Soffio
luglio 16, 2014
Mood: mite in superficie
Listening to: Radiodervish – In fondo ai tuoi occhi
Watching: le previsioni del tempo
Eating: panzerotti
Drinking: birra
Italy, Province of Bari, 15 July 2014. Soffio.
Forse è sciocco, ma Sofia, a guardarla, mi dimostra come ogni cosa al mondo sia bellezza perché bellezza è tutto ciò che la rende possibile e lei è microcosmo: quando mi respira in mezzo agli occhi e nella bocca, Sofia soffia come vento tra l’erba e il cielo, mi smuove avanti e indietro e mi riposa, soffia Soffio, continua a soffiare.
La nuova epoca
gennaio 7, 2014
Mood: sovraccarico
Reading: Jack Kerouac, On the road
Listening to: The Strokes – Alone, Together
Watching: The Young and Prodigious T.S. Spivet di Jean-Pierre Jeunet
Eating: tiramisù
Drinking: caffè
Il 2014 mi ha raggiunta da qualche parte a Utrecht tra i tetti a falde inclinate, ritta e incerta sotto la distesa del cielo su una lingua snella d’acciaio che, passando per un abbaino, si lanciava da una mansarda in festa all’imbocco di una scala antincendio tubiforme da dove piombava all’infinito nel buio inchiostrato. Ci si doveva stare a gruppi di cinque su questo corridoio al firmamento tanto era stretto. Quelli per cui non c’era spazio aspettavano che arrivasse il loro turno all’interno, scolandosi una bottiglia di vino rosso con andamento circolare e dissertando sull’esistenza con accuratezza filosofica.
A me andava benone stare fuori. Il cielo era costellato dai fuochi d’artificio, un gran casino. Scoppiavano e sfrigolavano a migliaia tutt’attorno all’orizzonte basso, basso con la sola difformità da centododici metri della torre del Duomo, una linea lunga e continua inguainata dalla luce arancione dei lampioni cittadini e dai getti rosso, oro, verde, azzurro. A ogni detonazione, la massa dell’aria satura di zolfo si contraeva e si rigonfiava fino alla massima tensione possibile, andava vicinissima a crepare, ma nella magnificazione dei bagliori di luce a seguire si ripiegava su se stessa e gioiva delle stesse fantasticherie notturne che fino a poco prima l’avevano addolorata. Il vento trasportava il fumo che restava, insieme alle lanterne cinesi, tanto fumo che generava foschia. E pioveva, una pioggia leggera e battente come fosse vapore atmosferico.
A poco a poco mi sono infradiciata e, forse a causa dello scialle di lana che zuppo d’acqua com’era mi procurava un prurito disumano contro il collo, ho desiderato per un momento di trovarmi all’interno di quella sala candida fiocamente illuminata che sfuggiva al ritaglio di una grande finestra in basso al lato opposto della strada, una sala senza tracce umane con un lungo tavolo sgombro e più in là lo scorcio di un camino acceso, ho sognato di stare nuda accanto al fuoco, allungata sul pavimento con gli occhi al soffitto statico e le orecchie al crepitio delle fiamme. Il che però sarebbe stato infruttuoso in una notte come quella, lo sapevo fin troppo bene.
Dalla mia posizione privilegiata in alto sulla città, mi sentivo al limitare estremo del mondo, intendo lontana dal nocciolo primordiale dell’esistenza, eppure, per la prima volta dopo tanti mesi insignificanti, intimamente e violentemente vicina a tutto. I fuochi d’artificio germogliavano in mezzo ai tetti circostanti e, sibilando, si slanciavano sottili e veloci verso il firmamento che mi sovrastava, ne puntavano il centro per sbocciarmi sulla testa in un tripudio di luce e colore. Erano una moltitudine in festa, l’insieme ricordava un flusso caparbio di spermatozoi. E io, al centro, un grande ovulo universale. Tutto ancora era concepibile e tutto poteva succedere. Bisognava solo che mi lasciassi vivere, predisponendomi a accoglierne la sostanza e a nutrirne la bellezza. Sentivo gli occhi ricolmi di stupore. Eccola, la nuova epoca. Il mio basso ventre eccitato lo comprovava. Voglio dire, è nello stupore la nuova epoca.
***
A Eta che ha a cuore – sempre – la mia nuova epoca.
Milano sotto la neve
dicembre 17, 2012
Mood: fiducioso
Listening to: Soley – Pretty face
Watching: Cosmopolis di David Cronenberg
Eating: aria fredda
Drinking: te miele e camomilla
Ho imparato a non confondere mai i luoghi come li percepisco per i luoghi così come sono perché so benissimo che, quando circolano attraverso le mie emozioni, diventano sempre posti vaghi. Questo è un presupposto fondamentale.
Ecco, per la prima volta, Milano non mi sembra un esilio.
Di solito sì.
Milano sotto la neve.
Provo invece un estremo senso di levità e mi emoziono per un sacco di cose al punto che potrei piangere su ognuna di loro. Spesso sono macerie. Per esempio, mi chiedo, guardandole, esattamente cosa c’è di così orrendo nelle rovine se sono state necessarie a rendere possibile quanto di più bello ho conquistato dopo aver perso tutto quello che avevo prima di perdere tutto?
Milano sotto la neve.
Le macerie uno strato sotto i miei piedi.
Io al di sopra, che passo. Piano.
Si capisce, ho incrociato tutto quello che avevo prima di perdere tutto e, per la prima volta, l’idea di non poterlo avere mai più non è stata desolante. Tutt’altro. Mi ha consolata.
