Emigrare, la prima regola del Fight Club
novembre 12, 2011
Mood: teso
Listening to: Crystal Castles – Crimewave
Watching: Pina, di Wim Wenders (per la prima volta in vita mia, dico da vedere in 3d)
Playing: a scaricare la tensione accumulata
Eating: patate bollite e taralli ridotti a farina dal viaggio Bari-Milano
Drinking: acqua
Quando ci racconta di come ruota la vita che (si spera) ci aspetta là fuori, una mia professoressa di regia snocciola le “Regole del Fight Club” che non sono propriamente quelle di Chuck Palahniuk, ma un riadattamento delle suddette al nostro habitat professionale. Forse è inutile specificare che non c’è una sola che non ti metta in bocca un sorriso cinico o amaro, ma a me la dicitura “Regole del Fight Club” piace proprio tanto perché ha intrinseco il valore della lotta e della resistenza sul ring dove l’idea stessa del futuro picchia più di una grandinata non preannunciata. Noi uomini siamo stati abituati male con tutti gli omogenizzati e le pappine pronte che ci hanno propinato da cuccioli. Le bestie invece imparano presto che la ciccia si conquista con le unghie e con i denti, pena la vita.
E quindi ieri in mezzo, in mezzo ai tornanti di un discorso, questa mia professoressa si è girata di scatto verso di me e mi ha concesso il privilegio di una bastonata ‹‹Tu vuoi fare il direttore della fotografia? Emigra.››
Ma cazzo, mi è venuto da obiettare, io voglio fare la direttrice della fotografia, non il direttore, possibile che non mi si riconosca mai il genere femminile?
Esperti del settore sono tutt’ora al lavoro per capire se lei pensasse di sconvolgermi con una rivelazione simile. Io sono una bestia.
Emigrare
È la prima regola del Fight Club. Nel fu Bel Paese le uova marciscono. Se si vuole che si schiudano e che i pennuti crescano e vivano, bisogna svolazzare verso lande più favorevoli.
Del resto, per quanto mi riguarda, non ho mai pensato di restare a vivere nel nido da cui sono sgusciata e mi è venuto spontaneo forzarne da subito i confini per elasticizzarli. Quando le traiettorie migratorie hanno iniziato ad essere le uniche immagini di me che riuscissi a proiettare tanto in là nel futuro, emigrare e vivere “oggi qui, domani lì, dopodomani ancora chissà”, fiutando soltanto l’umanità, era un sogno e l’aspettativa più elevata che potessi coltivare. Non ci ha messo molto a diventare la dinamica essenziale di tutta la mia vita, e-migrare, andare da un luogo ad un altro, ma anche da un’emozione ad un’altra, da uno status quo ad un’altro.
In certi momenti, ho pensato che sarebbe stato massimamente bello nascere su un aereo in volo, originaria di nessun posto in particolare e di tutti insieme. Ebbene, chi l’avrebbe mai detto, guarda il caso birichino!, tra qualche ora sarò concretamente e non solo emotivamente una persona inuncertoqualsenso di nessun posto in particolare. Anche la mia famiglia emigra ufficialmente, mamma e sorella raggiungono papà in Olanda. E qualcosa in me cambia.
Mi sarebbe piaciuto nascere su un aereo, ma sono nata a Sud, in provincia di Bari. Ho bruciato lì i primi diciott’anni della mia vita e, crescendo, ho sfumato la mia patologia e la mia essenza da e-migrante con l’amore e la sofferenza per il nido in cui sono nata. Un tempo sapevo che, per quanto potessi prendere, andare, partire, vivere altrove, di tanto in tanto e ad un certo punto non ben precisato avrei affrontato un viaggio di ritorno al mio vecchio Sud, inteso come luogo degli affetti, ma anche come puro confine geografico. Perché, al di là di qualsiasi poltiglia patetica, lì ci vivevano mamma, papà e sorella e anche il più volatile degli esseri umani, tra un viaggio e un altro torna indietro per baciare la propria famiglia natale.
Tra qualche ora però anche la mia famiglia emigra ufficialmente, si svuotano gli armadi, si stacca l’elettricità, si chiudono le imposte alle finestre della nostra casa e si fa silenzio o quasi perché la vita che ha percorso un luogo difficilmente si stacca dalle sue pareti. E allora faccio il conto delle ore che restano, dodici per approssimazione, e non so bene come districare il groviglio emotivo e celebrale che mi sta dentro, mi stringo nelle spalle perché è come se mi mancasse la terra sotto i piedi. E tra l’esaltazione e l’insicurezza, mi riesce persino di incazzarmi, non avevo previsto che il caso mi fottesse e svoltasse senza ritegno nella direzione delle mie vedute da vita sperimentale, enfatizzandole fino a privarle di quel po’ di nostalgia classicheggiante da ritorno che serbavo nel profondo. Ma soprattutto non avevo previsto che potesse svoltare investendo il mio sogno e l’aspettativa più elevata che potessi coltivare con la forza inderogabile di un’imposizione impartita addirittura a tutta la mia famiglia, ché, non fosse stato per la visita da parte di Madame Disoccupazione e Monsieur Come Cazzo Sbarchiamo il Lunario, mamma e papà sarebbero rimasti volentieri nel nido, e sorella avrebbe a buon diritto preferito rotte più libere ed indipendenti.
