A White Summer
marzo 19, 2014
Mood: attivo
Listening to: Heidi Harris – Carved In
Watching: Rivver – LAMU Official Video di Mathieu Grimard
Eating: torta al limone
Drinking: tisana di menta e ortica
Un momento di pura improvvisazione, durante il quale esplorare la liberazione della propria natura – corpo e emozioni che occupano uno spazio fisico –, seducendo il confine socialmente imposto tra intimità e mondo esterno, attraverso l’interscambio affettivo. Tutto questo è A White Summer, la performance che Eleonora Eta Liparoti e Natalja Heybroek hanno sviluppato lo scorso giugno al Vondelpark di Amsterdam.
Quello che personalmente amo di A White Summer è quanto emerge in termini di vulnerabilità e felicità umana. E non mi riferisco solo alla contingenza più temporalmente circostritta della performance: a questo proposito, potreste leggere sul blog di Eta e sul suo sito web di Natalja.
Da parte mia, voglio aggiungere un aneddoto.
Dopo il video, nei giorni scorsi [a un quasi anno di distanza dovuto a tante motivazioni, ma tutte molto positive e estremamente vitali], Eta e Natalja hanno pubblicato la documentazione fotografica della loro performance.
Firmo questa serie in cooperazione con una persona singolare sia sotto il profilo professionale sia sotto quello emotivo: mia sorella Marilù che, a giudicare dalle belle immagini portate a casa, ha risposto con molto cuore e buon occhio alla mia istintiva proposta giocosa di collaborazione.
(Ci penso e mi si illuminano gli occhi)
A White Summer
A performance by Natalja Heybroek and Eleonora Eta Liparoti
Shooting by Marilù and Dorotea Pace / Editing by Dorotea Pace.
Vondelpark, Amsterdam
June 2013
Adamo e Eva, una variazione
luglio 8, 2013
Mood: frastornato
Listening to: il vento che smuove le venezione alle finestre
Watching: le bruciature che mi ritrovo in faccia dopo aver cercato di curare certe ferite con un sedicente cicatrizzante
Eating: orecchiette e broccoli
Drinking: acqua e magnesio
Ecco un luogo al quale sono abituata: il suo fianco. Ogni volta che ci stendiamo vicini sembra di giacere l’uno dentro l’altra a tal punto le nostre forme, dando l’idea di venire l’una dall’altra, si ritrovano.
Così stanotte, malgrado sia arrivata da tanto lontano, dal centro di tutte le precauzioni per tenerci a distanza.
Per un lungo tempo non ho mai azzardato a rivederlo. Lui avrebbe cercato di riprendermi dentro il suo fianco, volendomi ma non amandomi. Io non sarei tornata libera, amandolo con limpida perseveranza e titanica fede. Ci saremmo avvitati per così dire nella gola spirituale del nostro sentimento fatta di carne e sangue, tra molte frane di malinconia e rodimenti d’infelicità comunque meglio di un’abiura irrevocabile. Come ci fossimo congeniti e seppur altrimenti necessari.
Se non altro, così piantati l’uno dentro l’altra, nessuno sarebbe mai più stato leggero.
Evasi un giorno.
Mi ha raggiunta a bruciapelo, come sempre. Ho l’impressione che lui studiasse e programmasse a tavolino il crollo delle mie difese, che si mettesse in un qualche modo sereno e concentrato a valutare i miei spostamenti e le possibilità di cedimento del sottosuolo, in attesa di disporre del giusto connubio di coincidenze per poter sparare un solo colpo di pistola che, producendo la minor vibrazione di preavviso possibile, mi colpisse e mi togliesse il fiato.
«È morto.»
Nella stanza bianco su bianco inferno al terzo piano dell’ospedale, ci sono troppe, ma troppe persone raccolte ai piedi del letto dove lui giace. Oscillano avanti e indietro perfettamente rigide sui talloni e emettono in gruppo un ronzio accordato in basso che penetra e crepa il sottofondo aderendo con puntualità a una lunga linea piatta.
Le ho percepite, non appena entrata nella stanza, tutte legate a lui una per una, ma tra loro tutte slegate: lo condividono in vario modo e sottoscrivono lo stesso lamento, ma si ignorano a vicenda, essendo messe una per una dentro campane di vetro, lui faceva così.
