Apofisi

marzo 1, 2014

Mood: spazientito
Reading: L’uomo autografo di Zadie Smith
Listening to: passi e gocce lungo i tubi di riscaldamento
Watching: The secret life of Walter Mitty di Ben Stiller
Eating: pizza
Drinking: acqua dal rubinetto



Tutto potrebbe ricominciare dalla mole abbondante di lavoro che ho lasciato in sospeso, lá dove si concentra la frustrazione della mia personale caccia metodica a una formula espressiva sempre più chiara e essenziale, ma estremamente capace di guardare in profondità e fare breccia in interi complessi di idee e emozioni. Adduco come scusa l’insoddisfazione stilistica,

fin quando almeno mi sarà accettabile.

Quanto segue è evidentemente un’ammissione, ovvero: prima di trattare di riduzione a una formula espressiva chiara e essenziale, c’è bisogno di chiarificare gli interi complessi di idee e emozioni da ridurre a una formula espressiva chiara e essenziale.
Di fatto, io negli ultimi tempi penso, penso, penso e mi emoziono per tutto, ma – o per effetto di un tale surplus – non so proprio dove adare a parare. Ecco perché lascio tutto in sospeso.
E non mi riferisco al lavoro soltanto.

Mood: conciliante
Reading: Jack Kerouac, On the road
Listening to: tic tac, tic tac, tic tac,
Watching: The Hobbit: The Desolation of Smaug di Peter Jackson
Eating: melone
Drinking: tisana della buonanotte



Nine Feathers – Heidi Harris (ft. Eta)









“È mia precisa missione dirlo a tutti.”



***

E comunque se la storia della collaborazione tra Heidi Harris – Astoria, New York, USA, America – e Eta – Utrecht, Olanda, Europa – è già di per sè particolare [si veda qui],
quella che sta dietro Nine Feathers lo è ancora di più. La storia è questa:

Holy motors

agosto 11, 2013

Mood: appesantito
Listening to: René Aubry – Salento
Watching: sole, nuvole, sole
Eating: frittelle
Drinking: caffè




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In un certo senso, con Holy Motors Leos Carax fa nel cinema dei nostri anni quello che Socrate ha fatto nella società occidentale con la cicuta. Va a morte riflettendo sulle stesse dinamiche della cinematografia e sui cambiamenti in atto nei processi di produzione. Così facendo, attesta la sua estrema passione per la bellezza e la potenza della messa in scena, principio primo del raccontare storie.

Frustrante per certi versi, ma tant’è.
Io credo si tratti principalmente di essere consapevoli, in qualità sia di potenziali autori, sia di fruitori a tempo pieno, tanto a cinema, quanto in tutti i campi della comunicazione.

A maggior ragione perché solo la consapevolezza produce capolavori. Vedi Holy Motors.


Per concludere, mi sembra doveroso approfondire la riflessione con un’analisi ricca di spunti scritta da Alessandro Baratti per Spietati.it.

Holland, 8 am

ottobre 19, 2012

Mood: ansiogenato
Reading: Ercole Visconti, Parole illuminanti
Listening to: fringuellii e cinguettii
Watching: il sole, finalmente dopo giorni e giorni di pioggia
Playing: a dis-ansiogenarmi
Eating: involtini di melanzane
Drinking: latte e cioccolato, che domande?!




Holland, Rijswijk, 19 ottobre 2012, 8 am


È evidente che, negli ultimi giorni, sto esercitando le facoltà del silenzio più che quelle della parola. Allo stesso tempo, ho l’impressione di comunicare tante e tante cose.

Ma con buone probabilità si tratta soltanto di una mia impressione [non sarebbe la prima volta].

Mood: da letargo
Reading: Zadie Smith, The Book of Other People
Listening to: Milano che diventa sola in estate
Watching: strisce di luce sul pavimento
Eating: riso freddo
Drinking: acqua a volontà



Mancava solo la spilletta de Il blog affidabile a intronfiare questo blog la potete vedere in fondo alla pagina – finché non cambio layout che anche questa è una cosa che mi sta ronzando nel cervello da qualche settimana, poi non so ancora dove si sposterà – ! Ad appuntargliela è stata eklektike che io ringrazio tanto mi ha fatto super piacere non me l’aspettavo insomma grazie di cuore.
Il premio Il blog affidabile è un’iniziativa del sito GliAffidabili “con un duplice obiettivo: da una parte offrire un riconoscimento ai blogger meritevoli per farli conoscere ad un pubblico più ampio, dall’altra aiutare gli utenti Internet a scoprire i blog più affidabili in rete sui diversi argomenti”. Per informazioni più dettagliate si rinvia alla pagina dedicata al premio.

Tra i cinque punti che il premio dice essere buona norma per un autentico blog affidabile, quello che più mi piace è

“Favorisce la condivisione e la partecipazione attiva dei lettori”

