La Germania, quella che ho visto
ottobre 10, 2012
Mood: affaticato
Reading: Ercole Visconti, Parole illuminanti
Listening to: The Lumineers – Ho Hey
Watching: Anna Ådén Photography
Playing: con le immagini
Eating: pastina al brodino, sinonimo di influenza
Drinking: brodino
Mercoledì mattina mi sono svegliata in pantofole. Fuori c’era la caligine accecante d’inizio ottobre a Milano – una peculiarità –. Ho trascinato il cervello stigio fino al primo caffè della giornata, cercando di persuaderlo a propositi di natura più operativa, ma già millantando vie di fuga di maggiore interesse, mostre, eventi, convegni.
Un’ora dopo ero in partenza per la Germania. Ho agguantato in volata la proposta di un passaggio in macchina direzione Mainz. Stava nell’aria da qualche giorno. Si sarebbe trattato di una toccata e fuga da due giorni in mezzo a sedici ore di autostrada.
Con me c’erano Arianna, Carlo l’amico di Arianna, Fabio il padre di Carlo che a Mainz lo aspettavano ragioni di lavoro. Quando abbiamo impilato i trolley nel bagagliaio della Ford e ci siamo avviati, la giornata era diventata assai calda. Il cappotto sarebbe servito solo qualche ora dopo.
Lungo le autostrade lombarde che portano fuori da Milano, il cielo si riempie sempre poco a poco di azzurro, come se la velocità dei mille viaggi intrecciati per ogni dove gli strappasse di dosso polveri e foschie. Alla frontiera con Svizzera, si è fatto largo anche il verde, cascando dalle montagne insieme all’acqua dei ghiacciai, prima smunto, poi acceso e macchiettato d’autunno giallo e rosso.
Abbiamo superato il confine da Chiasso, procedendo per Lugano e Bellinzona, un percorso già fatto quattro anni fa, in un’occasione molto diversa della quale non ricordavo nient’altro oltre la sensazione di un violento esilio emotivo, riverberato dalle barriere metalliche autostradali. Da sud a nord, lungo l’autostrada del San Gottardo, il paesaggio svizzero è fatto da mucche e laghi nella regione italiana, da distese di patate e lama nella zona tedesca. Le montagne accompagnano tutto il percorso attraverso la Svizzera, ma la loro altezza digrada, passando dall’una, all’altra, fino a sfumare nella verdeggiante pianura tedesca del Reno ai piedi della zona montuosa del Mittelgebirge, sempre uguale a se stessa fino a Mainz. Osservando, sulle linee fisiche dell’ambiente, si sovrapponevano nella mia mente tratti di rincorse [verso cosa?] impedite sul finire [o iniziare] da una ritorsione indietro, indentro. La radio passava “la meteo” e Una lacrima sul viso.
Dalle pagine che stavo leggendo.
“[…] gli aborigeni non potevano immaginare il territorio come un pezzo di terra circondato da frontiere, ma piuttosto come un reticolato di «vie» o «percorsi».
«Tutte le nostre parole per “paese”» disse «sono le stesse che usiamo per “via”».
Il perché si spiega facilmente. Gran parte dell’outback australiano era costituito da aride distese di arbusti o da deserto sabbioso; là le precipitazioni erano sempre irregolari e a un anno di abbondanza potevano seguire sette anni di carestia. In un paesaggio simile, muoversi voleva dire sopravvivere, mentre rimanere nello stesso posto voleva dire suicidarsi. Il «paese natale» di un uomo era definito «il posto in cui non devo chiedere». Però, sentirsi «a casa» in quel paese dipendeva dalla possibilità di lasciarlo. Ognuno sperava di avere almeno quattro «vie d’uscita» da seguire in tempo di crisi.”
Abbiamo raggiunto Mainz che era notte da un po’, le strade deserte come gran parte delle città nel Nord Europa in settimana dopo le otto di sera, le case tinteggiate di rosa e panna con intelaiatura a traliccio immobili con pochi occhi accesi nel buio.