Ma bando ai piagnistei e benvenuti al Fight Club, miei amati Signori. Qui si combatte e, come vuole la settimana regola del Fight Club di Chuck Palahniuk, “i combattimenti durano per tutto il tempo necessario.”
Di valige e questioni ontologiche
dicembre 21, 2010
Mood: in rapido recupero (a te, grazie, perché ci sei)
Reading: Reif Larsen, Le mappe dei miei sogni
Listening to: Kings of Leon – Cold Desert
30 Seconds to Mars – This is War
Eating: ciò che avanza nel frigo e va consumato
Drinking: tanta, tanta acqua, ho abbondato col peperoncino
Casa. Trolley e/o valigia. Stradastradastrada. Aereoporto. Check-in, al bisogno. Imbarco. Aereo. Posto xx. Decollo. Atterraggio. Sbarco. Recupero bagagli, al bisogno. Stradastradastrada. Casa. Sempre trolley e/o valigia.
Negli ultimi anni lo spostamento è diventato una costante della mia vita, talvolta percorro lunghe distanze anche più di una volta nel giro di una settimana, tutto d’un fiato o a tratti. Mi guardo nelle porte a scorrimento di un’aereoporto o di una stazione e riconosco in me la giovane viaggiatrice che ho sempre sognato di essere, con la valigia fatta all’ultimo secondo, povera di vestiti e carica di emozioni tutte stropicciate.
Domani parto per Amsterdam, raggiungo papà e mamma e sorella. Disastri meteorologici permettendo e ritardi secolari.
Intanto galleggio nel disordine che sempre comporta il tentativo di costringere la mia vita dentro una valigia in una sintesi striminzita e costantemente imperfetta, prima di lasciare un posto per un altro.
Mucchietti di vestiti, quelli da portare, quelli da lasciare e gli ultimi panni stesi ad asciugare per tutta la casa, sui mobili e sui termosifoni. Pile di libri e pile di fogli, quelli da portare, quelli da lasciare e penne e matite sparse sul suolo e tra le lenzuola. Collane di musica e canzoni, quelle da portare, quelle da lasciare e macchine fotografiche e rullini e schede di memoria e via così.
Di fronte alla valigia, il mio è un disordine tanto concreto quanto emotivo, ha molto a che fare con l’intimità, con chi sono e chi non sono, chi sono stata e chi non voglio più essere:
Aggiungere questo
Mettere da parte quello
Cancellare quest’altro
Proprio per questo stavolta trovo particolarmente difficile fare la valigia. Niente a che vedere con le pelli di montone da farci entrare per affrontare l’inverno sui polder, chè tanto ho sviluppato una personale metodologia per far entrare in valigia il possibile e l’impossibile, all’occorrenza. Tutto a che vedere, invece, con l’ontologia.
Sì, è uno strano momento, lo avverto fisicamente, mi stringo i polsi, in vena mi scorre un’onda frequenza silenziosa, non dolorosa, non angosciante, ma sottile, penetrante.
Ho bisogno di far posare i pensieri.
A distanza di cinque anni, l’Olanda resta per me una meta emotivamente molto forte. Allora avevo sedici anni e la vita crepata da due. Per un mese, sono stata lontana da casa e da tutto quello che mi era familiare, ho vissuto in Olanda con mio zio, lavoricchiato in un suo piccolo alimentari con mia cugina, per lo più mi sono cercata disperatamente, dilaniata tra il desiderio di “fare strage di me” e quello di “restare in piedi e non avere paura”. Per questo sono stata lontana da casa e da tutto quello che mi era familiare e per questo sono andata in Olanda. Era la mia prima volta.
A distanza di cinque anni, ne ho percorsa di strada, tanta davvero e ho avuto coraggio, sono cresciuta. Non ho più tempo per vivere nel passato, piuttosto lo recupero per distendere le pieghe e perdonarmi finalmente, riconciliarmi con me stessa. Ho raggiunto la dose di stabilità sufficiente per presentarmi al faccia-a-faccia con la ragazzina che sono stata come la donna che sono oggi, dimostrarle che non abbiamo più nulla a che vedere l’una con l’altra ed allo stesso tempo tutto a che vedere. Sorriderle ed abbracciarla, e sollevarla, respirarle dentro aria pulita, rassicurarla, dirle di non passare la vita a morire dentro perché sa ridere forte da spaccare i cristalli, che arriverà il bello ed ancora il brutto, ma lei potrà essere debole, piangere e avere paura, essere umana perché anche in questo c’è coraggio e sarà più facile star bene. Ringraziarla per la donna che sono oggi. Non più un rewind, ma un flash forward.
Sì, è uno strano momento, lo avverto fisicamente, mi stringo i polsi, in vena mi scorre un’onda frequenza silenziosa, non dolorosa, non angosciante, ma sottile, penetrante.
In verità, è solo un po’ di tensione. E’ sufficiente non ingigantirla perché torni il sereno.
E’ ora di fare questa valigia e chiuderla.
La mia famiglia è già lì, mi sta aspettando. Io sola manco. Ed in verità, non vedo l’ora di stringere tutti in un abbraccio collettivo.