Altrove
febbraio 20, 2012
Mood: divertito
Reading: Desmond Morris, La scimmia nuda
Listening to: Explosions in The Sky – First Breath After Coma
Watching: palloncini che continuano a ballonzolare per casa a seguito del festino di ieri sera con tema – si presti orecchio all’originalità – pane sì pane, abbiamo da consumarne!
Playing: a riordinare ogni cosa dopo mesi d’incuria
Eating: risotto funghi e zucchine
Drinking: teh
Prima di essere altrove non avrei potuto sapere che altrove c’erano incalcolabili possibilità per essere felice. Prima di andare in anossia per la mancanza di tutta la vita che vivendo non avevo vissuto non avrei potuto essere altrove.
Altrove è quando tra i flussi riflussi cicli ricicli dei giorni delle settimane dei mesi degli anni si fa spazio la disposizione a sradicare le arterie dai territori esistenziali noti che sono sistemi complessi di eventi e meccanismi e nomi ed emozioni, per familiarizzare con la mobilità sperimentare gli impulsi e le necessità che tramano e ordiscono la felicità.
Il problema è che gli uomini hanno natura assai abitudinaria la sola idea del cambiamento li pietrifica, si sono convinti di avere un’identità ferrea figurarsi la facilità estrema con la quale si assuefanno ai territori esistenziali noti e ci rimangono anche quando stanno cadendo in pezzi a causa di un continuo inaridimento. Gli uomini si dicono felici piangono tantissimo. Per dire che
Prima di vivere come se il mio territorio esistenziale noto fosse il solo generoso il solo possibile, non avrei potuto andare in anossia per la mancanza di tutta la vita che vivendo non avevo vissuto, non avrei potuto essere altrove, non avrei potuto sapere che altrove c’erano incalcolabili possibilità per essere felice.
Oggi sono altrove.
Quando porto alle spalle lo sguardo e mi perdo nei campi lunghi squartati dalle arsure continue iniziate ormai troppi anni fa, penso che mi viene da arrabbiarmi avrei potuto lasciare i miei territori noti per essere altrove già troppi anni fa, ma poi penso anche che essere altrove non è stato e non avrebbe potuto essere come girare una frittata nella pentola al volo voilà!, ieri vivevo come se il mio territorio esistenziale noto fosse il solo generoso il solo possibile oggi sono altrove. No, proprio no.
Per mesi ogni mattina al risveglio ancora nel letto, ho oliato tutte le giunture delle ossa legnose i tessuti degli organi interni battuti da malinconie e cacofonie i meccanismi delle sinapsi affette da idiosincrasie e falle temporali i sentimenti i cimeli poveri dei miei territori esistenziali noti che un giorno avevano fatto sbam!
Per mesi ogni mattina al risveglio ancora nel letto, ho sentito le assenze marciare il cuore indietreggiare e prima della sopraffazione prima del cuore in mille pezzi ero ancora viva non potevo ignorarlo non potevo restare in attesa dovevo andare sapevo dove
non potevo
che possibilità c’erano di essere felice?
eccome se potevo
dovevo
altrove,
allora ho oliato – tutte le giunture delle ossa legnose i tessuti degli organi interni battuti da malinconie e cacofonie i meccanismi delle sinapsi affette da idiosincrasie e falle temporali i sentimenti i cimeli poveri dei miei territori esistenziali noti che un giorno avevano fatto sbam! – per sradicarmene piano senza fare crack!
E sono passati i mesi le mattine i risvegli ancora nel letto che era come essere in utero, non bene o male, semplicemente essere e sentire i piedi allontanarsi distintamente passo dopo passo dai territori esistenziali noti sperimentare l’altrove forzandone i confini sentire di aver vissuto una vita intera senza ricordarne che pochi istanti flosci e amorevoli sentire di dover nascere una volta ancora sentire di poter nascere una volta ancora forse anche più sentire tutta la forza propulsiva di un evento creativo.
Oggi sono altrove che è l’esito in divenire di un lungo processo esistenziale ri-creativo, non già un sistema complesso di eventi e meccanismi e nomi ed emozioni sarebbe prematuro, piuttosto un numero incalcolabile di possibilità per essere felice e insieme la libertà di correrci attraverso, sentire sottopelle il solletico e ridere tantissimo ridere di gusto avvertendo il corpo danzare distendersi espandersi prolungarsi con tutto il suo peso.