Siamo andati per prima cosa in albergo dove Fabio aveva prenotato due stanze. Mi è bastato guardarlo in altezza e larghezza per sentirmi stretta, ristretta, costretta. Fino ad allora, l’ultima volta che mi ero infilata in un posto del genere risaliva a tre anni fa, a Nantes. Ciò che proprio non sopporto degli alberghi è l’idea di viaggio come di merce di consumo – una tra le tante in vetrina – sottesa a quella corporatura da incolonnamento di capsule stagne tutte identiche per un turismo di massa, reiterato senza la minima variazione in ogni parte del mondo. Sono uscita subito dopo aver posato i bagagli.
Agognavo la Germania da tanto tempo. Un giorno – ero ancora al liceo – una delle poche personalità di grande importanza nel mio percorso formativo raccontò alla classe di un viaggio a Berlino e de Il Secolo Breve di Hobsbawm. Ci disse, Berlino è una città ferita e questo è palpabile ancora oggi, dopo la guerra, dopo il muro, dopo tutta la storia tedesca, non c’è un solo angolo della città che conceda di ignorarlo. Sono certa che la mia attrazione per la Germania sia dipesa da questa osservazione.
Poi, due anni fa, di passaggio per andare a Rijswijk, scesi per la prima volta a Weeze, l’aereoporto di Düsseldorf. Lì, non appena fuori dall’aereo – lungo il percorso che, segnalato da strisce bianche e transenne di metallo, porta in colonna dalla pista d’atterraggio alla sala degli arrivi, nel buio freddo illuminato a crudo dai neon degli interni e dalle luci degli aereoplani – avvertii davvero il presentimento di qualcosa da approfondire al più presto, l’impatto immediato di un’onda frequenza emotiva molto, ma molto bassa contro il petto, qualcosa che mi fece stringere nelle braccia.
Credo di non aver mai più potuto prescindere dall’immagine della ferita di Berlino, neanche quest’ultima volta.
In due giorni in Germania, ho leccato piombo sotto la lingua.
Mi sono mossa tra Francoforte e Mainz senza studiare gli itinerari per lasciar lavorare le impressioni. Ho prestato molto ascolto con orecchio mite. Al respiro sommesso che si annida nei casermoni di periferia con i filari di finestrelle frantumate. Alle stazioni sconfinate con le decine di binari interrotti e vagoni inutilizzati. All’allineamento massiccio dei tralicci dell’alta tensione che intelaiano sul cielo centinaia di cavi di ferro carichi di uccelli neri, tutto immerso in un grigiore fumoso, impiastricciato da aloni di lampioni alogeni. Alla vicinanza fragorosa tra i palazzi nuovi, gli edifici storici e le strutture ricostruite, dove mi è parso di poter toccare ancora gli sconfinati spazi vuoti e le macerie lasciate dalla seconda guerra mondiale.
Ho dato fiducia all’udito più che a ogni altro senso perché in Germania il silenzio fa impressione. È materico, ha profondità spaziale, si prende tutto quello che c’è intorno, diventa tutto quello che c’è intorno, spazi urbani, sale da cafè, carrozze del treno, volto occhi grandi di una donna di mezza età che sorride con discrezione. Avrei voluto avere con me un registratore, prima ancora che una macchina fotografica. Sarebbe stato uno strumento più discreto, più adeguato per raccontare quello che ho visto.
In Germania, c’è qualcosa che chiede, impone di essere compreso, con un’intensità che non ritrovo in nessun altro luogo dove sono stata fin’ora. A primo impatto, le sue sono maniere da penetrazione che non comportano la grazia della compenetrazione. Mi sono sentita presa da un disagio bastardo e un’inquietudine febbrile – mi sono mossa con le spalle contro i muri – e da multipli processi di congestione – mi sono messa sulle spalle il cappotto.