Holland, 8 am
ottobre 19, 2012
Mood: ansiogenato
Reading: Ercole Visconti, Parole illuminanti
Listening to: fringuellii e cinguettii
Watching: il sole, finalmente dopo giorni e giorni di pioggia
Playing: a dis-ansiogenarmi
Eating: involtini di melanzane
Drinking: latte e cioccolato, che domande?!
Holland, Rijswijk, 19 ottobre 2012, 8 am
È evidente che, negli ultimi giorni, sto esercitando le facoltà del silenzio più che quelle della parola. Allo stesso tempo, ho l’impressione di comunicare tante e tante cose.
Ma con buone probabilità si tratta soltanto di una mia impressione [non sarebbe la prima volta].
Finestre
ottobre 18, 2012
Mood: squilibrato
Reading: Ercole Visconti, Parole illuminanti
Listening to: il ticchettio dell’orologio della cucina, passi sul ballatoio, papà che dorme in camera da letto
Watching: Rune Guneriussen’s photography
Playing: a scontornare salamelle e caciottine in photoshop, alias le gioie del mio lavoro
Eating: torta al limone
Drinking: acqua
Holland, Rijswijk, my own home, 15 ottobre 2012
Holland, Utrecht, Eta‘s home, 17 ottobre 2012
Joseph Conrad si domandava come fare a spiegare a sua moglie che quando guardava fuori dalla finestra stava lavorando.
*
Io in questi ultimi giorni sto lavorando tantissimo.
Non faccio molto altro.
*
Nello specifico, le grandi finestre olandesi restano il trip per eccellenza.
*
[Forse] è arrivata la suggestione che mi mancava.
[Forseforse] l’idea.
*
Sono un po’ più felice.
Io il giorno che muoio
agosto 13, 2012
Mood: tra felicità e nostalgia per un tempo che non c’è più
Listening to: deliri adolescenziali alla barese sull’autobus Bari-Castellana Grotte
Watching: certi volti lasciati sul pullman Bari-Castellana Grotte sei anni fa e ritrovati allo stesso identico posto
Playing: a sorridere per non .
Eating: panzerotto al forno
Drinking: birrino peroncino
Io il giorno che muoio avrò vissuto una vita bellissima anche se oggi non so dire bellissima in che modo esistono mille e un modo d’essere “bellissima”, sarò vecchissima con i capelli bianchissimi e un mare di rughe profondissime sulla pelle una per ognuna delle cose che avrò vissuto e avrò vissuto mille e una cosa camminato su mille e una terra sotto mille e una pioggia e io il giorno che muoio tutte queste mille e una cosa mi cascheranno fino ai piedi dagli occhi grandissimi che diranno invece della bocca per fare silenzio sentire com’è la morte quando arriva la vita tutta fino all’ultimissimo respiro quando smette, guarderò il cielo ci saranno un drago bianchissimo d’ovatta che insegue un porcello bianchissimo d’ovatta e un colibrì che intreccia una corona con le corde rossissime del mio cuore sfiatatissimo, mi succhierò il pollice paffutellissimo, mi accoccolerò tra i miei capelli bianchissimi mi addormenterò nell’utero di mia madre e tutto sarà come non so dire, ma ne sono certa io il giorno che muoio avrò vissuto una vita bellissima.
[Nove Agosto Duemilaundici, sera quasi notte,
autobus Bari-Triggiano-Capurso-Noicattaro-Rutigliano-Conversano-Castellana Grotte, casa dove sono stata bambina-ragazza, letto, profumo.
Tra le bozze del cellulare.]
“Il mio vecchio cuore, quello con cui mi sono innomorato”
luglio 11, 2012
Mood: instabile
Reading: Jonathan Safran Foer, Ogni cosa è illuminata
Listening to: The Platters – Only You
Watching: il temporale
Playing: a ungermi di cortisone dopo che uno stuolo di zanzare ha fatto strage di me
Eating: melone
Drinking: acqua
“Questa sera vado a letto desideroso di frugare nel cestino della passione, fra i ricordi e i sogni. Voglio vedere cosa resta del mio vecchio cuore, quello con cui mi sono innomorato.”
[Mathias Malzieu, La meccanica del cuore]
Qualche pezzetto ne è rimasto sotto il cuscino insieme a tutte le cose preziose che ci nascondo fin da quando ero minuscola un pollice e credevo che nel torpore tutte le cose preziose nascoste sotto il cuscino parlassero ai miei sogni li persuadessero a non turbarmi e da allora negli anni il mucchietto è cresciuto ha assunto una morfologia assai consistente e dinoccolata al punto che quando ci appoggio sopra la testa devo farlo con leggerezza per non frantumare o riattizzare alcunché.
Quelle volte in cui succede che sono maldestra, i pezzetti del mio vecchio cuore si mettono a cigolare un sacco a perdere ruggine pieni come sono di condotti di sutura raffazzonati alla meglio più che di capillari ostruiti e rinsecchiti, a farmi male a piantarmi nel petto gli antichi lamenti d’amore di chi tanto amando tanto senza confini noti è rimasto in attesa di una meta che non era stata prevista e implora perdono per aver tollerato di essere ridotto a sussulti e stanchezza dopo aver barattato le corde per vociare un usuale impersonale – così sembrava – e per tradizione sereno ti amo, mi manchi, voglio baciarti con le congetture magnifiche di una nuova forma essenziale scolpita a tutto tondo da rare straordinarie e per tradizione tempestose emozioni, quindi tanto meglio se faccio attenzione.
Mai avrei pensato che a causa dell’infelicità un cuore potesse consumarsi per sempre perdendo un pezzo dietro l’altro e restare in briciole nella conca dell’anca destra senza far dolore prima o poi mi riesce di rimetterlo insieme pensavo, ma dopo tanto rigirarmi per tutto il mondo tra bonzi e stregoni non ho trovato un solo pezzo di ricambio per il mio vecchio cuore vecchia scuola finito fuori serie da qualche anno, nessuna diavoleria avrebbe potuto aggiustarlo.