Oggi sono altrove e prende bene oggi che soltanto ieri non mi sarebbe riuscito così spontaneo ridere tantissimo ridere di gusto perché nel mio territorio esistenziale noto un solo motivo per cui piangere sarebbe stato più violento di mille motivi per cui ridere – mille motivi per cui ridere che non facevano un solo motivo per cui piangere, ieri –.
Prima di essere altrove non avrei potuto sapere che altrove c’erano incalcolabili possibilità per essere felice.
Oggi sono altrove e prende bene oggi che altrove ci sono incalcolabili possibilità per essere felice.
‹‹Ma guardala lei che finalmente ride quanto ride!››
(Grazie)
***
Comunque dedico queste parole a Eta perché Altrove le appartiene. In una certa misura, ne ha reso possibile per me la consapevolezza in questi ultimi mesi. Altrove è il titolo che chiude (?) il percorso del suo progetto di tesi di diploma accademico ‹‹di frattura›› (viscerale).
Sweet disposition
febbraio 14, 2012
Mood: facilmente irritabile, sintomo da stress communis e troppo caffè
Listening to: Temper Trap – Sweet Disposition ogni parola è come la provo
Watching: le espressioni di disperazione di Lou mentre assembliamo senza troppa convinzione uno degli esami più dissanguanti della nostra storia accademica non a caso rinominato Apocalissimo, ore 4 a.m.
Playing: a mantenere un atteggiamento consono alla civiltà
Eating: pizza con patatine e maionese, mi faccio ufficialmente schifo
Drinking: troppo caffè per l’appunto
Pocoyo al mattino i Pancakes L’ombelico del mondo a sera le fragole nello zucchero le storie di notte gli abbracci, li difendo vergini negli occhi che è come guardarci dentro indietro e scoprire che
– un giorno dopo il dolore talvolta le smanie di recisione
dopo le cose brutte che sono arrivate –
Pocoyo al mattino i Pancakes, L’ombelico del mondo a sera le fragole nello zucchero le storie di notte gli abbracci sono come se fossero la mia seconda infanzia che è quella parola che quando la pronunci tutti pensano a una cosa tanto bella difficile tronfia di sogni e illusioni lontana dal presente nel quale è smarrita sradicata sterile, una pastura di sensazioni e emozioni che quando le ricordi puntini puntini puntini di
s o s p e n s i o n e
sospiro
Oh, quanto mi piace pensare a quando le persone si (di)spiegano ancora e smettono di mancarsi si amano come sanno fare senza mezzi termini dopo il dolore talvolta le smanie di recisione dopo le cose brutte che sono arrivate, ma
– Ma? –
– Ma. –
E intanto che non è uguale a “in attesa”, senza distogliere lo sguardo senza chiudere gli occhi continuo con forza a sgusciare in avanti via da Pocoyo al mattino i Pancakes, L’ombelico del mondo a sera le fragole nello zucchero le storie di notte gli abbracci che sono come se fossero la mia seconda infanzia che è quella parola che quando la pronunci tutti pensano a una cosa tanto bella difficile tronfia di sogni e illusioni, ma lontana dal presente nel quale è smarrita sradicata sterile mentre
Io ho responsabilità e pure aspettative nei confronti della mia vita.
È davvero molto importante bello a modo suo,
Io che per (soprav)vivere non devo più necessariamente cesellare ogni giorno con la rabbia.
Dopo di che, smetto di scrivere stronzate confusionarie che dicono tutto e sembrano niente.
Quella in cima è la donna-pesce, l’ha disegnata Nicolò. Non gli ho chiesto il permesso per pubblicarlo, ma
Comunque la donna-pesce è un’entità con gli occhi spalancati.
Storie del Vecchio Sud // Intanto Ri-generarsi
aprile 18, 2011
Mood: stabilmente instabile
Listening to: Gianluca Grignani – L’aiuola con Zulio a tutto volume sulla Vicenza-Milano
Playing: il gioco della felicità
Eating: Asiago
Drinking: acqua
Fuori dal centro abitato del paesello in cui sono nata, le strade sfuggono con naturalezza nell’aperta campagna, disconnesse e sempre più ristrette tra i muretti a secco diroccati che due macchine insieme spesso non ci si passa. La partitura del paesaggio muta gradualmente, il verde dei prati e delle fronde degli alberi si infiltra nel grigio fino a fagocitarlo, e così il viola del glicine abbarbicato tra i massi, il giallo e l’arancione delle macchie di margheritine ed il marrone del terreno arato di fresco, il rosa del fiore del pesco e il bianco di quello del ciliegio e l’argento delle foglie d’ulivo e l’azzurro del cielo terso con il tempo, si sa, muterà ancora tutto, aspetto e colori.
