermarmi mai, neanche per un secondo e a chiedermi «Hei, Do, come stai?», anche solo a fare qualcosa che mi faccia piacere. A Milano davvero corrono tutti e strepitano, persino le formiche ed io assieme a loro corro e per convenienza non mi domando mai come sto e faccio respiri profondi per non piangere, respiri profondi che si schiantano come piombo sullo stomaco e lo sfondano e corro senza sosta.
Tra tutte le leggi sociali, economiche e culturali di cui si è gravato per vivere, l’uomo sembra aver condannato a damnatio memoriae proprio le dinamiche della sospensione, ma a correre sempre, lo sai, si finisce per perdere di vista la strada, ragazza, ed insieme se stessi, e a non domandarsi se stai bene, se stai male o mezz’e mezzo, si finisce per ammalarsi. Fermati, non t’accorgi che sei senza fiato? Fermati a ripescarti.
Così, mentre aspetto il mio turno, tra una svolta dei sensi e l’altra, mi domando come sto, e basta mentirsi, ti sei ammalata, ragazza, ma ammalata seria, nel profondo e ti sei persa, ragazza. Se ti domandi chi sei, dove sei, cosa vuoi, se ti domandi «Perché?» non trovi risposta che nei giorni di qualcun’altro, nel tuo essere per qualcun’altro. Ma tu, chi sei tu, dove sei, cosa vuoi per te?, ché sì, puoi ben volere anche solo per te e svegliarti domani e scoprire che tutto è cambiato e semplicemente accettarlo. Ma poi dimmi, come puoi vivere se sei prigioniera? E tu vuoi vivere, cazzo se vuoi vivere!
Non si invola all’improvviso la lotta quotidiana dentro di me, né la rabbia, né l’amore, né le cicatrici, neanche le incertezze e le risposte agli estremi e lo sporco nel sangue ed ogni malsano prospetto e dopodomani forse respirerò ancora pesante, tutte le risposte non sono in un pomeriggio, ma, mentre aspetto il mio turno, scivolo tra il rosso del tramonto che tinteggia i contorni degli alberi e gli angoli del porticato. Bisogna pur partire da qualche dove per trovare la cura per la propria malattia, e forse il sé è il dove più appropriato.
Intanto resto col naso all’insù e guardo le stelle, a vivere nell’inquinamento luminoso m’ero dimenticata che di notte nel cielo ci sono le stelle, grosse e luminose, infinite che non potrai mai contarle. Il fatto è che sulla strada del ritorno, per far spazio ad un’altra macchina, mia mamma ha valorosamente condotto la nostra anziana Fiat Tipo su un sasso ben acuminato e sbam!, la ruota non ha resistito e s’è squarciata e siamo rimaste bloccate in aperta e profonda campagna, io zoppa ed impossibilitata a fare sforzi, lei incapace di cambiare la ruota col ruotino. A breve arriverà V. il Corto che è un amico di mio papà ed è corto per davvero, ma è un brav’uomo e le ruote le sa cambiare, per di più fa il meccanico e alla sera va a ballare i balli di gruppo. Nessun problema, aspetteremo, nel mentre s’è fatta notte ed io guardo le stelle, disegno il Grande Carro ed il Piccolo e canto Mr. Mandarino, muovendomi solo dalle vita in su, e sono felice un po’, un bel po’ al punto tale che quando arriva V. il Corto gli darò un bacino sulla cocozza pelata, ci sta davvero.
Domani esondo.