un punto che a me sta molto a cuore e sul quale ho riflettuto e discusso più di una volta con Eta che ce l’ha a cuore quanto me, quella donnina e io abbiamo proprio sangue promiscuo.
Il punto è che blog come i nostri più in generale modi di vivere come i nostri, ci vuole poco ad accusarli di egocentrismo egotismo autoreferenzialità autocelebrazione. Dopotutto se “io” è il vocabolo più in primo piano nei nostri discorsi, di cos’altro ci si potrebbe accusare?
– Suggerisco – per esempio, di nutrire – oltre a una certa innegabile dose di ego[…] e auto[…] – una consapevolezza molto forte del fatto che ogni essere umano è centro percettivo e (ri)creativo nei confronti del mondo reale, in opposizione a una più generale fede di sopravvivenza in verità ontologiche assolute nascoste in arche divine – dopo un secolo di relatività e relativismo è difficile a dirsi, eppure –. Sicché dichiarare l’io è un atteggiamento di onestà intellettuale, ti racconto quello che io percepisco come io vivo, tu cosa percepisci come vivi?, eppure.
Io, però riconoscermi come focolare primordiale del mio mondo non mi basta, ho l’impressione che niente sarebbe più terrificante di bruciare e diventare cenere per me stessa e in me stessa. Io, tutto quello che faccio e che esprimo giorno per giorno la mia vita intera è il tentativo gigantesco di arrivare, io agli altri gli altri a me, di comunicare nel senso più genuino che ci sia cioè una disposizione umana a mettere nel mezzo – non per altro sfrutto l’etere, altrimenti sulla carta andavo alla grande – ‘ché due più due dimostra come noi uomini ci assomigliamo tutti un po’ nei costrutti amniotici, quello in cui differiamo è l’attitudine a sentirci vivere e a raccontarlo cosicché qualcun’altro possa sentirsi vivere – e raccontarlo –, succede così ed è catartico.
Io, se un po’ ci riesco nei miei tentativi per riuscirci, la soddisfazione non la nascondo
e ringrazio ancora tanto eklektike.

Adesso voglio anch’io distribuire le cinque spillette che ho a disposizione avendo ricevuto la mia. Tutte le scelte che ho fatto rispettano i cinque punti elencati del premio GliAffidabili, ma soprattutto s’incuneano nella suddetta disposizione a parlare a tanti partendo dall’io, perciò una spilletta a Eta dorme sui pesci volanti – la prima perché io ho imparato a coltivare questo spazio d’etere leggendo e osservando il suo – una a Claudiappì, una a Uova di gatto, una a Andrea Devis, una a Castelli in Aria, con una piccola eccezione alla regola, ma con la certezza che tornerà presto a scrivere. Altre due che non ho, ma che faccio finta d’avere le do a Purtroppo e a Alcuni aneddoti dal mio futuro, ecco fatto.

Io non li avviso però, eh. Suggeriteglielo voi con le vostre visite.

Io quando ero un fagiolo

giugno 22, 2012

Mood: un po’ preoccupato
Reading: Mathias Malzieu, La meccanica del cuore
Listening to: tramestii giù in strada
Drinking: caffè
Eating:latte e cereali



‹‹Mamma… ma tu hai la mia ecografia quella in cui sembro un fagiolo?››

‹‹Non mi ricordo… bisogna vedere. Quella di Marilù si.. Perchè?››

‹‹Così.››

‹‹Nostalgie?››

‹‹Non credo. Non ricordo com’era essere un fagiolo.››

però ho il sospetto che fosse una cosa molto emozionante. Avevo il cordone ombelicale.


Fabulazioni

giugno 17, 2012

Mood: ridicolo-insofferente
Reading: Amélie Nothomb, Metafisica dei tubi [a rilento purtroppo]
Listening to: la voce del mare, io che adesso non posso averlo e tanto lo vorrei, il mio
Watching: Elephant di Gus Van Sant
Playing: a sciogliere il corpo ballando su Elle Me Dit
Drinking: birra
Eating: cornetto Algida



In principio ero metà meno qualcosa. Metà è quando si avverte in ogni secondo di una giornata la necessità d’altre metà per diventare rotondità. In principio ero metà meno qualcosa e da un certo momento in avanti ho iniziato a essere sempre qualcosa in meno di metà meno qualcosa fino a [fi-iiiiiiiiiiiiiiiiiu].

Allora io che ero preoccupata per me stessa e nutrivo la scomodissima sensazione di essere stata fregata ho cercato a lungo il modo di essere rotonda. Camminavo per l’universo intero col naso per aria nell’aria la annusavo la interrogavo finché non ho iniziato a ingerirla per ogni molecola che valesse la pena di essere ingerita – un quantitativo comunque molto elevato considerata una certa natura compulsiva che mi ha colta all’improvviso – e mi sembrava che quelle si stessero appiccicando alle pareti interne del mio corpo e stessero premendo verso l’esterno dandomi nuova sagoma, le molecole d’aria.
Un giorno poi mi sono guardata nello specchio e meraviglia! mi sono riscoperta rotondità, talmente piena e densa che se mi percuotevo la pelle assottigliata dalla tensione rimandavo un suono sordo come il brontolio di una rotondità regale. A incantarmi c’era la nuova consapevolezza d’essere rotondità io stessa, non metà io più metà altra che fanno una rotondità ma rotondità proprio io stessa con me per me stessa, lo vedi? ho ribattuto una volta a un’altra metà dispersa in un via vai di metà disperse Non possiedo niente più che me stessa e mi basto non mi sento sola affatto

