Pane e formaggio, latte e pane

settembre 16, 2013

Mood: reattivo
Reading: le ultime venti pagine di tutti i libri lasciati in sospeso
Listening to: Rhye – One of Those Summer Days
Watching: Monsieur Lazhar di Philippe Falardeau
Eating: come se non avessi pensieri più importanti
Drinking: caffè



Ritrovandomi in anticipo alla stazione di Delft – una mattina presto di ritorno da una notte fuori casa – a dover aspettare a lungo la coincidenza per Delfgauw dove lavoro, mi risolsi di cercare una colazione e un posto caldo. Il poco sonno mi rallentava e a maggior ragione mi fiaccava tutta l’acqua che durante la notte mi era piovuta sotto le ossa e che ancora continuava a asciugarmisi addosso, avevo per di più sulle spalle uno zaino enorme e i vestiti qualche taglia in più stropicciati, l’odore forte sulla pelle di luoghi e persone diversi dai soliti, tutti mescolati. Avevo parecchia fame. C’era il vento e io barcollavo con gli occhi stretti.
Al barista del Gran Cafè Verderop, un uomo di colore dallo sguardo sveglio e amichevole, devo essere sembrata una reduce, una di quelli che in questo periodo dell’anno camminano in lungo e in largo per l’Europa inseguendo una somma di situazioni per lo più casuali. Stavo in piedi al bancone così accartocciata da far fatica a arrivare al piano, davo l’impressione di essere ancor più piccola in una sala tanto ariosa e minimale.
Gli ho chiesto un cappuccino e qualcosa da mangiare, mi ha detto la cucina apre a mezzogiorno, gli ho detto un cappuccino va bene e me l’ha servito. Mi ha chiesto hai fame?, gli ho detto un po’, come a colazione, mi ha detto ho pane e formaggio se ti piace e me l’ha allungato prendendolo da una busta mezza vuota attorcigliata attorno a altri tre sandwich di pane nero con un quadro di formaggio bianco bianco al centro, il suo pranzo. Gli ho detto grazie, sei molto gentile, non è necessario, mi ha detto c’mon hai fame, devi mangiare, l’ho preso, gli ho detto grazie davvero, mi ha detto è formaggio olandese, ti piace?, gli ho detto sì, molto, mi ha detto non devi pagare, condivido con piacere.

Mezz’ora prima ero sul treno che da Rotterdam va a Den Haag. All’altezza di Schiedam, un ragazzo avrà avuto la mia età con una felpa scura e un pantalone sporco sui bordi sopra le scarpe da ginnastica percorreva la corsia del vagone facendo mostra di un rettangolo di cartone col quale chiedeva latte e pane in pennarello celeste.
Era arrivato in fretta a me e si era fermato con un sorriso di fiducia, io stavo in fondo. Nessuno lo aveva guardato. Il disappunto soltanto lo aveva talvolta seguito allo spalle sollevandosi dalle ginocchia dov’era rintanato. Io invece lo guardavo e lui mi guardava. Mi aveva chiesto – questo avevo capito, parlava in olandese – tu latte pane e me? Io gli avevo detto scusami e avevo distolto lo sguardo e lo stomaco ce l’avevo tutto un nodo, non c’era una moneta soltanto nel mio zaino enorme sul quale accampare bisogni e desideri.
Qualche secondo dopo, il treno si era fermato nella stazione di Schiedam e lui era sceso, forse aveva cambiato vagone. Io avevo pensavo potrei scendere dietro di lui a comprare latte e pane e potrei offrirglieli in cambio della sua storia, per esempio, potrei ripartire col prossimo treno, rischierei di fare tardi a lavoro e intanto il treno aveva ripreso velocità. Mi ero ritrovata in anticipo alla stazione di Delft a dover aspettare a lungo la coincidenza per Delfgauw dove lavoro. Nello zaino enorme avevo ritrovato dei biscotti alla cannella. E pure cinque euro, ma voglio dire

qui non si tratta del latte e pane che avrei potuto non negare e del pane e formaggio che, invece, avevo tra le mani, sarebbe un inganno. Piuttosto della prontezza a distogliere l’attenzione da qualsiasi esistenza minacci di disturbare lo stato dei fatti istituito e riconosciuto dal nostro tempo e del bisogno di gerarchia e degli sfoggi di potere, sono modus operandi, i miei – ancora in parte ahimè – e quelli della società civile in cui sono nata e cresciuta.
Mi sono vergognata tantissimo.
La vergogna di se stessi stimola a tentare nuovi esiti.