***A distanza di due settimane abbondanti, ormai***
The Way back Home
gennaio 25, 2011
Mood: confusa
Reading: Jens Hauser (a cura di), Art Biotech
Listening to: Radiohead – No Surprises (mandata da Laura al contrario e giù di disquisizioni su quanto comunque la canzone non perda la sua musicalità)
Sid Vicious – My Way
Un mese a prendere e partire, fermarmi, poco, mai troppo, per ripartire, un mese intero così, a macinare chilometri e prendere e dare ed intossicarmi di vita, l’Olanda nel grembo della famiglia, mia sorella ed io a letto tra a mamma e papà, Dai, facciamo notte in bianco! Passiamo le ultime ore insieme! Sveglia grassone!, e l’Olanda on the road, uno zaino in spalla, Pauline al collo, piedi nella neve ed occhi ebbri, Come on, come on!… Ein blau tram kard, alstublieft… Excuse me, just an information, e inglese e italiano e olandese, persino francese nella testa *; immediatamente dopo, la mia amata Siena dall’atmosfera quieta, per abbracciare un’Amica che non vedevo da troppi mesi, lasciarmi avvolgere dal suo calore, respirare la sua vita ed i suoi pensieri ed immergermici, Perché devi andare via?, Siena per riabbracciare inaspettatamente un Amico, trovarlo cambiato, ma essere ancora un Noi, come ai tempi della fotografia appesa al muro di fronte, Lui, Lei, io, il caffettino, mancava solo la sigaretta, sia Lui che io abbiamo smesso di fumare, Guardate, quanti mesi erano passati?, due? Eravamo già noi, due anni e più sono passati ormai; poi un treno direzione Vicenza, destinazione Bassano del Grappa, da Zulio, per concludere la stesura della sceneggiatura di Cut off **, il nostro primo cortometraggio da girare in aprile, fare un primo sopralluogo, conoscere le nostre due attrici, stanchi morti alla fine di questo tour de force, ma tanto, tanto soddisfatti di stringere tra le mani una buona porzione di fase di pre-produzione.
Insomma. Un mese, alla fine del quale, risulta difficile disfare una valigia che si è affollata sempre più ad ogni sosta di biglietti usati di aereo-pullman-treno-tram, mappe su tovaglioli di carta e bustine di zucchero ed appunti visivi, odori tanti e diversi per ogni sosta, emozioni nuove, ritrovate, perse,
parole poche e tutte
sul fondo.
Da una settimana sono di nuovo stabilmente a Milano. Ho ripreso a frequentare l’Accademia quotidianamente, a prepararmi per gli esami di febbraio (e a diventare folle dietro la fatica), a lavoricchiare ai progetti futuri, a restare per ore con gli occhi fissi sullo schermo del computer.
Com’è andato il rientro a Milano?, mi domandano, Faccio fatica, rispondo. Effettivamente, solo ieri ho disfatto la valigia, riposto tutto negli armadi e nei cassetti, ma non mi sono arrampicata sulla scala per costringerla sul soppalco in bagno, l’ho lasciata di fianco al letto, Questa stabilità mi destabilizza, no, non sono stanca di viaggiare, perchè ne ho bisogno come l’aria, osservare, ascoltare, confrontarmi, vecchio e nuovo, ricevere stimoli, essere stimolo, ancora una volta luogo da scoprire, non solo,
ci ho pensato. L’ultima sera a Siena, me ne stavo stesa in Piazza del Campo, si usa così a Siena, con l’Amica mia, l’Ex-Coinquilina mia ed un amico suo, più la sambuca. Raccontavo dei miei ultimi spostamenti, di quelli che ho in progetto per il futuro. Accidenti, Soroty (mi chiama così l’Ex-Coinquilina mia), sempre pronta a partire!, Massì, mi piace, sogno una vita a farlo, rispondo io, Eppure prima o poi dovrai fermarti, salta su l’amico dell’Ex-Coinquilina mia. Mi sono sentita inspiegabilmente in imbarazzo, non ho risposto, mi si è piantato un chiodo fisso nella testa.
Per questo motivo ci ho pensato. Sono fatta così io, ho le radici mobili, nulla di troppo visceralmente legato a spazi, luoghi ed oggetti, sicché faccio presto ad affondarle in un qualsiasi nuovo terreno e a trovare nutrimento ed abbellimento, far fiorire gli affetti e sentirmi a Casa, ‘ché io ho una teoria, una tra tante, da quando ero ancora bambina, Casa non è un luogo confinato da pareti, ma un’atmosfera di appartenenza, una serenità diffusa, il rullo di cuore che ti batte al fianco, uno o due o tre, un intermezzo di condivisione emotiva, lo spazio di un abbraccio, poi poco importa in quale angolo del mondo ci si ritrovi. Agli affetti, a quelli sì, mi lego visceralmente, talvolta accuso anche la nostalgia di qualche lontananza, ma solo talvolta perché ogni persona che ho amato, che amo fluisce in me, e serenamente attendo i ritorni, i giri di vita, gli incroci tra strade parallele, mentre continuo a vivere e costruire.