e (non) mi piacerebbe sapere come mai potrei provare solitudine io se in me stessa – che sono ciò che possiedo e niente in più – ho tutte le molecole d’aria dell’universo intero che valga la pena di ingerire e metabolizzare come fossi un grande stomaco primordiale, eccoci qui, questo è l’orifizio, per aprirlo un palpito è già di troppo ‘ché io sono diventata rotonda, adesso lo so, quando ho cancellato la linea di confine tracciata spessa tra me stessa e l’universo intero, è stato come rinascere a vita nuova, per tutto ho provato curiosità per la prima volta e per la prima volta mi sono sentita incredibilmente vicina a tutto. Senza un ingombro simile, l’aria dell’universo intero si riversa contro l’orifizio del mio essere come fossi uno stomaco, non sempre è generosa a volte picchia duro ma perennemente seduce disarma. Io ho fame sempre abbastanza di una fame che è come un bambino recalcitrante collerico impaziente, inspiro espiro con forza e ogni flusso d’aria che mi percorre scatena lungo l’esofago un canto esultante che ripercorre fibre muscolose e vasi sanguigni anche i più insignificanti niente resta impermeabile perché ciascuno di quei flussi d’aria seduce con una bellezza perturbante, il fracasso delle ossa sotto le onde d’urto di una grancassa il riverbero lungo la schiena di un sussurro la metafisica del volo di un aquilone la banalità di una vulva bianca in mezzo a mille altre frantumate tutto mi incanta e mi esalta fino all’ebetudine come fosse un prodigio, io stessa sono un prodigio sono nel posto giusto e nel momento giusto, il mio corpo è il posto giusto e il momento giusto la sede di un piacere profondo capace di legittimare l’esistenza dell’universo intero il suo splendore, come sei bello universo intero!
Oh, quanto mi piace essere rotonda che è come essere innamorata, un rigoglio assoluto di soddisfazione e appagamento rinsanguato da un’armonia di ruggiti arroganti di ancora ancora e ancora che non accettano di restare inascoltati.

Ho vissuto tantissima vita in questi mesi, ne ho trovata ovunque abbia posato lo sguardo, non tutta bella non tutta brutta eppure sempre conturbante. A chi mi ha fatto domande, non ho saputo mai raccontare senza avere l’impressione che le mie parole fossero troppo poco, mai in grado di restituire neanche le briciole di tutto quello che stavo provando tanto era intenso e connaturato alla mia realtà fisica e mentale del momento e dopo giorni passati a domandarmi perché – io che col racconto ci vado a nozze io che ogni cosa diventa un racconto mentre ancora sono impegnata a viverla – ho capito di non possedere una soltanto delle parole adeguate a questo genere di storie.
Il vero dio creatore della mia crisi del fabulare però è stata la sensazione cattiva di perdere squarci e percezioni importanti ad ogni nuovo tentativo smangiucchiato muto cieco di fare della mia vita un racconto, ero ancora troppo nuova nella mia rotondità per accettare con serenità che qualcosa digradasse da me per diventare un po’ meno intima un po’ più condivisa, sarebbe stato come perder forze. Ho smesso di fare della mia vita una storia e non mi è sembrato di commettere un’azione brutta perché nel frattempo semplicemente ho vissuto, tantissima vita.
Un giorno poi mi sono guardata nello specchio e meraviglia! ero un po’ più forte sicura del mio modo di stare nell’universo intero, è successo dopo una caduta laterale dei sentimenti che mi ha sconvolto la rotondità e mi ha trascinata in una condizione di crescente disagio e disorientamento finché non ho riafferrato al volo la giusta corrente del momento per tornare a essere rotondità piena e densa ‘ché dopotutto l’unico rimedio alla vita è la vita stessa e io appartengo a quella specie che le lezioni si imparano dimenticano ricordano vita vivendo, mica una volta fino alla fine dei giorni.
Un altro giorno poi mi sono guardata nello specchio e meraviglia! ho vocalizzato parole nuove come “prodigio” e “piacere” e il loro corpo il loro suono mi sono sembrati come la pioggia che piove all’improvviso quando hai voglia di ballarci sotto.

Sicché

“In principio ero metà meno qualcosa ecceteraeccetera”


che è da considerarsi un primo [rinnovato] tentativo verso l’esterno.

Soltanto

Maggio 24, 2012

Mood: rintontito, ma soddisfatto
Reading: Amélie Nothomb, Metafisica dei tubi
Listening to: Devendra Banhart – Baby
Watching: disordini domestici
Playing: su un nuovo set di cui Lou scrive qualcosa qui
Drinking: acqua, tanta per alleviare il raffreddore
Eating: macine con nutella





Strano è che dopo giorni e giorni e giorni – e giorni? – a tentare di esprimere [qualcosa di più], alla fine, tutto ciò che mi torna in mente è questa fotografia ancora sempre e soltanto.

“Soltanto” non è qualcosa che è meno di qualcos’altro. “Soltanto” è qualcosa che è un tutto tondo.

Ragion per cui così tanto strano non è che dopo giorni e giorni e giorni – e giorni? – a tentare di esprimere [qualcosa di più], alla fine, tutto ciò che mi torna in mente è questa fotografia ancora sempre e soltanto.


La verità è che per il momento l’horror vacui l’assenza nel mondo di tracce di macchie di me medesima a caratteri vivi bianco su nero nero su bianco non mi turba affatto tutt’altro, ma di questo scriverò ai primi sintomi di necessità suppongo qualcuno si sia già manifestato se stasera sono qui

è perché

[…]


Nella fotografia che mi torna in mente ancora sempre e soltanto, Nicolò e il suo fantoccio alto due metri e più di nome Fantoccio.