Decisa com’ero a vederlo al di là della loro barriera, le ho aperte a gruppi, superate, calpestate. La disperazione mi ha restituito una fiducia furiosa. Nessuno mi aveva parlato, detto «Sta per morire» prima di dirmi «È morto».
Ma se guardo al passato, a volte immaginavo che sarebbe finita proprio così.
Aveva iniziato, a un certo punto, a ubbidire a una qualche motivazione interiore che lo spingeva a consumare la strada a un’andatura impazzita e un po’ cieca, su una motocicletta sgangherata. Non si fermava mai, sembrava che l’unico brio gli arrivasse dal sibilo della velocità nelle orecchie, bruciava storie e persone. Di tanto in tanto qualcuno gli stringeva i fianchi dal sellino posteriore, poggiava il mento nell’incavo della sua spalla. In momenti di aderenza così teorizzava che la vita potesse assumere una direzione, era felice davvero, ma con nessuno di quei qualcuno durava più di un pugno di chilometri.
Alla fine, è successo: si è staccato in curva dal sellino della sua motocicletta ed è stato trascinato dalla velocità per metri e metri. L’asfalto se l’è bruciato allo stesso modo in cui lui faceva con le storie e le persone – smangiucchiandole rapidamente –, gli ha scomposto le ossa, preso i denti e brandelli di carne, persino una mano e scoprendolo ho sentito la forza scivolarmi dalle ginocchia,
le sue mani, le sue meravigliose mani. Ho pensato a tutti i tentativi di scrivere un’ode alle sue mani senza mai trovare parole adeguate. Le ho riviste magre e nodose lungo la mia schiena, attorno a una matita, tra le pagine di un libro, sempre incapaci di toccare, ma solo di sfiorare, suggerire, accarezzare, nonostante la decisione e la forza espressa in ogni movimento. Ho ricordato di quando sembrava che potessero stringere l’aria, rendendola concreta e palpabile, modellare i sogni. Mi emozionavano le sue mani, mi sono innamorata di lui mentre massaggiando le mie tra le sue mani una notte mi ispirò i racconti più lucenti e rivolgendo i palmi contro i dorsi e i dorsi contro i palmi spaziò dalla terra al cielo. Adoravo le sue mani al punto che, entrando nella nostra storia, mi sembrava di dover provare vergogna delle mie, a causa del fatto che sono corte e grasse, con la pelle ruvida e arrossata acchiappata a ossicini contorti, prive di grazia per quanto cerchi di educarle, ma lui mi disse che trovava bello il modo in cui vibravano tra le sue.
Mi faceva così male che l’asfalto gli avesse preso persino una mano.
Rattrappirmi era quanto meno.
E mentre così mi ripiegavo su me stessa per attutire i crampi del dolore, tutte le persone raccolte ai piedi del letto dove lui giace mi sono sembrate sufficientemente lontane da essere di nuovo soli, lui e io come ai primordi.
Andiamo, mi scongiurava, producendo il richiamo con gli avanzi della sua esistenza.
Io l’ho guardato per un po’. Di fronte al suo corpo sfigurato ho sentito il mio di prepotenza: ogni tessuto, ogni muscolo, ogni osso, ogni cellula pulsava così tanto dall’interno verso l’esterno che sembrava dover strabordare per ogni angolo del creato. Tutto il mio corpo implorava di vivere. Ma come succede quando viene a mancare il fiato perché qualcun altro ha le mani attorno al collo e stringe, stringe forte,
Andiamo.
Così stanotte, malgrado sia arrivata da tanto lontano, dal centro di tutte le precauzioni per tenerci a distanza, mi sono rincantucciata con innocenza nel suo fianco ormai immobile, ritrovando l’aderenza di sempre.
Capisco allora che è una questione di pochi secondi prima di grondarci l’uno dentro l’altro dai piedi ai fianchi, già le caviglie si distinguono a fatica. Mi aggrappo al suo braccio monco e resto in attesa, non mi muoverò dal suo fianco.
Vorrei soltanto che i suoi occhi potessero guardarci da dietro le palpebre chiuse in un livido così come ci ammiro io.