Da bambina, scorazzavo in questi campi a briglia sciolta, i miei nonni materni avevano costruito masso su masso una grande casa bianca in mezzo ad un oceano di terra e mio nonno ci urlava dietro perché a correre a piedi nudi gli rovinavamo il solco e a costruire le casette con le casse di plastica gli mettevamo tutto in disordine e da dire ce ne sarebbe sui nostri giochi invasati e sordi a qualsiasi minaccia.
Tornandoci, dopo mesi di vita milanese trascorsi a fissare senza amore palazzi più o meno elevati e vetrine e traffico, sulle prime mi sembra di non cogliere la realtà di quello che sto vedendo, ma che begli scenari in questo sogno ad occhi aperti, persino il cielo ha colore! Poi con il trascorrere dei minuti, il respiro dei campi, pulito e leggero, mi solletica la gola e si dà alla discesa verso il cuore, lo gonfia e lo incalza, lo rianima, c’è odore di terra, di petali infastiditi dal venticello, di acqua e di pietra, ci sono la terra, i petali infastiditi dal venticello, l’acqua e la pietra, mi emoziono timidamente.
Poi in fondo ad una discesa, incorniciata dalle fronde degli alberi, si schiude la visione sublime di dolci declivi verdi disseminati da piccoli agglomerati sbiancati nella luce piatta di metà pomeriggio, è un colpo all’anima, com’è possibile che esista ancora tanta bellezza? Il fatto è che la natura resiste anche se ferita, l’uomo con tutti i suoi conti in tasca non si sa per quanto.
L. abita due svolte in là, in una casa col porticato in legno, affacciato su un giardinetto sul quale lei stessa profonde amore, coltivando fiori e piante d’ogni genere che, crescendo, s’aggrovigliano tra loro, e sembra una piccola giungla. In uno studiolo ricavato da uno spazio di troppo, L. pratica la tradizione degli aggiustaossa, della pronoterapia e della riflessologia plantare. «I piedi parlano», mi ha detto ed ho sorriso io, io che ho sempre un po’ tanto creduto che la vita passi attraverso i piedi, il passo, il modo in cui la pianta si arpiona al suolo, la penetra, la scava, nei luoghi che segna, è questione di pesi, di ritmi, di umori. Io che da qualche mese stavo affrontando la vita con un passo zoppicante a causa di un paio di faccende emotive e, guarda caso, dell’alluce destro accartocciato su se stesso, senza particolari spiegazioni, «ossa accavallate in calcificazione con principio di alluce valgo, un calcio o un passo a vuoto», mi ha detto più tardi L. mentre, pian, piano, riportava tutto al posto giusto ed io sentivo il piede allungarsi e rilassarsi e sì, ora lo poggio di nuovo per terra e, a volerla dire tutta, la radiografia e l’ecografia del giorno dopo non sono state in grado di rilevare alcun tipo di malformazione e semplicemente perché non c’era più.
La gente del circondario spesso conosce L. come Anselma, in verità la gente del circondario conosce l’intera zona come “Àbbasce ad Anselm” (“Giù ad Anselma”). Anselma era un’istituzione in questioni di ossa a spasso da riportare a casa ed abitava appena qualche metro in là rispetto a L.