Perciò ho raccolto qualche pezzetto tra i più grossi rimasti del mio vecchio cuore nella conca dell’anca destra e li ho nascosti sotto il cuscino, quel po’ che restava l’ho soffiato in polvere al vento che ne avesse un po’ d’amore. Nella cava ormai vuota del mio petto ho ficcato un cuore nuovo di fiamma conquistato dopo mille fatiche in fondo a un imbuto, ho allacciato per bene vene e arterie e l’ho azionato.
Il mio nuovo cuore è un prodigio, ha una capienza esagerata dentro un assetto ben saldo e compatto ma estremamente leggero e flessibile sicché mentre pulsa tutto euforico e impaziente i flussi e i deflussi della vita intera vanno avanti e dietro avantiedietro senza che mai la sacca si svuoti o si ingombri, entrano in circolo e con quale fierezza il mio nuovo cuore mi insegna che la vita intera si percepisce nella misura di quello che si decide di accogliere abbracciare incanalare tra possibilità e pesi in atto, con quanta diplomazia svolta malumori in buonumori, eppure
Io col mio nuovo cuore non mi sono ancora mai innamorata. Sembra quasi non ne abbia bisogno tanto è sicuro di se stesso e pago del suo connubio con la vita intera, il mio nuovo cuore si direbbe innamorato del modo in cui ama.
Allora ogni tanto prima di addormentarmi sollevo il cuscino sotto il quale nascondo tutte le cose preziose fin da quando ero minuscola un pollice e rovisto tra i pezzetti rimasti del mio vecchio cuore, del mondo che rappresentava che avevo dove stavo e che non esiste più, resto un po’ in ascolto dei cigolii come della nenia scordata di un carillon di quelli con la ballerina dagli arti sottili che si gira attorno in punta di piede per meccanica reiterazione senz’anima,
poi tutti i pezzetti rimasti del mio vecchio cuore li nascondo di nuovo sotto il cuscino tra le altre cose preziose e vado via per il mondo ‘ché c’è ancora tutto da fare e più che del mio vecchio cuore col quale mi sono innamorata, più che del mondo che rappresentava che avevo dove stavo e che non esiste più non voglio più, io ho bisogno di sentire le emozioni vivide ed espanse di quando sono innamorata. E io col mio nuovo cuore non mi sono ancora mai innamorata,
ho bisogno di pensare che posso ancora innamorarmi che a irrigidirmi non è la paura del mio vecchio cuore in polvere e pezzetti, quello con cui mi sono innamorata.
Che con tutti i flussi e i deflussi della vita intera che fa andare avanti e dietro avantiedietro entrare in circolo prima o poi il mio nuovo cuore, quello con cui non mi sono ancora mai innamorata, busserà al petto e mi dirà ci siamo innamorati.
[2 luglio, non a caso]
***
Comunque sulle pagine de La meccanica del cuore di Mathias Malzieu ho pianto senza risparmiare lacrime ‘ché tanto sulle lacrime la crisi mondiale non prevede tagli. L’ultimo libro che era riuscito a coinvolgermi a tal punto è stato Che tu sia per me il coltello di David Grossman. È successo quasi quattro anni fa ormai, avevo ancora il mio vecchio cuore. In verità, sulle pagine de La meccanica del cuore ho pianto senza risparmiare lacrime per la prima volta da quando ho il mio nuovo cuore.
Insomma, tanto per fare un po’ di vendita promozionale che in certi casi è doverosa.
Dyonisus è il gruppo di cui Mathias Malzieu è frontman e cantante solista. La mécanique du cœur è il disco con il quale mettono in musica l’immaginario del libro.
Soltanto
Maggio 24, 2012
Mood: rintontito, ma soddisfatto
Reading: Amélie Nothomb, Metafisica dei tubi
Listening to: Devendra Banhart – Baby
Watching: disordini domestici
Playing: su un nuovo set di cui Lou scrive qualcosa qui
Drinking: acqua, tanta per alleviare il raffreddore
Eating: macine con nutella
Strano è che dopo giorni e giorni e giorni – e giorni? – a tentare di esprimere [qualcosa di più], alla fine, tutto ciò che mi torna in mente è questa fotografia ancora sempre e soltanto.
“Soltanto” non è qualcosa che è meno di qualcos’altro. “Soltanto” è qualcosa che è un tutto tondo.
Ragion per cui così tanto strano non è che dopo giorni e giorni e giorni – e giorni? – a tentare di esprimere [qualcosa di più], alla fine, tutto ciò che mi torna in mente è questa fotografia ancora sempre e soltanto.
La verità è che per il momento l’horror vacui l’assenza nel mondo di tracce di macchie di me medesima a caratteri vivi bianco su nero nero su bianco non mi turba affatto tutt’altro, ma di questo scriverò ai primi sintomi di necessità suppongo qualcuno si sia già manifestato se stasera sono qui
è perché
[…]
Nella fotografia che mi torna in mente ancora sempre e soltanto, Nicolò e il suo fantoccio alto due metri e più di nome Fantoccio.
Centri-fughe // Un Autoritratto Provvisorio V – Gennaio 2012
febbraio 1, 2012
Mood: quello di quando neanche il dizionario della lingua italiana contiene un termine adeguato
Listening to: la sospensione sonora di Milano sotto la neve
Watching: le distese di bianco che non mi spaventano più tantotroppo
Eating: biscotti di riso
Drinking: caffelatte
Assente
Avevo una suggestione, tipo
Mi sembra chiaro abbastanza.