Ad Un Corpo, il Mio
luglio 14, 2011
Mood: tranquillo
Watching: Harry Potter e i Doni della Morte, la tradizione adolescenziale da rispettare
Playing: a riposare, ma anche a ri-rompermi il solito piede, per altro il giorno prima di una nuova partenza, Danni, Danni, Danni!
Eating: zuccherini in tutti i luoghi e in tutti i laghi
Drinking: acqua zuccherata
Mia madre ci ha sempre tenuto a ricordarmi che prima o poi ti riprendi tutto ciò che ti si toglie, mio corpo, che perciò mi conviene smetterla di sfruttarti e non darti tregua e spingerti in corsa e trascinarti, trattenendo dietro i denti il dolore, incurante del furore bruciante delle ossa, dei muscoli, del cuore, dello stomaco.
Per te, è vero, non sono mai stata una compagna tenera, troppo piccolo e sacrificato tu e debole per contenere le scariche distruttive e creative con cui ti bersaglio nel metabolismo continuo dell’essere che definisce il cambiamento, incapace come sono io per prima tanto di amarti e di odiarti completamente, quanto di considerarti puramente un corredo estetico alla mia interiorità perché interiorità ed esteriorità si esprimono in me sempre l’una addosso all’altra, corrono insieme per cercare di sciogliere i nodi e si abbracciano e poi si azzuffano e si soverchiano e infine si abbracciano ancora e di questa lotta entrambi hanno marchiate le tracce. Sei il mio corpo, mio corpo, tutto ciò lo sai già. Probabilmente diversamente ti sarebbe andata più comoda e per diversamente intendo se io non fossi stata io.
In quest’ultimo periodo abbiamo corso tanto per vivere e vivere liberi, sperimentando quella certa mania tutta umana a riempire ogni vuoto emotivo ed emozionale improvviso, una sorta di horror vacui che si trasforma in una divertente, quanto drammatica capacità di mettere in atto un meccanismo vitale dietro l’altro pur di nutrire l’anima, se non è questo un elevato esempio di istinto alla sopravvivenza!
Bestemmiami, mio corpo, ne avresti di motivi, ma resisti!, ti ho pregato con l’insistenza di una litania ed intanto ho corso con più ferocia ancora e ho perso il controllo sul respiro e sul battito cardiaco e c’è stato il dolore fisico e quello mentale, il tentativo di frenarlo ad ogni costo e il sentimento di solitudine corrosivo in mezzo alla folla estranea in attesa in un cesso pubblico all’uscita del cinema, poi la marea dentro, pesante e densa come mai l’avevo provata prima e trascinante, un fischio assordante nella testa ed ancora il tentativo caparbio e potente di resistere e resistere e resistere disperatamente resistere per non afflosciare al pavimento, Sta su, non ora e soprattutto non qui, così platealmente, finché forza e sentimento non hanno ceduto, Aiutami.
Adesso bestemmiami, mio corpo, ne avresti di motivi, bestemmiami e bestemmiami a gran voce. Ma capiscimi, ero troppo impegnata a cercare qualcosa, qualsiasi cosa pur di andare avanti e non farmi sopraffare dal desiderio di tornare sui miei passi. Mi do una calmata, d’accordo.
Dalla Genesi a King Kong
settembre 3, 2010
Mood: distratto
Listening to: il traffico giù in strada
Drinking: caffè
Eating: yogurt alla fragola
Sniffing (in via eccezionale): l’odore del soffritto che si intrufola dalla finestra. Non è possibile che ovunque vada ci sia il vicino dal soffritto aggressivo!
“E Dio creò l’uomo a sua immagine;
a immagine di Dio lo creò:
maschio e femmina li creò.”
[Genesi, 27]
Ore tredicipuntoquarantotto, oggi, casa.
Per la decima volta da che mi sono messa al lavoro, mi alzo dal pc, dove sto disegnando, sempre in Illustrator, una donna in posizione fetale, e vado allo specchio, quello del corridoio, bronzo antico corroso.