Da bambina, Anselma mi ha rimessa a posto centinaia di volte, ché io ero pazzerella ed una volta ruzzolavo giù da un albero, un’altra cadevo dalla bicicletta e mi incastravo nella raggiera della bicicletta, un’altra ancora perdevo l’orientamento mentre facevo una ruota dietro l’altra con una sola mano e finivo contro un muro, fatto sta che mi ritrovavo sempre con un piede, una caviglia, un braccio, qualche dito dis-locato. Aveva l’odore della terra, Anselma, ricurva su se stessa e nodosa come la radice di un ulivo secolare e scura e segnata come un suolo riarso dal sole. Aveva raccolto tutta la forza e l’energia nelle mani, scheletriche e lunghissime, e la si avvertiva fisicamente quando premeva a fondo tra i muscoli e le ossa, poi cranck, tessuti distesi, «È a posto», e in verità Anselma parlava un dialetto che mi era incomprensibile. Non ha mai imposto pagamenti in moneta, ricordo che a mio papà chiedeva pale da camino e non ho mai capito bene per quale motivo, comunque qualcosa a che fare con mio nonno. E il suo camino era nero, nerissimo, nero fuliggine, lo fissavo e mi ci perdevo mentre muscoli ed ossa si spostavano sotto le sue dita e stringevo le labbra tra i denti, ché fiatare il dolore lo reputavo infantile anche quand’ero una poppante
A volte mi sembra impossibile incontrare tutt’oggi per strada gente che ritenga Anselma ancora viva, non c’è più da così tanto tempo, ma se è vero che si vive agitati nella memoria, effettivamente Anselma è viva, altroché se è viva!
Il caso aveva voluto che Anselma e L. fossero l’una per l’altra suocera e nuora. Ma Anselma non ha insegnato nulla a L., lo si avverte nelle loro mani. Della terra, Anselma aveva anche l’asprezza e la rudezza, mentre nelle mani di L. non si incontra mai un gesto disattento o maldestro, mai nella sua voce un tono acuto o sbrigativo, «la dolcezza, non provoca dolore», mi ha detto, la dolcezza è la cura, l’ha imparato con i polletti e le galline e i conigli ed i vitelli quand’era bambina, prendendosene cura se erano inquieti, massaggiandoli e curandoli se si facevano male e loro continuavano a crescere e la riconoscevano, la amavano. Ad ascoltarne i racconti, il cuore incalza il sangue velocemente, «Ho un cuore anch’io, solo è diversamente abile», come posso aver pensato che mi si fosse essiccato?, era solo sopito, annichilito, corroso, mi emoziono timidamente.
Insomma, lo so, una serie di cosette degne di scetticismo e che la medicina ufficiale spara a vista come cialtroneria, ignoranza e via elencando e certamente di truffe ce n’è a palate in giro, ma quello che la pura razionalità non sa valutare è l’istintività animale di un corpo che si approccia ad un altro, carne, ossa e sangue, l’emotività di un contatto e la forza congenita in un sentimento. Dopotutto, quello che la medicina ufficiale non si spiegherà mai compitamente è il meccanismo psico-fisico dello stomaco, egguardacaso!
Mentre aspetto il mio turno, me ne sto così a ricordare e a pensucchiare insieme, semplicemente appoggiata alla staccionata che divide il terrazzino dal giardino, «Sto fuori, mamma, fuori dal bunker». Bevo tutto nei sensi, il cielo ed il sole col suo ciclo lento verso il tramonto, il percorso dei raggi che colpiscono le piante e le fanno vibrare, le armonie degli uccelli quando al calar del sole tutt’attorno la vita si quieta nel fruscio delle fronde e l’abbaiare di un cane lontano, la vecchina ricurva ad estirpare l’erba nel campo di fronte con il fazzoletto bianco a ripararsi dal sole, i nani nel terreno e i nidi tra i rami, le girandole che gorgheggiano al vento, e appena cambio la prospettiva tutto cambia, le curve delle foglie ed ogni loro oscillazione, gli arabeschi tra le nervature, la forma di una nuvola all’orizzonte, scopro dettagli che non avevo notato prima, il giallo del limone nel verde, mi immergo nel ritmo, ne divento parte integrante, un gatto grosso e dagli occhi languidi si avvicina e si procaccia carezze tra le mie gambe.