Ma
– segue una lista infinita da ma –
non siamo qui per annoiarci con i ma quelli di sempre.
Me lo tengo come post-it tra le sinapsi
– uno in più di certo non farà capitombolare la situazione. –
Come I sei personaggi in cerca di autore di Pirandello.
Chissà che prima o poi non mi riesca di staccarlo.
La puttana sacra
dicembre 10, 2011
Mood: sereno
Reading: Bruce Chatwin, Che ci faccio qui?
Listening to: Robyn – Dancing On My Own
Watching: il cielo su Milano
Eating: risotto radicchio e panna, devo ancora digerirlo
Drinking: caffè
Ho il presentimento che passerà ancora molto tempo prima che il mio impulso migratorio possa dirsi concluso o, se non altro, meno pressante. Scrive Bruce Chatwin, il viaggiatore per eccellenza – grazie a Mariano per avermene parlato – che ‹‹tutti i grandi maestri hanno predicato che in origine l’Uomo “peregrinava per il deserto arido e infuocato di questo mondo” […] e che per riscoprire la sua umanità egli deve liberarsi dei legami e mettersi in cammino.›› Così io che ho ancora molti garbugli tra le sinapsi, non riesco ad accettare la sedentarietà senza essere inquieta e irrequieta, senza domandarmi Cosa ci faccio qui?, dal momento che il viaggio è la strategia con cui vivo e do (nuova) forma la confusione della mia mente. Perché, come scrive Kerouac, ‹‹A me piacciono troppe cose e io mi ritrovo sempre confuso e impegolato a correre da una stella cadente all’altra finché non precipito. Questa è la notte e quel che ti combina. Non avevo niente da offrire a nessuno eccetto la mia stessa confusione.››
Così, approfittando del ponte milanese Sant’Ambrogio-Otto dicembre, ho calciato con forza tutto il lavoro in un angolo e sono volata a Roma.
Negli ultimi mesi sono stata nella capitale più di una volta, in primo luogo per godere del calore di un’amicizia che mi accompagna dalla pre-adolescenza, malgrado la distanza. Va da sé quanto questo possa essere sufficiente alle volte.
Ma, derivando di viale in vicolo senza parole di troppo, Roma mi ha anche attratta per il suo essere.
Me ne stavo un giorno ai piedi del Pantheon e iniziava appena a farsi sera. Ammucchiavo nella cassa toracica i fusti possenti delle colonne e le gambe veloci dei passanti, l’epigrafe M.Agrippa L.F.Cos. Tertium.Fecit e le melodie di una chiatarra elettrica e di uno xilofono incrociate al brusio insistente degli avventori ai tavolini dei locali, i fori del timpano per i bronzi che non ci sono più e l’isteria delle macchine fotografiche, dei tablet e dei cellulari per fotografare anche il sampietrino più nascosto. Accatastavo tutto in soluzione di continuità, con una ritualità misterica e profana che mi infastidiva e mi rasserenava allo stesso tempo.
In un istante di estasi, ho afferrato la consapevolezza che Roma mi affascina proprio perché si ammanta del contrasto e della simbiosi tra la pietra viva dei secoli e l’ansia metropolitana di un giorno qualunque. Perché indossa una veste da puttana sacra.
Di età in età, Roma è impazzita di vita, ha bruciato senza tregua o negazione ed è esplosa come una fontana d’artificio. Le sue memorie hanno superato il tempo e affiorano tra le crepe dell’asfalto, monche e meravigliose da togliere il respiro, traspirano l’emozione, l’ambizione e l’illusione romantica e tipicamente umana dell’eternità. Eppure oggi, queste stesse memorie affogano in mezzo alla disattenzione e all’incuria urbanistica e turistica. Aggirando di pochissimo i luoghi comuni, Roma non dissimula la stanchezza e la corruzione che i secoli le hanno inflitto e languisce a gambe aperte, mostrando il sorriso sdentato e nostalgico di chi si imbelletta al mattino con la gloria del passato ed esce in strada reggendosi ad una stampella, senza più un sentimento soltanto di rivalsa.
È intimamente umana, Roma, il suo tracciato cardiaco assomiglia a quello dei miei pensieri. A volte, quando le inchiodo gli occhi addosso, mi sembra di essere allo specchio. Per questo mi attrae. Mi attrae a sé per le viscere e mi sbatte, centrifugando i pensieri e sparpagliandoli nel vento tanto rapidamente da lasciarmi su un marciapiedi, sfiancata per la lotta e svuotata all’improvviso come se avessi sudato veleno. Allora l’aria frizzante di pino torna a farsi spazio tra le carcasse dei muscoli e delle ossa ed è l’idillio della catarsi.
Per adesso, tre foto e basta. Concessioni tempistiche premettendo, ci sono buone probabilità che mi metta a lavorare più organicamente sul corpus di scatti romani che ho messo in saccoccia negli ultimi mesi. Perciò tengo tutto al caldo per un po’ ancora.
Istinti alla Sopravvivenza
agosto 16, 2011
Mood: sereno
Reading: Salvador Dalì, La mia vita segreta
Listening to: Woodkid – Iron
Watching: tante cose e tutte insieme
Playing: ad ascoltare quello che sta gravitando attorno al cuore, senza preoccuparmi di capirlo
Eating: gnocchettizucchinepomodori
Drinking: caffè

Portrait [Photo by Nicolò]
Mi chiedo se le scarpe ti si appesantirebbero, sapendo che ti ho mentito istintivamente con un ‹‹Rientrerò più tardi per motivi di lavoro›› piuttosto che ‹‹Rientrerò più tardi perché per la prima volta dopo anni mi guardo dentro e mi riscopro felice e con le cicatrici nell’anima distese››.