Ho guardato al fondo di questo mese da nomade, straniera, sempre, ad ogni sosta, eppure completamente a mio agio di fronte alle novità, sempre, come fossi autoctona, mentre ad ogni sosta elevavo la mia piccola Casa. Ho capito quanto questa condizione sia necessaria al mio star bene.
A ben pensarci, il mio ultimo mese non è che un mese a rincorrere Casa. A ben pensarci, il mio nomadismo non è che una via verso Casa. A ben pensarci, non escludo la possibilità di fermarmi. Presto o tardi, a ben pensarci.
* prima o poi, ci conto, avrò tempo per selezionare, elaborare e mostrarvi le foto del reportage olandese
** post dedicato, a breve su questi schermi
Adesso c’è Pauline
settembre 30, 2010
Mood: yu-uuuuuh! 😀
Reading: Manuale Nikon D90
Listening to: Lykke Li – Dance Dance Dance
Watching: Nikon D90
Eating: banana spliNt aka banana, nutella e yogurt alla pappa reale
Drinking: tisana camomilla e tiglio
Dicevo delle cicogne, giusto ieri, che non ci si crede più.
Mi sbagliavo, di tanto in tanto tocca ammetterlo persino a me, blu lapis sotto “persino”.
Insomma, alle qualcosa meno cinque di quest’oggi la cicogna ha sorvolato le mie lande, mi ha sganciato un fagotto tra le braccia ed è scomparsa tra i cirri e le gru – tempi andati i camini, la dolce vita! – che ancora gli occhi miei non avevano sbattuto ciglio, una punizione divina sembrerebbe, credi miscredentA!
Così, adesso c’è Pauline.
Il viaggio sembra non averla traumatizzata, sta bene con i suoi centotrentaduemillimetripercentotrèpersettantasette all’incirca per un chiletto di peso e qualcosa in più.
Ha un solo occhio al centro, ma è così grande che ci può accogliere il mondo. Ed è piena di giunture e punti di snodo.
Non è un cucciolo d’uomo, Pauline.
Quando ci siamo presentate mi pulsava forte il cuore. Ma forte, forte, tanto ero felice.
E grata, infinitamente, a chi mi ha regalato questo battito perfetto, con una capacità di sacrificio che solo un amore immenso può concepire.
E’ questa la DSC_0001, la primissima foto.
In automatico, fuori fuoco e sovresposta, tanto per sentire l’otturatore chiudersi.
E’ la primissima perché c’è la cucina ancora disordinata, sei ore dopo il pranzo con loro che fanno Casa, Yanna e Nicolò, ci sono la padella fiorata, quella più grande, ma piccola per tre con fame chimica a carico, i guanti gialli con cui Yanna combatte la fobia dei piatti sporchi di formaggio, il numero spropositato di mestoli d’ogni tipo e dimensione che a breve appenderemo anche ai lobi, le presine che nonna ha fatto per me all’uncinetto di un rosa che non si può vedere, un rosa che amo, manca solo Bberta, l’aspirapolvere.
C’è uno squarcio di panorama dal sesto piano, ci sono il non cielo e una delle gru, quella che quando si muove sembra dover entrare dalla finestra, manchiamo solo noi, penzoloni, a farci i fatti del mondo laggiù.
Ci saranno tempi migliori.
Impareremo a funzionare, insieme, che ne dici, Pauline?
Finestra sprangata, al centro
luglio 31, 2010
Mood: stanca
Listening: il silenzio
Drinking: acqua
France, Nantes, marzo 2013
Poi c’è quel sentore di un pavimento scivoloso, incerto, di un pasto consumato in solitudine e di uno sguardo triste, perso nel vuoto, di un grammofono il cui canto rimbalza per stanze vuote sempre più flebile finché non si fa silenzio.
E non è per il bianconero, né per il cielo bruciato o il tetto scrostato, sapremmo rimediare con i colori e la fantasia.
E’ per quella finestra al centro. Quell’unica finestra sprangata. Quello spiraglio sui recessi ultimi del tuo cuore. Continui a negarmelo.
Ma io resto qui. Fuori. Aspetto. Speranzosa.
Ho il tempo di una vita.
Aspetto sempre tu apra quell’unica finestra sprangata, al centro.