Mood: inquieto
Reading: Ercole Visconti, Parole illuminanti
Listening to (but also watching): Smammas
Watching: True Romance – Citizen!
Eating: pane e nutella
Drinking: latte (oggi sono in ritardo)



Oggi, nove ottobre duemiladodici, sembrerebbe che tu non sia mai passato nella mia vita.

Non fosse che hai dimenticato nel cassetto del comò accanto al letto un paio di calzini sformati coi talloni consunti,
che io sto usando per abbracciare il piede malato, quello sul quale ieri sono rovinata, il sinistro,

fatto assai brigante, sfacciato, infame,
mi ragguaglia su quanto [mi] manchi [e sarebbe meglio di no] oggi che proprio sembrerebbe tu non sia mai passato nella mia vita [la stessa che, a volte, costringo in esilio da te per istinto di autoconservazione],

su quel che tu (eri), io (ero) e tu e io (eravamo), ]
mentre quel che siamo è un paio di calzini sformati coi talloni consunti dimenticati [ .

Firma il mio amore problematico problematizzato

Mood: da letargo
Reading: Zadie Smith, The Book of Other People
Listening to: Milano che diventa sola in estate
Watching: strisce di luce sul pavimento
Eating: riso freddo
Drinking: acqua a volontà



Mancava solo la spilletta de Il blog affidabile a intronfiare questo blog la potete vedere in fondo alla pagina – finché non cambio layout che anche questa è una cosa che mi sta ronzando nel cervello da qualche settimana, poi non so ancora dove si sposterà – ! Ad appuntargliela è stata eklektike che io ringrazio tanto mi ha fatto super piacere non me l’aspettavo insomma grazie di cuore.
Il premio Il blog affidabile è un’iniziativa del sito GliAffidabili “con un duplice obiettivo: da una parte offrire un riconoscimento ai blogger meritevoli per farli conoscere ad un pubblico più ampio, dall’altra aiutare gli utenti Internet a scoprire i blog più affidabili in rete sui diversi argomenti”. Per informazioni più dettagliate si rinvia alla pagina dedicata al premio.

Tra i cinque punti che il premio dice essere buona norma per un autentico blog affidabile, quello che più mi piace è

“Favorisce la condivisione e la partecipazione attiva dei lettori”

un punto che a me sta molto a cuore e sul quale ho riflettuto e discusso più di una volta con Eta che ce l’ha a cuore quanto me, quella donnina e io abbiamo proprio sangue promiscuo.
Il punto è che blog come i nostri più in generale modi di vivere come i nostri, ci vuole poco ad accusarli di egocentrismo egotismo autoreferenzialità autocelebrazione. Dopotutto se “io” è il vocabolo più in primo piano nei nostri discorsi, di cos’altro ci si potrebbe accusare?
– Suggerisco – per esempio, di nutrire – oltre a una certa innegabile dose di ego[…] e auto[…] – una consapevolezza molto forte del fatto che ogni essere umano è centro percettivo e (ri)creativo nei confronti del mondo reale, in opposizione a una più generale fede di sopravvivenza in verità ontologiche assolute nascoste in arche divine – dopo un secolo di relatività e relativismo è difficile a dirsi, eppure –. Sicché dichiarare l’io è un atteggiamento di onestà intellettuale, ti racconto quello che io percepisco come io vivo, tu cosa percepisci come vivi?, eppure.
Io, però riconoscermi come focolare primordiale del mio mondo non mi basta, ho l’impressione che niente sarebbe più terrificante di bruciare e diventare cenere per me stessa e in me stessa. Io, tutto quello che faccio e che esprimo giorno per giorno la mia vita intera è il tentativo gigantesco di arrivare, io agli altri gli altri a me, di comunicare nel senso più genuino che ci sia cioè una disposizione umana a mettere nel mezzo – non per altro sfrutto l’etere, altrimenti sulla carta andavo alla grande – ‘ché due più due dimostra come noi uomini ci assomigliamo tutti un po’ nei costrutti amniotici, quello in cui differiamo è l’attitudine a sentirci vivere e a raccontarlo cosicché qualcun’altro possa sentirsi vivere – e raccontarlo –, succede così ed è catartico.
Io, se un po’ ci riesco nei miei tentativi per riuscirci, la soddisfazione non la nascondo
e ringrazio ancora tanto eklektike.