Couches on the Road // II

aprile 25, 2012

Mood: eccitato, più tardi vi racconto
Reading: un libro di semiotica – per finta – per un esame che mi inventerò
Listening to: The Chain – Fleetwood Mac [in loop da giorni, si sappia ormai che Eta è la mia personal dj]
Watching: disordine pre-…, sempre più tardi vi racconto
Playing: a smaltire la lista delle cose da fare
Eating: macine con nutella
Drinking: caffè





Raquel appartiene a quel tipo di esseri umani che suscitano in me un interesse essenziale immediato dettato dal fatto che con qualsiasi strumento io li bilanci loro sembrano non aver subito appesantimento dagli anni che portano sulle spalle. Certo, Raquel porta sulle spalle vent’anni che non sono un macigno come potrebbero essere per esempio ottant’anni sulle spalle, ma già iniziano a essere qualcosa con un potenziale gravitazionale non indifferente. Lei tutt’altro, effonde dai suoi pori caffellatte il semplice calore gioioso di chi ha nel sangue il Sud del Mondo perché sebbene sia nata in Pennsylvania e lì abbia sempre vissuto, trae nutrimento dai suoli della Grecia e del Porto Rico che le ritornano ogni giorno nel cuore per cordone ombelicale senza che mai ci sia stata per un momento soltanto fin’ora, sarà per tutto questo che il Sud del Mondo esercita su di lei un fascino magnetico, la richiama, ‹‹I have to go››, lo dice con la nostalgia di chi ha lasciato dietro di sé un amore tanto amato e a me che sembra che si sia fatta spedire con un Erasmus a Madrid per ingannare le distanze.

La prima volta che l’ho vista, Raquel abbracciava la cabina del telefono pubblico in Stazione Centrale a Milano dalla quale descriveva ad Arianna quel che vedeva attorno a sé per riuscire a incrociarci nel flusso di gente continuo e massiccio con facce ignote ed era braccata stretta dal vecchietto grande la metà di lei che le aveva prestato la scheda telefonica ma senza rinunciare al risarcimento. Che fosse disorientata era evidente, che fosse fiduciosa era evidente, qualsiasi sentimento sul volto di Raquel è evidente in tutta la sua semplicità primigenia come se non fosse mai cresciuta come se non le avessero mai insegnato che a essere così esposti nel mondo senza neanche un foglio di carta velo sopra l’ultimo strato di pelle all’occorrenza si corrono rischi e rischi grossi, così ho pensato la prima volta che l’ho vista, ma c’è voluto un attimo per capire che Raquel ha ben presenti nella testa i rischi e i rischi grossi, ma ne fa la misura con i benefici anche quando non le viene facile come mangiare un mirtillo e le procura ansia e io di questo ho sorriso venti minuti dopo la prima volta che l’ho vista correndo abbracciate tutte insieme sotto un pioggione all’improvviso, un’ora dopo la prima volta che l’ho vista trovandola rannicchiata sul divano di casa nostra, che fosse a suo agio era evidente che lo fossimo anche noi era evidente, sicché sembrava che ci fosse sempre stata che non l’avessi vista la prima volta che l’ho vista che era un’ora prima soltanto, ho sorriso.
Raquel guarda il mondo con gli occhi come se ogni giorno si aprissero al mattino dopo il buio dell’utero, si meraviglia per ogni più piccola cosa dà nomi a ciò che non conosce o forse davvero quest’Europa è tanto diversa da questi Stati Uniti non so, ‘ché persino all’Esselunga con Raquel sembrava di essere in un parco divertimenti, spalancava lo sguardo davanti ai peperoni che in Italia sono gli ortaggi quelli indigesti e che negli Stati Uniti basta aggiungere una “p” per avere i pepperoni che però sono delle salsicce tipo wurstel, spalancava lo sguardo di fronte a tutti i reparti ma di più di fronte a quelli dei derivati e del latte e della pasta e del pane e io la osservavo incredula spalancare lo sguardo e mi chiedevo cosa potesse avere di speciale l’Esselunga cosa rispetto a un supermercato degli Stati Uniti che io mi immagino immenso e pieno di fesserie come quelli in Olanda che la prima volta che ci sono entrata ormai quasi dieci anni fa venivo ancora da un paesino del Sud Italia e neanche avevo mai immaginato potessero esistere supermarket così grossi e attrezzati li trovavo mostruosi eppure non potevo che provare meraviglia esprimendo in pieno tutta la perversione di una mente umana, e mentre così osservavo Raquel spalancare lo sguardo mi si è aperto nella testa un nuovo pensiero che però penso già da un po’ di tempo, è così enorme il fatto che oggi le singole identità degli uomini occidentali coincidano con i prodotti sugli scaffali nei negozi da essere diventato invisibile.

Raquel è stata nostra ospite per un giorno e una notte dopo i quali sarebbe rimasta a Milano ma altrove. È andata a finire che siamo state insieme anche dopo quel giorno e quella notte e la vita è stata come in un giorno qualsiasi niente di quelle cose troppo speciali che si fanno per riempire il tempo con un estraneo, ammesso che già non sia oltremodo speciale star tanto bene con una persona che la prima volta che l’ho vista era il giorno prima mentre a parlarci – malgrado l’inglese tutt’altro che da super pro – sembrava di avere di fronte un’amica d’infanzia. Ovunque fossimo, ovunque andassimo, Raquel aveva sempre sulle spalle il suo zainone da viaggio, ‹‹Per piacere, ditemi quando la mia presenza diventa di troppo perché io sto bene con voi, ma voi magari avete altro da fare.›› mi ha detto, ‹‹Stai scherzando? Io sono felice se ci sei. Chissà quando potremo rivederci, dopo questi giorni!›› le ho detto e infine ‹‹Come back home when you want, Raquel.››



Couches on the Road // I

aprile 3, 2012

Mood: malinconico andante
Reading: Nick Hornby, Non buttiamoci giù
Listening to: Antonella Ruggiero – Inafferrabile (“Sono nata col cuore di scimmia / e non so se lo sai / vivo sopra gli alberi”)
Watching: la pila di libri ai piedi del letto che reclama di essere sfogliata, garantisce ispirazione che non trovo
Playing: per superare una crisi artistica molto drammatica che ha il tempismo perfetto di chi si presenta quando è più inopportuna, tipo quando dovrei progettare la mia tesi, ma questo è un capitolo a parte della mia storia contemporanea
Eating: spaghetti al sugo
Drinking: caffè