Quanto sei bella, mia terra addolorata, mia terra abbandonata, pensavo di non poter provare più meraviglia di fronte al mondo, né curiosità, come se mi avesse detto tutto e tutto male, ma che errore, un altro, come posso averlo compiuto, quand’è che ho iniziato a fare il callo alla sterilità estetica ed affettiva, quand’è che ho spento la torcia e mi sono dimenticata della bellezza, ora ne faccio scorta, ché senza mi sento soffocare, sì, sto proprio soffocando di bruttezza e non trovo rimedio, è una fuga continua e mai nessuno che alza lo sguardo e sorride e bisognerebbe fermarsi di più a meravigliarsi e a lasciarsi andare e un attimo… dov’è la lotta quotidiana dentro di me, dove sono la rabbia e l’amore e le cicatrici, dove le incertezze e le risposte agli estremi, dove lo sporco nel sangue ed ogni malsano prospetto?, ma dico, sono serena, ma dico, sto sorridendo, ma dico, ci sono e per un momento non mi sto smembrando, dico di più, sto respirando cos’è questa storia? È coscienza e insieme rapimento, ragazza, non t’accorgi che in realtà ci sei ed insieme non ci sei?, sei in un’altra condizione, lasciati andare, ragazza, lasciati andare, resta sospesa ancora un po’. Che in verità, la storia è tutta qua.
Quanto tempo sprecato a correre, nell’ultimo anno, quanto tempo sprecato a non fermarmi mai, neanche per un secondo e a chiedermi «Hei, Do, come stai?», anche solo a fare qualcosa che mi faccia piacere. A Milano davvero corrono tutti e strepitano, persino le formiche ed io assieme a loro corro e per convenienza non mi domando mai come sto e faccio respiri profondi per non piangere, respiri profondi che si schiantano come piombo sullo stomaco e lo sfondano e corro senza sosta.
Tra tutte le leggi sociali, economiche e culturali di cui si è gravato per vivere, l’uomo sembra aver condannato a damnatio memoriae proprio le dinamiche della sospensione, ma a correre sempre, lo sai, si finisce per perdere di vista la strada, ragazza, ed insieme se stessi, e a non domandarsi se stai bene, se stai male o mezz’e mezzo, si finisce per ammalarsi. Fermati, non t’accorgi che sei senza fiato? Fermati a ripescarti.
Così, mentre aspetto il mio turno, tra una svolta dei sensi e l’altra, mi domando come sto, e basta mentirsi, ti sei ammalata, ragazza, ma ammalata seria, nel profondo e ti sei persa, ragazza. Se ti domandi chi sei, dove sei, cosa vuoi, se ti domandi «Perché?» non trovi risposta che nei giorni di qualcun’altro, nel tuo essere per qualcun’altro. Ma tu, chi sei tu, dove sei, cosa vuoi per te?, ché sì, puoi ben volere anche solo per te e svegliarti domani e scoprire che tutto è cambiato e semplicemente accettarlo. Ma poi dimmi, come puoi vivere se sei prigioniera? E tu vuoi vivere, cazzo se vuoi vivere!
Non si invola all’improvviso la lotta quotidiana dentro di me, né la rabbia, né l’amore, né le cicatrici, neanche le incertezze e le risposte agli estremi e lo sporco nel sangue ed ogni malsano prospetto e dopodomani forse respirerò ancora pesante, tutte le risposte non sono in un pomeriggio, ma, mentre aspetto il mio turno, scivolo tra il rosso del tramonto che tinteggia i contorni degli alberi e gli angoli del porticato. Bisogna pur partire da qualche dove per trovare la cura per la propria malattia, e forse il sé è il dove più appropriato.
Intanto resto col naso all’insù e guardo le stelle, a vivere nell’inquinamento luminoso m’ero dimenticata che di notte nel cielo ci sono le stelle, grosse e luminose, infinite che non potrai mai contarle. Il fatto è che sulla strada del ritorno, per far spazio ad un’altra macchina, mia mamma ha valorosamente condotto la nostra anziana Fiat Tipo su un sasso ben acuminato e sbam!, la ruota non ha resistito e s’è squarciata e siamo rimaste bloccate in aperta e profonda campagna, io zoppa ed impossibilitata a fare sforzi, lei incapace di cambiare la ruota col ruotino. A breve arriverà V. il Corto che è un amico di mio papà ed è corto per davvero, ma è un brav’uomo e le ruote le sa cambiare, per di più fa il meccanico e alla sera va a ballare i balli di gruppo. Nessun problema, aspetteremo, nel mentre s’è fatta notte ed io guardo le stelle, disegno il Grande Carro ed il Piccolo e canto Mr. Mandarino, muovendomi solo dalle vita in su, e sono felice un po’, un bel po’ al punto tale che quando arriva V. il Corto gli darò un bacino sulla cocozza pelata, ci sta davvero.
Domani esondo.