Adesso voglio anch’io distribuire le cinque spillette che ho a disposizione avendo ricevuto la mia. Tutte le scelte che ho fatto rispettano i cinque punti elencati del premio GliAffidabili, ma soprattutto s’incuneano nella suddetta disposizione a parlare a tanti partendo dall’io, perciò una spilletta a Eta dorme sui pesci volanti – la prima perché io ho imparato a coltivare questo spazio d’etere leggendo e osservando il suo – una a Claudiappì, una a Uova di gatto, una a Andrea Devis, una a Castelli in Aria, con una piccola eccezione alla regola, ma con la certezza che tornerà presto a scrivere. Altre due che non ho, ma che faccio finta d’avere le do a Purtroppo e a Alcuni aneddoti dal mio futuro, ecco fatto.

Io non li avviso però, eh. Suggeriteglielo voi con le vostre visite.

Legge costituzionale

dicembre 29, 2011

Mood: compagnone
Reading: Chatwin, Che ci faccio qui?
Listening to: Tom Waits – Time
Playing: a correre nel vento per le strade di Delft
Watching: fulmini in lontananza
Eating: cheesecake da Uit de Kunst
Drinking: cappuccino



Che in me i momenti del piacere siano annodati all’esplosione in gola delle sacche del dolore in quarantena è una legge non scritta.
Perciò adesso non mi sorprende la sensazione tutta fisica dell’anima che si lacera in più pezzi senza preavviso in momenti impensati della giornata, facendo i salti mortali tra le cime del piacere, per l’appagamento e per tutte le prospettive che sta fruttando il mio lavoro, e le slavine del dolore, per quello che è caduto a pezzi e per quello che forse verrà, ma intanto si ostina a mancare.
Nella mia realtà del momento, i cambiamenti si incuneano con una rapidità da capogiro, qualcuno lo graffio dalla pietra dei giorni, qualcuno mi capitombola in braccio e lo puntello. Entusiasmo, fierezza, timori e incertezza si fondono insieme e fin qui niente di strano, ogni sentimento rende possibile il dannato vivere.
Ma spesso, alla fine di un giorno qualunque, dopo aver tanto corso e tanto sudato energia, mi sento persa. Nel mezzo è capitato più volte di aver lasciato cadere un sassolino lungo l’aorta, sperando negli angoli più buoni per poter rimettere ogni cosa e cercare conforto, leggerezza o semplice e ineducata condivisione. Altrettante volte è capitato di sentire ritornare solo le eco stridenti dei luoghi del cuore che un tempo furono giardini e ormai sono deserti sconfinati.
Con i tempi che corrono sarebbe meglio tenersi vicini, scaldarsi col fiato. Allora com’è che i doppi legami in cui mi cullavo giacciono sfilacciati nella terra e già ingrassano i primi giacinti? Ricordo sorpresa di aver creduto in ognuno di quegli amabili avanzi così tanto da sentirmi troppo piccola per non correre il rischio di esplodere. Sono consapevole che qualsiasi cosa finisce, ma come può qualsiasi cosa finire? È come prendere nello stomaco un pugno e vedere dischiudersi un gorgo. Rimpicciolisco. Mi risucchio al centro. Ed esco dalla felicità. Se c’è una cosa che mi fa male è non capire dove, quando e perché le direzioni sono diventate opposte. E valicando i patetismi di un necrologio qualunquista, scivolo in una delicata rassegnazione. Mai, prima d’ora, mi era capitato di sentirmi così.