I. è un ragazzo di ventitrè anni con la testa spaccata tra il Medio Oriente e l’Occidente, rientra non del tutto nell’uno e non del tutto nell’altro. È nato in Turchia, ha studiato nelle scuole musulmane del suo paese poi genetica nell’università di Istanbul poi ancora medicina all’università di Barcellona dove è arrivato due mesi fa, crede che il progresso scientifico e tecnologico renda l’uomo molto più potente della natura, crede anche che Allah abbia creato il primo uomo e la natura. Beve alcool in compagnia fuma frequenta le feste scatenate guarda senza peccato le mie braccia scoperte di donna, pensa a suo padre solo con la sua famiglia e il suo negozio e non capisce come possa essere felice privandosene per una vita intera perché così la sua cultura gli impone, non vuole tornare a vivere in Turchia, eppure più viaggia attorno al mondo più incontra gli occidentali dallo sguardo triste e pensa a suo padre che è felice senza alcool fumo feste scatenate braccia scoperte di donne solo con la sua famiglia e il suo negozio e non capisce come cosa fare, sicuramente un giorno si sposerà pensa che gli uomini non possano star bene se soli anche se con un buon lavoro e una bella casa, ama una donna americana è difficile che la sua famiglia la accetti gli permetta di sposarla appartiene a una cultura troppo diversa sorgerebbero zizzannie non è bene, ma lui proprio non vuole tornare a vivere in Turchia e questo rende tutto un po’ più semplice, anche il servizio militare che nel suo Paese è obbligatorio per i maschi sani soprattutto è un onore un disonore per chi non può assolverlo, suo zio ha perso cinquanta chili pur di essere ammesso al servizio di leva, a lui poco importa vuole continuare a studiare ottenere la cittadinanza altrove cosicché il suo dovere militare da tre anni si riduca a un mese, gli ho detto che i guai iniziano quando ci si accorge che nella vita ci sono molte più possibilità di una e ho sorriso, ma lui era troppo turbato, naturale, ormai è nei guai.

‹‹I’m not acceptable for Turkish people, do you know?››, mi ha detto I. Mi sono accartocciata sullo stomaco.

I. è stato il primo – di altri – viaggiatore sconosciuto verso il quale ho spalancato le braccia con un sentimento di fiducia prima ancora che di paura perché so che è facile nutrirne quando si sguazza nell’ignoranza di chi si ha di fronte e della sua cultura. Nel corso dei due giorni e mezzo insieme, I. mi ha raccontato mille e una storia sulla politica sulla religione sulla vita di tutti i giorni sulla condizione della donna sulla condizione dell’uomo sulla sessualità sul matrimonio sul lavoro nella terra in cui è nato io gli ho raccontato (sicuramente meno di) mille e una storia sulla politica sulla religione sulla vita di tutti i giorni sulla condizione della donna sulla condizione dell’uomo sulla sessualità sul matrimonio sul lavoro nella terra in cui sono nata. Prima di conoscere I. sapevo che gli esseri umani di tutto il mondo assumono forma e spessore succhiando linfa dall’habitat culturale dentro il quale fanno presa, ma lo sapevo come un enunciato che sta nell’aria un enunciato che bisogna sapere un po’ da buon intellettuale. Ritrovarmelo sotto il naso, tra le mani così fisico denso concreto mi ha emozionata sconvolta esaltata scossa tutta quanta io che non so provare un solo sentimento per volta e poi finisce che mi sento ubriaca come innamorota, iniziano così tutte le mie storie d’amore con l’umanità nomade.
Del resto, il giorno in cui ho iniziato ad aprire la porta di casa ai viaggiatori sconosciuti ai vagabondi della strada per offrire loro un divano un letto un pavimento un piatto di pasta una chiacchierata, tutto quello che volevo era il rovesciarsi del mondo nella mia vita di tutti i giorni. Fare del mio nido il mondo del mondo il mio nido e del mio un nido per il mondo. Questa è un’esigenza per chi come me fa del viaggio una questione ontologica.


Piccolo inciso a proposito dell’idea di fotografare i divani nel quale hanno dormito i viaggiatori sconosciuti che Yanna e io ospitiamo a PaRecchia al Tre. Non è niente di nuovo. Nel 1979, Sophie Calle ha realizzato Les Dormeurs [altre fotografie non troppe si trovano in Google immagini], invitando a dormire per otto ore consecutive nel suo letto ventinove persone conosciute e sconosciute nel corso di una settimana e scattando loro una foto ogni ora nel sonno.
Il mio è un approccio molto maldestro perché, ho scoperto, crea imbarazzo fotografare il letto in cui qualcuno ha dormito è come frugare nella sua intimità assomiglia a un furto. C’è da dire che non intendo smettere di farlo. Ciò che voglio è proprio questo racconto di vita intima attraverso gli oggetti e le mappe del corpo e dei suoi movimenti nelle lenzuola. Non chiedo scusa, al prossimo però chiedo il permesso.

Anossia

marzo 30, 2012

Mood: almost easy-going
Reading: Nick Hornby, Non buttiamoci giù
Listening to: le storie sospese tra la Istanbul e Barcellona del primo couch surfer di PaRecchia al Tre
Playing: a sfoggiare con poca grazia il mio inglese maccheronico
Watching: spazi vuoti
Eating: pizza
Drinking: tanta acqua



‹‹Cos’avete da raccontare?››

Io in tutta risposta, si poterono sentire i moscerini fare l’amore chilometri più in là.