In tutta onestà, a me le scarpe si sono appesantite e parecchio, constatando una tua certa tendenza a svalutare la misura della felicità nella vita di ciascuno e a reputare la mia felicità una cosa buona e giusta solo per essere istintivamente rinfacciata e raggelata.
Lo capisco, è istinto alla sopravvivenza la mia ricerca della felicità, è istinto alla sopravvivenza anche il tuo adattamento all’assenza della felicità. Perciò mi chiedo se capirai, ma non me la sono affatto sentita di essere onesta.
Pasquetta sulla 90
aprile 26, 2011
Mood: sereno
Listening to: Sade – Pearls
Playing: a rimettere in ordine la mia casa, i miei oggetti, il mio mondo fisico e metafisico per ritrovare il mio spazio e tornare a starci bene
Eating: effettivamente avrei una certa fame, ma sono pur sempre le 3.00 a.m.
Drinking: acqua fresca a gogò
Pasquetta sulla 90 non è il titolo del nuovo porno-film di Rocco Siffredi, ma la dinamica della mia Pasquetta e, per togliere ogni dubbio, la 90 in questo frangente non è una posizione del Kamasutra, ma la circolare destra di Milano.
Con la 90 oggi sono tornata dall’aereoporto di Linate, dove ho pranzato con mio papà di passaggio a Milano sul volo Bari-Amsterdam e mi sembrava una cosa strana, ma bella l’incontro si sfuggita in aereoporto, la vita in aereoporto, la gente che viene e la gente che va, i voli in partenza e quelli in arrivo e il mio papà e io insieme per un momento di pausa-racconto prima di riprendere ciascuno con la propria vita. Mi sono messa i tacchi per l’occasione, mi sono truccata e sistemata per bene i capelli e vestita con una maglia bella ed ampia e la borsa nuova e i pantaloni attillati un po’ anche perché lui pensasse che sua figlia si sta facendo una bella donna, non una ragazzina sciupata dalle cattive abitudini dure a morire. Abbiamo chiacchierato e lui non ha fatto domande, ma io ho parlato, gli ho raccontato di me e lui non ha detto niente, ma sono certa che mi ha ascoltata e allora gli ho fatto le coccole. Sulla 90 me la sorridevo al pensiero del mio papà ché, per la prima volta da quando sono andata via dal nido materno, non m’è parso di ritrovarlo invecchiato, anzi più bello, finalmente più sereno, meno schiacciato dalle preoccupazioni del vivere quotidiano.
Sempre sulla 90 ho prestato orecchio ad un vecchio che sbraitata contro Hitler e la bomba atomica e i milioni di morti provocati dalla guerra, ho visto di sfuggita i parchi pieni di gente e il sole uscire dalle nuvole e ritrarsi, ho condiviso con una strana bimbetta olivastra i cioccolatini che mi ha mandato la mamma insieme al papà, ho canticchiato Bella Ciao insieme a due ragazzotti ‘mbriaghi di vin rosso ché oggi era anche il Giorno della Liberazione, mica solo Pasquetta e immersa negli umori e nelle voci lanciati sulla strada ho pensato che, a conti fatti, stavo bene anche così, io in mezzo al mondo, senza nulla e nessuno aggiungere, io in mezzo agli altri, ferma ad osservare i dettagli, i libri tra le mani e lo spessore delle tasche rigonfie e le linee delle mani e il peso degli sguardi estranei, io senza pretese, affrancata dall’ingombro delle aspettative relazionali e delle abitudini affettive, libera di scivolare senza peso nella vita degli altri e trarre dalla matassa dell’esistente i fili invisibili di storie e legami e relazioni e annodarli tra di loro stabilendo distanza e vicinanza, libera di immaginare tutto dal principio ed ancora innamorarmi dell’ignoto.
Di fratture
aprile 25, 2011
Mood: propositivo convinto
Listening to: Meg – Distante
Watching: la muffa che, in cinque giorni di assenza da casa, è proliferata nel frigorifero staccato per errore con tanto di ultimi rifornimenti alimentari all’interno
Sniffing (eccezionalmente): l’aroma soave di un miscuglio di alimenti andato a male
Playing: ad alzare il volume della musica per ballare
Eating: minestrone di quello che restava dopo la catastrofe frugorifero e domani è un’incognita
Drinking: acqua
Il soggetto nella foto è un’opera di Sissi esposta da FaMa Gallery al MiArt 2011
«Mi dia la sua mano. Sa cosa c’è qui?
C’è il mio cuore. Ed è spezzato.»
[Alfonso Cuaròn, Paradiso Perduto]
Di buffo c’è che, accovacciata su una sponda della frattura, ho sorriso rasserenata. Mi è venuto da pensare che da lì dove ora lacrimo sangue, esattamente da lì e da nessun altrove, quando il tempo avrà fatto il suo giro terapeutico e avrò assimilato ragioni e sentimento, all’improvviso non potrà che irrompere l’ossigeno per reazione, incapperà nel varco e rimbalzerà tra le pareti, troverando libero il percorso verso i vasi sanguigni.
Ed è stato un bel pensiero.