Ecco, bisognerebbe che io sondi e argini una volta per tutte il meccanismo per il quale un’ondata di gloria non possa restar tale per più di un secondo prima di sprofondare in una qualche falda putrida. Bisognerebbe perché inizio a esserne stufa. L’udienza è aperta.
Per mirare il nocciolo della faccenda, non mi nascondo che tanto sono tronfia di gratificazioni lavorative, tanto sono sul lastrico dei sentimenti. Ma se c’è qualcosa di puramente umano, questo è l’incapacità di sorridere davvero alla vita quando i ritagli più intimi ed emozionali dell’esistenza sono scoperti al freddo. D’altra parte, con me il gioco è particolarmente facile. Qualunque idiota potrebbe intuire che il mio punto di massima vulnerabilità e contraddizione è negli affetti. In tutta onestà, ho un talento particolare per le circostanze squilibrate. Forse un istinto naturale.
Certo, adesso potrei lasciarmi andare ai venti nuovi che soffiano da ovunque, stringere legami più freschi, mappare nuovi riferimenti. Non mi diverte stare inchiodata mani e piedi a far arieggiare il cuore dalle scie degli amori persi. Vorrei anch’io sapermi concedere l’occasione per bruciarne di nuovi. Ma è come se, al momento, la mia anima fosse priva della capacità di avvicinarsi veramente a qualcuno e di incastrarsi.
Perciò, quantunque mi sfogli la pelle con scrupolo, il volto più viscerale della mia vita resta, fuori da un taglio qualsiasi di luce, con le orbite senz’occhi. E date le circostanze, quel sentimento di nuda verginità in un presente che non mi è amico, rattoppo i pozzi profondi che, fissandomi, m’affliggono con tutto ciò che di più vicino all’umano raggranello in fretta sui lidi della mia anima, sassi e conchiglie per lo più, postumo, spurgo, rimasuglio, sedimento di vecchi fiati e battiti cardiaci. Presenze che testimoniano assenze, assenze che riempiono vuoti. A ognuno il suo personale portagioie.

Ordunque si manifesta il valore costituzionale della legge non scritta per la quale in me i momenti del piacere sono annodati all’esplosione in gola delle sacche del dolore in quarantena.
Eppure sarei ingenua a pensare che non c’è modo di andare al di là. Dopotutto, in questo mondo non esiste legge, finanche la più costituzionale, non aggirabile con un affabile cavillo da azzeccagarbugli. Forse questa storia ha che fare con la meschinità più di quanto non voglia riconoscere. Più di quanto non voglia riconoscere, ho detto. Ebbene. Mi calo nell’etilene, poi di faccia in un cesso e mi assento dalla dignità. Faccio passare la notte. Epuro lo stomaco dei succhi gastrici. All’alba ho passato troppo tempo spezzata in due per voler continuare come fin’ora. Perché credere di poter riempire le mancanze con le assenze, perché se una vita può esser piena di presenze? A volte devo fare qualcosa di molto brutto quantomeno per farmi forte di una serenità nuova e accomodarmi quelle stesse possibilità che ho troppo ostacolato. Non so granché, soltanto che andare da questo luogo a un altro, quale chissà, mi bacerà, nutrirà, terrà viva.
L’udienza è sospesa.



[in merito a questa storia, si ringraziano – con tutto il cuoricinoinoino
Lou e Yanna per la luminosa sempreveravicinanza]

Frittata di Sangue

agosto 21, 2011

Mood: rilassato
Eating: muffin
Drinking: indovina, indovinello?, caffè



Sto camminando a miglia da noi, ma la consapevolezza denudata che te ed io siamo una frittata di sangue mi paralizza, poi m’incalza, poi ancora mi paralizza, ho nel cuore i bagordi di una zuffa e riscoprirli poi uguali, identici nel tuo cuore mi fiacca e voglio soltanto non esagerare nel tirare i legacci mentali per lasciarci ancora liberi di essere, familiarizzare con le nuove circostanze, senza necessariamente morirci dentro, cosa dobbiamo fare?