È come l’anossia.
È l’anossia.
Ho bisogno di aria, io me ne nutro di conseguenza le storie che io racconto. Il problema è che sono a digiuno da un po’.

Mood: (…)
Listening to: Jeff Buckley – Forget Her
Reading: Aldo Nove, Amore mio infinito
Watching: tratti a matita, una donna incinta sul battiscopa accanto al letto
Playing: a registrare un dialogo tra me e me medesima
Eating: frittata di riso, piselli e patate
Drinking: caffè a ogni ora e a volontà



“Allora ciao io devo andare le ho detto lasciandole la mano pianissimo in modo che lasciandola mi sentivo come un viaggiatore scoprivo ogni pezzetto delle sue dita come un esploratore in quanto navigavo emozionato tra le dita mi ritrovavo a sentire una mano così bella da toccare e ci guardavamo in un modo che dovevo andare via ma stavo lì a volerla baciare sulla mano.
[…]
E prima della fine dell’estate prima che mi venisse questo impossibile coraggio di baciarla prima di andare di sopra a fare le valigie prima di partire prima di leggere ‹‹Topolino›› prima di diventare grande prima di diventare comunista o democristiano prima di finire la scuola prima di andare a letto prima che qualcosa strapiena di sì scoppiasse pianissimo le ho detto, amore mio infinito.”

[Aldo Nove, Amore mio infinito]



(Prima anche di ritrovare le mie parole tra i succhi gastrici.)

Esisto // Notturno

dicembre 30, 2011

Mood: amorfo
Listening to: The xx – Basic Space
Playing: a fare i palloncini con metà bigbabol
Watching: a breve, una probabile nuova casa olandese
Eating: panino con philadelphia
Drinking: acqua





Rijswijk


Esisto.

Capirai se non ho più intenzione di darne spiegazioni.


Un giorno sostituirò la carne col vetro per poter guardare attraverso, nello spazio vivente tra le ossa. E non appenderò le tende.

Legge costituzionale

dicembre 29, 2011

Mood: compagnone
Reading: Chatwin, Che ci faccio qui?
Listening to: Tom Waits – Time
Playing: a correre nel vento per le strade di Delft
Watching: fulmini in lontananza
Eating: cheesecake da Uit de Kunst
Drinking: cappuccino



Che in me i momenti del piacere siano annodati all’esplosione in gola delle sacche del dolore in quarantena è una legge non scritta.
Perciò adesso non mi sorprende la sensazione tutta fisica dell’anima che si lacera in più pezzi senza preavviso in momenti impensati della giornata, facendo i salti mortali tra le cime del piacere, per l’appagamento e per tutte le prospettive che sta fruttando il mio lavoro, e le slavine del dolore, per quello che è caduto a pezzi e per quello che forse verrà, ma intanto si ostina a mancare.
Nella mia realtà del momento, i cambiamenti si incuneano con una rapidità da capogiro, qualcuno lo graffio dalla pietra dei giorni, qualcuno mi capitombola in braccio e lo puntello. Entusiasmo, fierezza, timori e incertezza si fondono insieme e fin qui niente di strano, ogni sentimento rende possibile il dannato vivere.
Ma spesso, alla fine di un giorno qualunque, dopo aver tanto corso e tanto sudato energia, mi sento persa. Nel mezzo è capitato più volte di aver lasciato cadere un sassolino lungo l’aorta, sperando negli angoli più buoni per poter rimettere ogni cosa e cercare conforto, leggerezza o semplice e ineducata condivisione. Altrettante volte è capitato di sentire ritornare solo le eco stridenti dei luoghi del cuore che un tempo furono giardini e ormai sono deserti sconfinati.
Con i tempi che corrono sarebbe meglio tenersi vicini, scaldarsi col fiato. Allora com’è che i doppi legami in cui mi cullavo giacciono sfilacciati nella terra e già ingrassano i primi giacinti? Ricordo sorpresa di aver creduto in ognuno di quegli amabili avanzi così tanto da sentirmi troppo piccola per non correre il rischio di esplodere. Sono consapevole che qualsiasi cosa finisce, ma come può qualsiasi cosa finire? È come prendere nello stomaco un pugno e vedere dischiudersi un gorgo. Rimpicciolisco. Mi risucchio al centro. Ed esco dalla felicità. Se c’è una cosa che mi fa male è non capire dove, quando e perché le direzioni sono diventate opposte. E valicando i patetismi di un necrologio qualunquista, scivolo in una delicata rassegnazione. Mai, prima d’ora, mi era capitato di sentirmi così.

Ecco, bisognerebbe che io sondi e argini una volta per tutte il meccanismo per il quale un’ondata di gloria non possa restar tale per più di un secondo prima di sprofondare in una qualche falda putrida. Bisognerebbe perché inizio a esserne stufa. L’udienza è aperta.
Per mirare il nocciolo della faccenda, non mi nascondo che tanto sono tronfia di gratificazioni lavorative, tanto sono sul lastrico dei sentimenti. Ma se c’è qualcosa di puramente umano, questo è l’incapacità di sorridere davvero alla vita quando i ritagli più intimi ed emozionali dell’esistenza sono scoperti al freddo. D’altra parte, con me il gioco è particolarmente facile. Qualunque idiota potrebbe intuire che il mio punto di massima vulnerabilità e contraddizione è negli affetti. In tutta onestà, ho un talento particolare per le circostanze squilibrate. Forse un istinto naturale.
Certo, adesso potrei lasciarmi andare ai venti nuovi che soffiano da ovunque, stringere legami più freschi, mappare nuovi riferimenti. Non mi diverte stare inchiodata mani e piedi a far arieggiare il cuore dalle scie degli amori persi. Vorrei anch’io sapermi concedere l’occasione per bruciarne di nuovi. Ma è come se, al momento, la mia anima fosse priva della capacità di avvicinarsi veramente a qualcuno e di incastrarsi.
Perciò, quantunque mi sfogli la pelle con scrupolo, il volto più viscerale della mia vita resta, fuori da un taglio qualsiasi di luce, con le orbite senz’occhi. E date le circostanze, quel sentimento di nuda verginità in un presente che non mi è amico, rattoppo i pozzi profondi che, fissandomi, m’affliggono con tutto ciò che di più vicino all’umano raggranello in fretta sui lidi della mia anima, sassi e conchiglie per lo più, postumo, spurgo, rimasuglio, sedimento di vecchi fiati e battiti cardiaci. Presenze che testimoniano assenze, assenze che riempiono vuoti. A ognuno il suo personale portagioie.