Storie del Vecchio Sud // Intanto Ri-generarsi
aprile 18, 2011
Mood: stabilmente instabile
Listening to: Gianluca Grignani – L’aiuola con Zulio a tutto volume sulla Vicenza-Milano
Playing: il gioco della felicità
Eating: Asiago
Drinking: acqua
Fuori dal centro abitato del paesello in cui sono nata, le strade sfuggono con naturalezza nell’aperta campagna, disconnesse e sempre più ristrette tra i muretti a secco diroccati che due macchine insieme spesso non ci si passa. La partitura del paesaggio muta gradualmente, il verde dei prati e delle fronde degli alberi si infiltra nel grigio fino a fagocitarlo, e così il viola del glicine abbarbicato tra i massi, il giallo e l’arancione delle macchie di margheritine ed il marrone del terreno arato di fresco, il rosa del fiore del pesco e il bianco di quello del ciliegio e l’argento delle foglie d’ulivo e l’azzurro del cielo terso con il tempo, si sa, muterà ancora tutto, aspetto e colori.
Da bambina, scorazzavo in questi campi a briglia sciolta, i miei nonni materni avevano costruito masso su masso una grande casa bianca in mezzo ad un oceano di terra e mio nonno ci urlava dietro perché a correre a piedi nudi gli rovinavamo il solco e a costruire le casette con le casse di plastica gli mettevamo tutto in disordine e da dire ce ne sarebbe sui nostri giochi invasati e sordi a qualsiasi minaccia.
Tornandoci, dopo mesi di vita milanese trascorsi a fissare senza amore palazzi più o meno elevati e vetrine e traffico, sulle prime mi sembra di non cogliere la realtà di quello che sto vedendo, ma che begli scenari in questo sogno ad occhi aperti, persino il cielo ha colore! Poi con il trascorrere dei minuti, il respiro dei campi, pulito e leggero, mi solletica la gola e si dà alla discesa verso il cuore, lo gonfia e lo incalza, lo rianima, c’è odore di terra, di petali infastiditi dal venticello, di acqua e di pietra, ci sono la terra, i petali infastiditi dal venticello, l’acqua e la pietra, mi emoziono timidamente.
Poi in fondo ad una discesa, incorniciata dalle fronde degli alberi, si schiude la visione sublime di dolci declivi verdi disseminati da piccoli agglomerati sbiancati nella luce piatta di metà pomeriggio, è un colpo all’anima, com’è possibile che esista ancora tanta bellezza? Il fatto è che la natura resiste anche se ferita, l’uomo con tutti i suoi conti in tasca non si sa per quanto.
L. abita due svolte in là, in una casa col porticato in legno, affacciato su un giardinetto sul quale lei stessa profonde amore, coltivando fiori e piante d’ogni genere che, crescendo, s’aggrovigliano tra loro, e sembra una piccola giungla. In uno studiolo ricavato da uno spazio di troppo, L. pratica la tradizione degli aggiustaossa, della pronoterapia e della riflessologia plantare. «I piedi parlano», mi ha detto ed ho sorriso io, io che ho sempre un po’ tanto creduto che la vita passi attraverso i piedi, il passo, il modo in cui la pianta si arpiona al suolo, la penetra, la scava, nei luoghi che segna, è questione di pesi, di ritmi, di umori. Io che da qualche mese stavo affrontando la vita con un passo zoppicante a causa di un paio di faccende emotive e, guarda caso, dell’alluce destro accartocciato su se stesso, senza particolari spiegazioni, «ossa accavallate in calcificazione con principio di alluce valgo, un calcio o un passo a vuoto», mi ha detto più tardi L. mentre, pian, piano, riportava tutto al posto giusto ed io sentivo il piede allungarsi e rilassarsi e sì, ora lo poggio di nuovo per terra e, a volerla dire tutta, la radiografia e l’ecografia del giorno dopo non sono state in grado di rilevare alcun tipo di malformazione e semplicemente perché non c’era più.
La gente del circondario spesso conosce L. come Anselma, in verità la gente del circondario conosce l’intera zona come “Àbbasce ad Anselm” (“Giù ad Anselma”). Anselma era un’istituzione in questioni di ossa a spasso da riportare a casa ed abitava appena qualche metro in là rispetto a L.
Da bambina, Anselma mi ha rimessa a posto centinaia di volte, ché io ero pazzerella ed una volta ruzzolavo giù da un albero, un’altra cadevo dalla bicicletta e mi incastravo nella raggiera della bicicletta, un’altra ancora perdevo l’orientamento mentre facevo una ruota dietro l’altra con una sola mano e finivo contro un muro, fatto sta che mi ritrovavo sempre con un piede, una caviglia, un braccio, qualche dito dis-locato. Aveva l’odore della terra, Anselma, ricurva su se stessa e nodosa come la radice di un ulivo secolare e scura e segnata come un suolo riarso dal sole. Aveva raccolto tutta la forza e l’energia nelle mani, scheletriche e lunghissime, e la si avvertiva fisicamente quando premeva a fondo tra i muscoli e le ossa, poi cranck, tessuti distesi, «È a posto», e in verità Anselma parlava un dialetto che mi era incomprensibile. Non ha mai imposto pagamenti in moneta, ricordo che a mio papà chiedeva pale da camino e non ho mai capito bene per quale motivo, comunque qualcosa a che fare con mio nonno. E il suo camino era nero, nerissimo, nero fuliggine, lo fissavo e mi ci perdevo mentre muscoli ed ossa si spostavano sotto le sue dita e stringevo le labbra tra i denti, ché fiatare il dolore lo reputavo infantile anche quand’ero una poppante
A volte mi sembra impossibile incontrare tutt’oggi per strada gente che ritenga Anselma ancora viva, non c’è più da così tanto tempo, ma se è vero che si vive agitati nella memoria, effettivamente Anselma è viva, altroché se è viva!