Per esempio.

Potremmo starci nudi negli occhi a sciogliere i bagordi della zuffa in una sera di pioggia e dirci chi siamo, imparare a chiamarci, amanti, amici, tutto, niente e nessuno, abbracciarci e dominare l’alchimia per non marcarci mai più, starci vicini o essere altrove, comunque sia amare tutti i giorni che sono venuti e quelli che ancora verranno, perché siamo stati noi come sapevamo esserlo ed ancora saremo noi come sapremo esserlo, diversi, non per forza migliori o peggiori, per non bruciare più svenati nel solito ciclo infinito di parole e domande che non ricostruiscono mai l’anello mancante.

Se ancora siamo qui…



{Ritornavo da giorni su queste parole per scolpirle e rimodellarle. Mi sono accorta solo alla fine della loro bontà terapeutica, del fatto che prima ero confusa, che ora lo sono ancora effettivamente, ma un po’ meno, anche perché di fatto sto bene, ho un sorriso ebete sulla faccia e come ogni volta che mi riscopro davvero felice all’improvviso sono maldestra, parlo a voce alta e mi muovo troppo ed inutilmente.
Il fatto è che da un po’ di tempo sto lavorando ad un progetto fotografico per un esame di settembre che mi sprofonda nelle mie scatole a compartimento stagno degli ultimi anni e soprattutto degli ultimi mesi per poi rivomitarle come fossero fiabe tra le mani di chiunque le voglia sfogliare. Al mio prof., che ringrazio pubblicamente per la disponibilità anche quando non faccio altro che sciorinare un dubbio dietro l’altro, ho scritto ‹‹Voglio raccontare questo mio essere in moto e quello che significa e comporta, i luoghi, i volti, i gesti, le storie, il cambiamento come unica costante ed il mio modo di osservare la realtà e scomporla e ricostruirla deformata, estetizzata e caricata sempre di senso in eccedenza per astrazione, nel momento stesso in cui la attraverso e ne sono attraversata. Ho pensato che il titolo del mio progetto potrebbe essere “Intrografie”.›› Chiaramente un simile progetto è una mia necessità umana prima ancora che un voto a libretto ed ancora più chiaramente un simile lavorio su me medesima un po’ mi consuma. Ma sono certa che anche questo avrà la sua bontà terapeutica. Anzi, è indubbio che qualche frutto io lo stia già raccogliendo.}

#Notes

ottobre 28, 2010

Mood: banana SPRINT!
Reading: Perec, Specie di spazi
Listening to: alza il volume, Hei Negrita!
Eating: cookie al cioccolato bianco
Drinking: caffè ginseg



Ultimamente mi affligge un torpore vacanziero dal web.

Ovvero

Nel calderone ho molta acqua a bollire, mentre le giornate sembrano sempre troppo brevi e mi avvilisce la sensazione diffusa di non concludere mai abbastanza, nonostante io apra gli occhi che il cielo è ancora bianco-Milano ante solem e non li chiuda prima che sia il giorno dopo o direttamente mi esima dal chiuderli, like the last night.

E a volte la vita scorre troppo velocemente per riuscire a fermarla. O semplicemente non si bada a fermarla perché si è troppo impegnati a viverla, ballando su un tram in corsa.


#1

Zulio e Nicolò

La vostra amicizia che, tra birra, musica e lunghe chiacchierate a libere associazioni, cresce bella da sorridere.
Grazie. Ve lo dico troppo poco.