Ordunque si manifesta il valore costituzionale della legge non scritta per la quale in me i momenti del piacere sono annodati all’esplosione in gola delle sacche del dolore in quarantena.
Eppure sarei ingenua a pensare che non c’è modo di andare al di là. Dopotutto, in questo mondo non esiste legge, finanche la più costituzionale, non aggirabile con un affabile cavillo da azzeccagarbugli. Forse questa storia ha che fare con la meschinità più di quanto non voglia riconoscere. Più di quanto non voglia riconoscere, ho detto. Ebbene. Mi calo nell’etilene, poi di faccia in un cesso e mi assento dalla dignità. Faccio passare la notte. Epuro lo stomaco dei succhi gastrici. All’alba ho passato troppo tempo spezzata in due per voler continuare come fin’ora. Perché credere di poter riempire le mancanze con le assenze, perché se una vita può esser piena di presenze? A volte devo fare qualcosa di molto brutto quantomeno per farmi forte di una serenità nuova e accomodarmi quelle stesse possibilità che ho troppo ostacolato. Non so granché, soltanto che andare da questo luogo a un altro, quale chissà, mi bacerà, nutrirà, terrà viva.
L’udienza è sospesa.



[in merito a questa storia, si ringraziano – con tutto il cuoricinoinoino
Lou e Yanna per la luminosa sempreveravicinanza]

Mood: (in)quieto
Reading: la nuova normativa sulla mobilità olandese per capire come spostarmi
Listening to: Birdy – Shelter
Watching: la condensa alle finestre
Eating: a breve, sento puzza di rape, si salvi chi può
Drinking: te asprigno



(Andare. Per miglia. Talvolta più vicino. Talaltra più lontano.)

Di certo non si sarebbe potuto dire che per amore avesse mai risparmiato le scarpe.



***

Com’è sospettabile, un esercizio di stile liberamente ispirato a fatti di cronaca personale. Poi neanche troppo liberamente. Direi pedissequamente, questa volta.
Tanto per apporre un inciso, stamattina non avevo voglia di perdonarmi il desiderio di aver cura di me e di essere nauseata, se non proprio arrabbiata, senza per questo crocifiggermi con sensi di colpa illegittimi.

Per quanto riguarda l’esercizio, tentavo da mesi di scrivere un racconto brevissimo.
Sono stata educata abbastanza in fretta alle virtù della sintesi. Ogni volta prima di iniziare a scrivere, la mia prof.ssa di letteratura al liceo, ci ammoniva di essere “chiari, concisi e compendiosi”, ché non serve imbastire archi verbali e ghirigori estetici per raccontare qualcosa. Tutto quello che scriviamo, a una seconda lettura si può ridurre sempre quantomeno alla metà, senza per questo perdere il senso. A patto che le parole e i costrutti sintattici da utilizzare siano ponderati e non lasciati al caso.
Del resto, questa faccenda del valore di ogni singolo termine mi sta molto a cuore, è risaputo. Tanto più oggi, quando, a causa delle dosi massicce di materiale alfabetico che mettiamo in circolazione – per gran parte con mediocre qualità da scribacchini –, le parole sono le prime a sprecarsi, perdendo spessore e profondità.
Ebbene, (provare a) scrivere un racconto concentrato in una frase è un ammonimento continuo a dosare il peso di ogni singola parola, in modo tale che la suggestione di una vita possa respirare dentro poche lettere.
Io resto della convinzione che scrivere bene è un esercizio, non un’istintività felina.

Ed Io Che Mi Pensavo

giugno 16, 2011

Mood: distratto e cantastorie
Listening to: vecchie canzoni, mentre riordino l’mp3
Watching: le millemila punture di zanzare che mi riempiono e deformano il corpo, senza curva escludere
Eating: visioni
Drinking: caffè, ovviamente!






Ed io che mi pensavo che saremmo andati lontani, baby, tu ed io, io e tu, una mano nella mano, l’altra al remo, culo e bermuda, due cuori e una bagnarola, baby, baby, oh babybabybaby!
Ma abbiamo gettato l’ancora al largo, baby, e io guardo te in cagnesco che guardi me in cagnesco ed insieme ci guardiamo in cagnesco e restiamo qui zitti e fermi a guardarci in cagnesco, chè ad andare via un po’ ci fa paura, un po’ ci fa male, non lo capisci, baby, baby, oh babybabybaby, mentre tu guardi me che guardo te in cagnesco ed insieme ci guardiamo in cagnesco?
Facciamoci un piacere allora, baby, e lasciamoci andare, baby, lontano, lontano verso nuove vite da decantare alla luna, grasse di tutto il calore e la complicità che dici di non avere ancora, davvero non siamo che retorica ormai stanca, baby, non credi, baby, baby, oh babybabybaby?