A posteriori, sono ritornata più e più volte in Germania con la memoria, cercando di scandagliare e razionalizzare le percezioni sfuggenti, ma animose che mi si sono stipate dentro. Ho vagliato gli appunti fitti, ho richiamato l’aria tedesca nelle orecchie e nei polmoni. Ne ho discusso più e più volte con persone diverse. Ci ho camminato su. Le idee migliori mi arrivano chiacchierandone – e muovendomi.
Può darsi che due soli giorni non siano sufficienti per parlare con coscienza di un luogo. Questa idea mi sta ossessionando, a maggior ragione perché in Germania, per la prima volta mi sono sorpresa a domandarmi quali fossero i rapporti di forza in atto nel mio sguardo: per certo ho risentito del condizionamento culturale dovuto a ciò che la storia mi ha raccontato della Germania, ma ho anche avvertito subito la sensazione di un luogo con un’identità storica e culturale così circostante e così densa da sbattermela in petto nel giro di pochi secondi, senza preamboli e edulcoranti, che è l’atteggiamento di ciò che ha consapevolezza di sé e del proprio valore.
Ci sono persone pronte ad acclamare alle vergogne tedesche – dimenticando per altro cose di alto pregio a caso come l’arte e la filosofia che in buona parte sono germogliate in quelle terre –. Per quel che mi riguarda, da tempo sono matura abbastanza per non indulgere in coppie di concetti ossimorici come “buono” e “cattivo” o “bello” e “brutto” che aspirano tutto il senso più profondo di una problematica.
L’identità storica e culturale tedesca è un fatto e ho l’impressione – se soltanto di impressione per ora posso parlare – che lo sia nel “buono” e nel “cattivo”, nel “bello” e nel “brutto”, soprattutto nell’interstizio tra i due, dentro la ferita lasciata dagli ultimi decenni. La Germania che io ho visto è quella che, nel “buono” e nel “cattivo”, nel “bello” e nel “brutto”, sta tutta quanta raccolta, stretta come un pugno. Quella che, nel “buono” e nel “cattivo”, nel “bello” e nel “brutto”, emana solennità e austerità, mestizia e dignità senza precedenti. Soprattutto pudicizia.
(Oltre che quella della birra a litro, delle uova strapazzate e del formaggio – a colazione –, della kartoffeln, della flummkuchen, del bretzel, della soup di pomodoro,
e dei viaggiatori irlandesi dagli occhi azzurri come il mare e i denti storti come le sue onde)
Vestiti dismessi in mezzo ai cuscini di un salotto Ikea messo in scena // Esercizi di stile
settembre 16, 2012
Mood: vagante
Reading: cose a proposito di spazi urbani
Listening to: Muse – Madness [in loop]
Watching: Joel Sartore photos
Eating: taralli fino a scoppiare
Drinking: acqua
‹‹Salve signorina Pace, volevo informarla che stiamo proponendo una nuova rivista sulle Sacre Scritture e…››
(“E tu vuoi leggere il racconto erotico che sto scrivendo io giusto adesso?”)
***
Uomini di ogni tipo, età e colore, alti bassi grassi magri volgari trasandati aitanti a perdita d’occhio. Guaine di pelle spesse da sotto i vestiti pezzati stropicciati, ciuffi di peli arricciati dove se ne stanno aggrappati gli umori forti di una giornata accesa a quaranta gradi, così rudi villosi sessuali e rughe pulsanti nelle tempie, nel collo, nei polsi. Ringhiano.
Perché tutta quell’umanità maschile proprio da Ikea il sabato pomeriggio? Con il mercato dell’usato in Senigallia e la mostra sui cubisti a Palazzo Reale.
«Greta…»
Come riescono bene a fingere di valutare il prezzo di un frigorifero di una scrivania di un piatto di una lampadina, mentre fiutano l’aria col naso mettono in mostra sorrisi, occhiolini, bicipidi, spaccazze, richiami, un’infinità di richiami sessuali.
«Greta…»
«Sì?»