Il caso aveva voluto che Anselma e L. fossero l’una per l’altra suocera e nuora. Ma Anselma non ha insegnato nulla a L., lo si avverte nelle loro mani. Della terra, Anselma aveva anche l’asprezza e la rudezza, mentre nelle mani di L. non si incontra mai un gesto disattento o maldestro, mai nella sua voce un tono acuto o sbrigativo, «la dolcezza, non provoca dolore», mi ha detto, la dolcezza è la cura, l’ha imparato con i polletti e le galline e i conigli ed i vitelli quand’era bambina, prendendosene cura se erano inquieti, massaggiandoli e curandoli se si facevano male e loro continuavano a crescere e la riconoscevano, la amavano. Ad ascoltarne i racconti, il cuore incalza il sangue velocemente, «Ho un cuore anch’io, solo è diversamente abile», come posso aver pensato che mi si fosse essiccato?, era solo sopito, annichilito, corroso, mi emoziono timidamente.
Insomma, lo so, una serie di cosette degne di scetticismo e che la medicina ufficiale spara a vista come cialtroneria, ignoranza e via elencando e certamente di truffe ce n’è a palate in giro, ma quello che la pura razionalità non sa valutare è l’istintività animale di un corpo che si approccia ad un altro, carne, ossa e sangue, l’emotività di un contatto e la forza congenita in un sentimento. Dopotutto, quello che la medicina ufficiale non si spiegherà mai compitamente è il meccanismo psico-fisico dello stomaco, egguardacaso!
Mentre aspetto il mio turno, me ne sto così a ricordare e a pensucchiare insieme, semplicemente appoggiata alla staccionata che divide il terrazzino dal giardino, «Sto fuori, mamma, fuori dal bunker». Bevo tutto nei sensi, il cielo ed il sole col suo ciclo lento verso il tramonto, il percorso dei raggi che colpiscono le piante e le fanno vibrare, le armonie degli uccelli quando al calar del sole tutt’attorno la vita si quieta nel fruscio delle fronde e l’abbaiare di un cane lontano, la vecchina ricurva ad estirpare l’erba nel campo di fronte con il fazzoletto bianco a ripararsi dal sole, i nani nel terreno e i nidi tra i rami, le girandole che gorgheggiano al vento, e appena cambio la prospettiva tutto cambia, le curve delle foglie ed ogni loro oscillazione, gli arabeschi tra le nervature, la forma di una nuvola all’orizzonte, scopro dettagli che non avevo notato prima, il giallo del limone nel verde, mi immergo nel ritmo, ne divento parte integrante, un gatto grosso e dagli occhi languidi si avvicina e si procaccia carezze tra le mie gambe.
Quanto sei bella, mia terra addolorata, mia terra abbandonata, pensavo di non poter provare più meraviglia di fronte al mondo, né curiosità, come se mi avesse detto tutto e tutto male, ma che errore, un altro, come posso averlo compiuto, quand’è che ho iniziato a fare il callo alla sterilità estetica ed affettiva, quand’è che ho spento la torcia e mi sono dimenticata della bellezza, ora ne faccio scorta, ché senza mi sento soffocare, sì, sto proprio soffocando di bruttezza e non trovo rimedio, è una fuga continua e mai nessuno che alza lo sguardo e sorride e bisognerebbe fermarsi di più a meravigliarsi e a lasciarsi andare e un attimo… dov’è la lotta quotidiana dentro di me, dove sono la rabbia e l’amore e le cicatrici, dove le incertezze e le risposte agli estremi, dove lo sporco nel sangue ed ogni malsano prospetto?, ma dico, sono serena, ma dico, sto sorridendo, ma dico, ci sono e per un momento non mi sto smembrando, dico di più, sto respirando cos’è questa storia? È coscienza e insieme rapimento, ragazza, non t’accorgi che in realtà ci sei ed insieme non ci sei?, sei in un’altra condizione, lasciati andare, ragazza, lasciati andare, resta sospesa ancora un po’. Che in verità, la storia è tutta qua.
Quanto tempo sprecato a correre, nell’ultimo anno, quanto tempo sprecato a non fermarmi mai, neanche per un secondo e a chiedermi «Hei, Do, come stai?», anche solo a fare qualcosa che mi faccia piacere. A Milano davvero corrono tutti e strepitano, persino le formiche ed io assieme a loro corro e per convenienza non mi domando mai come sto e faccio respiri profondi per non piangere, respiri profondi che si schiantano come piombo sullo stomaco e lo sfondano e corro senza sosta.
Tra tutte le leggi sociali, economiche e culturali di cui si è gravato per vivere, l’uomo sembra aver condannato a damnatio memoriae proprio le dinamiche della sospensione, ma a correre sempre, lo sai, si finisce per perdere di vista la strada, ragazza, ed insieme se stessi, e a non domandarsi se stai bene, se stai male o mezz’e mezzo, si finisce per ammalarsi. Fermati, non t’accorgi che sei senza fiato? Fermati a ripescarti.
Così, mentre aspetto il mio turno, tra una svolta dei sensi e l’altra, mi domando come sto, e basta mentirsi, ti sei ammalata, ragazza, ma ammalata seria, nel profondo e ti sei persa, ragazza. Se ti domandi chi sei, dove sei, cosa vuoi, se ti domandi «Perché?» non trovi risposta che nei giorni di qualcun’altro, nel tuo essere per qualcun’altro. Ma tu, chi sei tu, dove sei, cosa vuoi per te?, ché sì, puoi ben volere anche solo per te e svegliarti domani e scoprire che tutto è cambiato e semplicemente accettarlo. Ma poi dimmi, come puoi vivere se sei prigioniera? E tu vuoi vivere, cazzo se vuoi vivere!