Ad amarti, baby, si perde in partenza.

Mood: quieto
Listening to: Virgin Radio
Watching: Virgin Radio nel riflesso del monitor
Eating: trofiette al sugo, con zucchine chiaramente
Drinking: caffè






Sto aspettando che mi inviti sul lato oscuro della luna.
Lì, non posso atterrare se non me lo permetti.
Certo, farà paura e sarà duro, incontrarsi sul lato oscuro della luna.
Ma non è forse più temibile un’eclissi?


C’è posto per te, dentro, per te e per tutto quello che hai negli occhi, per la luce e per il buio.
Mi sono legata visceralmente alla tua umanità, non ad una tua astrazione perfettibile.
Ma se i pensieri viaggiano lontano e si nascondono palpabilmente in un nero diffuso mentre divaghiamo, se non riusciamo più a parlare nello spazio che abbiamo fatto nostro, chi sei tu, chi sono io, chi siamo noi, cosa resta di noi?

Nello spazio di un’aritmia

novembre 26, 2010

Mood: stacanovista
Listening to: Mp3, riproduzione dei brani casuale, quali e quante (ri)scoperte!
Watching: foto di backstage del set del corto di Laura a cui accennavo qui
Playing: con Photoshop Lightroom







Poi ci sono quelle persone che ti fluiscono dentro nello spazio di un’aritmia, senza che tu possa avvertire ingombro alcuno nella nudità magmatica ed intima di un momento, ma solo il ristoro di un abbraccio dopo una corsa ed il calore umido di un respiro a fior di pelle.


E – volvere. Svolgere – fuori da. Rivoltare (me – fuori da me), ora significa anche accettare che può esserci ancora qualcuno capace di farmi vacillare ed intanto aprirsi un varco tra i miei eidōla.



Mi ha chiesto: ‹‹A cosa pensi?››. Chiacchieravamo da un po’.
Gli ho risposto: ‹‹Tutto e niente››. Di solito funziona, nessuno fa più domande.
Mi ha detto: ‹‹Inizia a raccontarmi del “tutto”. Del “niente” si fa presto a parlare››.

Memorandum III

ottobre 28, 2010

Mood: soddisfatto
Reading: Georges Perec, Specie di spazi
Listening to: cuore-cervello-cuore-cervello
Drinking: acqua
Eating: yogurt Muller con biscottini




“Quel che ci parla, mi pare, è sempre l’avvenimento, l’insolito, lo straordinario […] Dietro a un avvenimento ci deve essere uno scandalo, un’incrinatura, un pericolo, come se la vita dovesse rivelarsi soltanto attraverso lo spettacolare, come se l’esemplare, il significativo fosse sempre anormale: cataclismi naturali o sconvolgimenti storici, conflitti sociali, scandali politici… […]Quello che succede veramente, quello che viviamo, il resto, tutto il resto, dov’è? Quello che succede ogni giorno e che si ripete ogni giorno, il banale, il quotidiano, il comune, l’ordinario, l’infra-ordinario, il rumore di fondo, l’abituale, in che modo renderne conto, in che modo interrogarlo, in che modo descriverlo?
Interrogare l’abituale. Ma per l’appunto ci siamo abituati. Non lo interroghiamo, non ci interroga, non ci sembra costituire un problema, lo viviamo senza pensarci, come se non contenesse né domande né risposte, come se non trasportasse nessuna informazione. Non è neanche più un condizionamento, è l’anestesia. Dormiamo la nostra vita di un sonno senza sogni. Ma dov’è la nostra vita? Dov’è il nostro corpo? Dov’è il nostro spazio? Come parlare di queste “cose comuni”, o meglio, come braccarle, come stanarle, come liberarle dalle scorie nelle quali restano invischiate; come dar loro un senso, una lingua: che possano finalmente parlare di quello che è, di quel che siamo.
 [Dobbiamo] Interrogare ciò che sembra aver smesso per sempre di stupirci.”

[Georges Perec, L’Infraordinario]

Sum, es, fui, esse

ottobre 16, 2010

Mood: ricercatore sereno
Reading: Mariusz Szczygiel, La donna che spiava se stessa
Listening to: Natasha Bedingfield – Unwritten
Watching: me stessa
Eating: pastina coccolosa al formaggino
Drinking: camomilla






Stilo elenchi meticolosi, mi abbandono a flussi di coscienza infiniti.
Li aggiorno, li trasformo.
Trascrivo tutto, documento ogni segno del mio passaggio.
Sembra futile, non lo è, suggerisce, evoca, cose essenziali, straordinarie.


Chi sono, dove sono, cosa faccio, cosa voglio.
Quello che mi è intorno e quello che mi è dentro.


Così mi esploro, mi ri-approprio di me stessa, mi ri-scopro.
Spazio nello spazio dentro, ne traccio uno nuovo facendomi spazio tra le intercapedini del vecchio.
Spazio nello spazio fuori, lo influenzo, muovendomi, mi influenza, lo solco, fisicamente, mi solca.
Fuori-dentro-fuoridentro-fuoridentrofuoridentro, come un respiro, prende da fuori e porta dentro o prende da dentro e porta fuori?, entrambi direi, è la prova che la vita esiste, sempre, comunque, con alti e bassi.



Ho una mia consistenza, essenza, esistenza.
Con un valore legittimo non negli altri, ma per genesi in se stessa
. Sono cuore pulsante della mia vita, cervello e polmone.
Oggi stano questa consapevolezza, da troppo tempo accucciata nell’oblio.
Sto bene oggi, cammino a testa alta. Sorrido anche.