Sì?, con quel tono così frettoloso così altrove. Come se non notasse che tutti quegli uomini sono attratti da lei, che le strusciano accanto, la circondano, come se non ne provasse piacere e autocompiacimento, dall’alluce del piede alla punta dei capelli. Lui può sentire i loro umori aggrapparsi alle caviglie di lei, risalirle lungo le cosce fin tra le gambe, solleticarle le grandi labbra, infilarvisi gonfiandole una pulsazione dopo l’altra. La osserva passarsi con disinvoltura una mano tra i capelli, spostare lo sguardo inquisitore da destra a sinistra, languido
«Ma non posso avere tutto?» domanda, birichina, spingendosi in mezzo a una piccola calca umana che sovrasta un tavolino da soggiorno in vimini con ripiano di vetro.
«Santo Cielo, Greta!» esplode lui infastidito, strabuzzando gli occhi verso di lei come se la vedesse in quel momento per la prima volta, ma come fa a non abbassare neanche gli occhi sulle punte dei piedi quando dice certe cose, rompendo in maniera così vistosa il loro patto di finzione? Lui si passa un fazzoletto sulla fronte e sulla pelata, sradicando piccole gocce di sudore dalle rughe spesse, scrolla la testa per scacciare sensazioni e immagini troppo fisiche appese alle palpebre cascanti sugli occhi annacquati, il vestito bianco a fiorellini rosa di lei che accarezza altri tessuti colorati impregnati, la pelle contro la pelle, i fianchi oscillanti, il sorriso, lo sguardo sfuggente, deglutisce vistosamente.
«Dai, Paolo, sto soltanto giocando! Che esagerato.»
Lui sbruffa, sempre più incredulo. Si mantiene in disparte per osservarla meglio, mentre si destreggia tra la gente con il suo tanto familiare equilibrio di fondo, senza fretta, senza forzare dove incontra resistenza, piuttosto distribuendo una carezza col fianco a uno e un tocco sulla spalla a un altro. Per ognuno Greta ha qualcosa di sé da donare. È una donna generosa, senza dubbio. Non puttana, generosa. Tutto il suo corpo è un canto alla bontà e alla piacevolezza del creato e bisogna riconoscere che, con il rotolare dell’età verso i cinquant’anni, Greta diventa sempre più generosa, grande morbida sinuosa che leccarla è un piacere perché tutta la sua pelle si piega al passaggio della lingua, la avvolge, la abbraccia e ce n’è di terra da esplorare, di viaggi da tentare, di certo non passa inosservata, lei con tutto lo stuolo di fantasie che suscita il solo vederla. La insegue costantemente un brontolio di brama, un desiderio condiviso di possesso, non c’è uomo che non le danzi attorno per accaparrarsela, l’uno è nemico dell’altro, ma neanche troppo perché dopotutto un po’ di empatia, di sano cameratismo non guastano, si capisce!