#2

20.10.2010. Milano, quartiere Isola
Reapeting events, proiezioni in loop, dislocate nello spazio pubblico. E’ comune la necessità di riappropriarsene e rivitalizzarlo, pena la decadenza.
A sera, Massimo Zamboni, chiuso dietro la vetrina di un negozio di musica.
Fuori, conoscenti, estranei, cani, seduti stretti sul marciapiedi.
Di mezzo, la sua voce roca, la sua chitarra vibrante e i panorami della Groenlandia proiettati su uno schermo dietro di lui – il suo, un omaggio ad Artic Spleen, di Piegiorgio Casotti.
Evocazione, lacrime, brividi, freddo, tensione.
C’è chi si può permettere qualche stecca e il fuori sincro, perché sa trasformare tutto in poesia.


Un appunto sulle bozze del mio cellulare:

“[siamo] 2 anime perse in una boccia per pesci. d e f o r m a z i o n e”


#3

21.10.2010. Torino dalle forti contraddizioni.
Palazzi borghesi, grandi spazi aperti, aria, tanta, a percorrerli, silenzio, poche anime in giro. E sotto la superficie il sentimento di qualcosa che ribolle. Peso.

Zulio ne Il fantasma di Torino

Zulio e Raffa ne La Mole Antonelliana con Massimo sullo sfondo

Poi le Officine Bohemien, un piccolo locale colorato a caldo, per la prima serata di un Poetry Slam, otto voci diverse, una sfida a suon di versi sul palco. Tra queste, quella dell’amico mio Raffa , pura-ironia-dissacrante, in fin di fine terzo, peccato che in finale ci vadano solo i primi due e lui meritava, oh sì, e non è una questione d’amicizia.
Risate, fischi, ovazioni, un tiramisù in due ed un calice di vino bianco.
E’ incredibile come, sulle onde delle voci dei poeti, amplificate dai microfoni, l’atmosfera di condivisione si faccia facilmente pregnante, come estranei diventino complici, membri di una sola grande famiglia.
Adieu alle coordinate spazio-temporali!
E dalle sponde di un non-luogo e di un non-tempo, il solo pensiero del rientro a Milano è detestabile.



#4

23.10.2010. Milano, vagabondando
Dopotutto si sa che sul grigio si colora facilmente!









#5

24.10.2010. Milano, Magazzini Generali
Gli Hurts a spaccacuore. La musica tocca lasciarla entrare. Permetterle di fare il suo giro in vena, di risuonare anche negli anfratti più bui. E poi quel che ne viene, ne viene. Siano anche lacrime a profusione come le mie.



#6

22.10.2010. Milano
Una notte in quattro, senza chiudere occhio per un solo secondo, Ludovica, Laura, Candelaria ed io. Succede così quando per il giorno dopo sul calendario è segnalata in rosso la consegna di un qualche progetto e la tua barca è ancora bell’e ancorata in alto mare.
Una notte in cui abbiamo fortemente creduto di potercela fare e così abbiamo tirato su un progetto pienamente soddisfacente in tempi da record, ché la pressione si sa produce sempre frutti tanto succosi.
Ma soprattutto, quanto si può guadagnare umanamente, perdendo sonno?
Non vi conoscevo. E’ successo una notte tra i tazzoni di caffè-ginseg e le fotografie, le chiacchierate e le risate isteriche sul lavoro, i collassi improvvisi e le occhiaie in estensione progressiva fino alle labbra. Poi al mattino, sfinite ma super felici con il nostro lavoro stretto tra le braccia, ci siamo ritrovate ad elemosine posti a sedere in metro per non svenire, ad inghiottire cappuccino e cornetto senza capire bene cosa fossero, né che sapore avessero, a correre a perdifiato sulle foglie bagnate verso l’aula, con due ore di ritardo sulla consegna e meno male il collo non ce lo siamo rotto, ed ancora a sostenerci nelle ansie e nelle lacrime pur lecite dopo tanto sforzo fisico e psicologico.
Ho capito di essere cresciuta. Sì, a volte basta una notte. Una notte in quattro, senza chiudere occhio per un solo secondo, Ludovica, Laura, Candelaria ed io. Ed è stato tanto bello.

La mattina dopo.


#7

More & more.
Work in progress.
Go on.