Non si invola all’improvviso la lotta quotidiana dentro di me, né la rabbia, né l’amore, né le cicatrici, neanche le incertezze e le risposte agli estremi e lo sporco nel sangue ed ogni malsano prospetto e dopodomani forse respirerò ancora pesante, tutte le risposte non sono in un pomeriggio, ma, mentre aspetto il mio turno, scivolo tra il rosso del tramonto che tinteggia i contorni degli alberi e gli angoli del porticato. Bisogna pur partire da qualche dove per trovare la cura per la propria malattia, e forse il sé è il dove più appropriato.
Intanto resto col naso all’insù e guardo le stelle, a vivere nell’inquinamento luminoso m’ero dimenticata che di notte nel cielo ci sono le stelle, grosse e luminose, infinite che non potrai mai contarle. Il fatto è che sulla strada del ritorno, per far spazio ad un’altra macchina, mia mamma ha valorosamente condotto la nostra anziana Fiat Tipo su un sasso ben acuminato e sbam!, la ruota non ha resistito e s’è squarciata e siamo rimaste bloccate in aperta e profonda campagna, io zoppa ed impossibilitata a fare sforzi, lei incapace di cambiare la ruota col ruotino. A breve arriverà V. il Corto che è un amico di mio papà ed è corto per davvero, ma è un brav’uomo e le ruote le sa cambiare, per di più fa il meccanico e alla sera va a ballare i balli di gruppo. Nessun problema, aspetteremo, nel mentre s’è fatta notte ed io guardo le stelle, disegno il Grande Carro ed il Piccolo e canto Mr. Mandarino, muovendomi solo dalle vita in su, e sono felice un po’, un bel po’ al punto tale che quando arriva V. il Corto gli darò un bacino sulla cocozza pelata, ci sta davvero.
Domani esondo.
***A distanza di due settimane abbondanti, ormai***
Respiro
marzo 31, 2011
Mood: sereneggiante
Listening to: il ronzio del frigorifero e lo sfrecciare di qualche macchina nel silenzio notturno
Playing: il gioco della felicità
Eating: patate duchesse
Drinking: acqua
Dentro custodisco respiri.
Bolle d’ossigeno, acciuffate col retino, strada consumando, e liberate tra i muscoli e le ossa. Immuni al mondo là fuori, immuni al tempo, le mie bolle d’ossigeno serbano solo il sereno e l’armonia di un momento di completa empatia, riecheggiano la bellezza e lambiscono l’immenso.
Ché io sono una creatura piccina, ma la mia anima ha uno spazio sconfinato e per fortuna! perché incessantemente percepisce il mondo, e si percepisce nel mondo, con il mondo ed archivia ed estetizza.
Così, nel mezzo di una disfunzione, mi guardo dentro e so dove andare a rifugiarmi, dove andare a respirare.
«Che posto è?»
«La mia terra, il mio mare.»
Ho scoperto questo lembo di terra pugliese quand’ero ancora bambina. La gente lo chiama Porto Ghiacciolo, per via delle correnti gelide che battono i fondali. A quel tempo, la spiaggia non era ancora stata colonizzata da un’orda di culotetteaddominali al rimorchio, ammassati in pochi centrimetri di sabbia, ma era frequentata dai soli pochi che ardivano attraversare i campi di pomidoro e scavalcare muretti a secco diroccati per distendersi al sole, e non c’era il bar e non c’era la musica e non c’erano le brandine, solo l’orizzonte sfumato tra il mare e il cielo e da un lato il castello con le palme in cima e dall’altro la casa segnata dalla salsedine di due anziane sorelle con le oche, i riflessi cangianti nel ritmo dei flutti e le pozze con i gamberetti, persino una vasca con le cozze, lo sciabordio del mare contro gli scogli e i fianchi delle barchette ormeggiate più al largo ed il vento tra gli spruzzi, il risucchio e il rigetto dell’acqua nella cavità sotto il castello e lo starnazzare delle oche che scendono a mare per la traversata quotidiana fino al castello.
Nel corso del tempo, in questo lembo di terra ho seminato ricordi ed emozioni forti tra i sassi e le conchiglie sul bagnasciuga e li ho intrecciati con la spuma delle onde.
Ho trascorso lunghe ore con il mio mare, a lasciarmi cullare la solitudine, a raccontargli di me e ad ascoltare di lui. Ho imparato a restare in silenzio, a respirare e ad osservare, ché il mare decisamente non lo conosci in fretta. Ho imparato a vivere la simbiosi tra la cadenza del mio respiro e la continua metamorfosi del suo, fino ad avvertirla rimbombarmi nella cassa toracica, ondata di rantoli cavernicoli, ora quieti, ora violenti. Ho imparato a lasciarmi andare e a scendere dalla superficie ai fondali, fino ad alienare la mia anima e il mio momento nel palpito incalzante del mare, sfogando le emozioni e consolando gli affanni.
Così, questo lembo di terra si è rivestito ai miei occhi di un’aura rituale. Oggi ci torno solo quando so che l’orda di culotetteaddominali al rimorchio è distante, ma venero questo lembo di terra, lo venero come liquido amniotico, lo venero quand’è silenzioso, quand’è mio, quando posso riprendere a dialogarci indisturbata e nutrire l’anima, quando mi ci immergo e torno a respirare e mi sento libera di andare ed immensa.
Domani, che poi è già oggi, torno a Sud per qualche giorno, devo risolvere alcuni problemi di salute e rilassarmi tra mia mamma e mia sorella.
Tornerò anche al mio mare, da giorni ormai ne sento il richiamo ancestrale.
Tra due ore suona la sveglia per andare in aereoporto. Magari non vado a letto e vedo l’alba. Adesso la sto aspettando con impazienza.
Tra due ore suona la sveglia per andare in aereoporto. Magari non vado a letto e vedo l’alba. Adesso la sto aspettando con impazienza.