Capita, certe notti, che la visione di Greta addormentata al suo fianco non gli dia riposo. In quelle notti, Paolo si domanda cos’avrebbe fatto se, quindici anni prima, il giorno del loro matrimonio, al punto del «Se c’è qualcuno che ha da dire qualcosa parli adesso o taccia per sempre», quel qualcuno rompi-uova-nel-paniere, ma anche un po’ chiaroveggente, fosse balzato in piedi e, al cospetto di prete, testimoni e cuscinetti con le fedi, avesse detto «Io» più tutto quello che di sua moglie avrebbero rivelato solo gli anni a segire. Ebbene, la risposta è sempre la stessa «Ciò che ho fatto», forse l’amore quello vero vale una grande sofferenza, forse un giorno Greta tornerà a essere solo sua, nel frattempo meglio non dire niente, lei andrebbe via per sempre e questo è fuori discussione, meglio non dire niente e continuare a dividerla con tutto il resto del mondo. Forse per questo motivo Paolo fa fatica a fare l’amore con lei, non è solo per una faccenda di abitudine o di fiacchezza dovuta all’età: a essere indigesta è la forte sensazione che tra loro ci sia sempre qualcun’altro. A volte, da come Greta gli scivola addosso, lungo il busto, da come posa le labbra sul suo pene, facendogli intuire quanto è umida la sua bocca con cui presto lo divorerà, da come gli spinge la lingua tra i denti, facendola guizzare fino a lambire la sua, da come guida le sue mani tra le curve e gli incavi del suo corpo, da come lo accoglie e lo incita dentro di sé, premendogli le natiche con le unghie con fare imperativo e raschiando i piedi contro le lenzuola, da come lo cerca al culmine della passione, premendogli la testa contro il seno, a occhi socchiusi rovesciati, smarriti nelle nebbie dell’eccitazione che le arrossa tutta la pelle, improvvisamente placida, Paolo sospetta che Greta stia facendo l’amore non con lui, ma con un esercito intero. Da dove arrivano fame e sete così intense? Chi le ha insegnato che non c’è parte del corpo che non aneli al piacere? E adesso che le cose stanno così, come potrebbe mai lui appagarla, lui solo, senza mai dividerla con qualcun’altro?
«Greta?», questa volta Paolo l’ha persa di vista davvero, lei si è spostata dalla postazione tavolino di vimini con ripiano di vetro e la folla aggressiva che lo circonda gli impedisce di individuarla, prova un tuffo al cuore, geme, non può fare nient’altro, chi l’ha conquistata nell’interstizio tra una parete lillà e una libreria in un salotto Ikea messo in scena? Potrebbe essere chiunque, l’aitante dalla dentatura brillante che le ha raccolto il foulard sulle scale all’ingresso, quello con un bambino ricciolo e biondo per mano, fa sempre un gran colpo il maschio padre e single, oppure il grasso con la barba da intellettuale che le ha offerto una matita davanti alla sedia da giardino, quello con un libro sotto l’ascella, fa sempre un gran colpo il maschio filosofo e lontano dalla carne, oppure il buzzurro in canotta bianca a costine che le ha pestato il piede camminando contro marcia e non le ha chiesto scusa, quello con la piastrina d’oro al collo, fa sempre un gran colpo il maschio animalesco, oppure tutti e tre insieme e anche qualcuno in più, la condividono con la stessa generosità che lei profonde.
Paolo torna a cercarla con lo sguardo tra un divano giallo e un uomo, una sedia a strisce e un uomo, uno scaffale ciliegia e un uomo, un vaso in plastica e un uomo, ma niente, c’è troppa gente da Ikea il sabato pomeriggio, di quanti salotti nuovi ha bisogno Milano?
Chiude gli occhi e la segue col pensiero, se c’è una cosa che gli fa male, ancora oggi dopo anni passati a fare i conti fin nei minimi dettagli con i suoi tradimenti, quella cosa è la visione del mucchietto di vestiti dismessi per terra che è l’immagine di due corpi che si sono liberati da tutti gli strati di indumenti e sono rimasti nudi l’uno di fronte all’altro per potersi avvicinare piano, offrirsi senza nasconderne l’umanità che li condanna all’imperfezione. Paolo neanche potrebbe immaginare di mostrare la sua pancia flaccida a un’altra donna. E mai e poi mai avrebbe scommesso che, invece, sua moglie un giorno avrebbe mostrato i suoi piedi a panzerotto a un altro uomo, un altro milione di uomini. Si era illuso che quelli fossero un loro segreto.