Dalla cucina Yanna, all’anagrafe Arianna, amica di cuore fin dalle rispettive condizioni fetali, sgusciata al mondo dieci giorni prima della qui presente autrice, compagna di giochi e pizze nella prima infanzia, in congedo nel corso della seconda infanzia, poi di nuovo compagna d’avventura in adolescenza ed età attualmente neo-adulta, personal reggifrontone ufficiale nel decorso delle sbronze a vomito, mille e mille altre cose che non basta un libro per elencarle perché di vita insieme ne abbiamo ballata davvero tanta, ed ora anche coinquilina nel milanese, capace, lei tra tutti, di uscire dal cesso, esclamando con aria sognante, neanche avesse visto il principe azzurro, che profuma di nuovo e buono, je t’ador!, “non me lo posso perdereeeeee”, dicevo, Yanna mi guarda, sopracciglio alto, mentre mi posiziono di profilo, alzo il braccio destro sopra la testa, ascella in direzione naso tanto da sembrare che me la stia annusando, e piego la testa ora di qui ora di lì.
“Do’, ma che fai?”
Animazione. Devo capire l’inclinazione del corpo per poterlo disegnare.
Una mattina, qualche mese fa, scuola.
Sul grande-pannello bianco, il proiettore rimanda le immagini di alcuni loschi soggetti che fanno smorfie da gorilla davanti agli specchi, saltano da una parte all’altra della stanza come gorilla, urlano come gorilla e s’azzuffano…. come gorilla, sì, arguto chi ha indovinato e no, nessun premio in palio per tanta sottiletta sottigliezza intellettuale, talvolta la vita è amara!
Costoro sono gli animatori di King Kong, nel making of del film, impegnati a dar vita al terribile mostro peloso e ciccione, studiandone i movimenti plausibili ed ogni più piccola variazione nei muscoli, nei dettali del corpo, del volto.
Non nego che a primo impatto, l’alzata di sopracciglia è doverosa, ma, messa da parte la ridarella superficiale per i quattro uomo-scimmia e le riserve in merito allo stesso King Kong, quel che subentra è la fascinazione.
Tutto per dire che
Nella vita non ho molte certezze. Una di queste è che non farò mai l’animatrice per una serie di ovvie ragioni (chi non le conoscesse è rimandato qui) e perché sento che la mia avventura è un’altra, mi porta per il mondo, con al collo un obbiettivo per penetrarlo, direbbe lui, esprimendo tutta la tensione dell’esperienza.
Un’altra convinzione è che se un dio creatore è mai esistito, ogni cosa l’ha forgiata e l’ha dotata d’anima così, come gli animatori di King Kong, come faccio anch’io, seppur in proporzione micro-infinitesimale.
S’è specchiato, questo dio, s’è studiato, un po’ narcisisticamente, un po’ con odio. Ha imparato a conoscere il suo corpo, i suoi muscoli, le sue ossa, come si articolano sotto la pelle e a capirne la bellezza assoluta nell’imperfezione. Che strano marchingegno è il corpo, un’orologeria delicata: “Fragile, fare attenzione”. Sarà perché custodisce l’anima, non deve lasciarla scappare.
Ha anche osservato ogni più impercettibile variazione nel movimento, questo dio, perché nulla è statico, anche quando sembra esserlo. E allora il movimento è conditio sine qua no della vita, quel che non si muove è morto, lo riconosce anche un bambino. “Panta rei”, diceva Eraclito, che se avesse saputo quanto la gente moderna avrebbe abusato di questa idea in tutte le salse, come il prezzemolo, certamente si sarebbe garantito i diritti d’autore per tutta la discendenza. Forse a volte bisogna solo abbandonarsi al flusso e sentirsi andare, serenamente, e mettere in saccoccia quello che capita per le mani, senza affannarsi in cieche ricerche.
Probabilmente, questo dio, ha pastrocchiato con fango e polvere di ossa, non certo ha “smanettato” sul computer, che all’epoca mi sembra non esistesse, ma fango e polvere di ossa o computer, disegno sequenziale o modellazione, stop motion o rotoscope e chi più ne ha più ne metta, quel che resta è il concetto, quest’idea tanto romantica quanto forte.
No. Al momento nessuna anticipazione sul progetto a cui sto lavorando.
E’ ancora in fase embrionale. Lo sto cullando, al caldo.