Questo sì fa male, molto più dell’idea di tutti quegli uomini, l’aitante, l’intellettuale, il buzzurro e tanti altri ancora incollati a sua moglie per mezzo dei loro peni, tutti impegnati uno dopo l’altro a schiacciarla contro il muro lillà come una sottiletta fusa, tenendone stretti i seni tra le mani e le gambe divaricate incrociate sopra i fianchi, lei dea sorta da un mare di carne e da quello stesso mare bramata, accarezzata, baciata, leccata, solcata, immensa e radiosa nell’orgasmo sacro quando la filarmonica di spasmi e respiri in crescita erompe in un urlo che in verità sono dieci, forse venti, ma tanto intrecciati da sembrare uno. No, questo non costa fatica, è ben poca cosa la visione dei loro corpi scolpiti dalla tensione del desiderio, rispetto al mucchietto di vestiti dismessi in mezzo ai cuscini di un salotto Ikea messo in scena, forse stamattina Greta ha indossato reggiseno e mutandine in pizzo rosa, si abbinano al suo vestito e starebbero alla perfezione con dei cuscini verde acido. Così sia,
(s)viene.
***
Quando Gianni Biondillo – architetto, scrittore e prof. di scrittura nel mio ultimo anno in NABA – ci ha invitati a cimentarci in un racconto erotico, ha detto «ricordatevi che farsi una sega è un gesto politico», il sesso in generale il corpo nudo ha a che fare con la politica, pensate alle divisioni culturali di genere, macchinine ai maschietti bambole alle femminucce, alla narrativa erotica, solo autrici e autori con pseudonimi femminili ovviamente, infine al sintagma dell’atto sessuale più rappresentato, il sacrosanto pompino, donna in ginocchio in adorazione di uomo santuario con debolezze nessuna fallo di pietra e seme benedetto che donna incapace di intendere e di volere attende di ricevere in trepidazione, eiaculazione sovrumana tutto sotto controllo. Insomma, ci sono materia su cui riflettere e convenzioni da incrinare. Tant’è che a Biondillo è balzata in testa l’idea di Pene d’amore. A me quella per questo racconto, ci ho provato. E comunque io giocavo con le macchinine e mi lavo con i bagnischiuma maschili.
Del perché sono vegetariana
agosto 16, 2012
Mood: zen
Reading: dispense sinonimo di esami in avvicinamento
Listening and Watching: Devendra Banhart – A Sight To Behol (Live Jools Holland 2004)
Eating: crepes ai funghi
Drinking: caffè
Se “una persona ben nutrita, ben vestita, bene alloggiata e per ogni altro rispetto ben assistita, può essere persuasa a fare una data scelta tra un rasoio elettrico e uno spazzolino da denti elettrico” – lo scrive il più illustre di me J. K. Galbraith ne Il nuovo stato industriale, io che per grazia concessa al principio del mio tempo appartengo a questa specie di persone posso permettermi – volendo, il lusso sfrenato – di ragionare su cosa mangio cosa voglio mangiare sul perché sì perché no traendone conclusioni da porre in atto.
Si risolve con questo articolato esercizio linguistico celebrale il tormento di anni e anni di pranzi – con amici parenti amici di parenti amici di amici parenti di amici parenti di parenti – causato dal non sapere come dire perché sono vegetariana al lì presente curioso incredulo sconvolto estremista mistico onnivoro altrimenti carnivoro di turno [a cui il boom economico degli occidentali anni Cinquanta sembra aver lasciato il sospetto della panza vuota del dopoguerra più che la consapevolezza dei tempi più prosperi bene o male e checché se ne dica] senza ammorbarlo con dissertazioni meno concettualmente concentrate – oltre che meno romantiche rispetto alle aspettative – in merito a non condivise meccaniche economiche sociali ecologiche date al contemporaneo dai secoli dei secoli amen, Vuoi sapere perché non mangio carne?, prova a pensarci almeno nel mentre smetti di ammorbarmi.
A onor del vero, le discussioni alimentari in special modo quelle protratte davanti ai piatti pieni nelle ore cruciali della giornata sono quelle che più mi esasperano tanto più perché io col cibo, vegetarianismo a parte ma non del tutto, ho instaurato da subito un rapporto molto intimo e complesso che a sviscerarlo ne verrebbe fuori un trattato programmaticamente abortito fintanto che non avrò trovato il modo adeguato per scongiurare i patetismi.