Migratoria

giugno 24, 2014

Mood: disordinato
Reading: Bruce Chatwin, Invasioni nomadi, in Che ci faccio qui?
Listening to: Woodkid – The Great Escape
Watching: Sia – Chandelier (Official Video)
Eating: fragole
Drinking: caffè



Ci sono 2444 km tra me, la mattina specifica del 13 giugno, e me, la particolare sera del 17 giugno. Sono migrata in una notte da Rijswijk, a Rotterdam, a Gent, a Anversa, a Lille, a Londra – stop di due ore –, attraversando la Manica su un traghetto che ha costeggiando le Bianche Scogliere di Dover all’alba successiva, poi da Londra a Sheffield, a Wakefield, a Newcastle, a Edimburgo nelle prime ore della sera e indietro, tre giorni dopo, da Edimburgo a Newcastle, a Wakefield, a Sheffield, a Londra tutta una filata nel buio e da Londra a Lille, incapsulata in un autobus in un treno in un budello sotto le acque de La Manica, e poi a Anversa, a Gent, a Rotterdam, a Rijswijk, al calare del sole.

Ho portato sulle spalle il mio cosmo per 2444 km, la terra e il cielo, l’orizzonte e le sue stelle, ogni ciclo di vita, morte e rinascita. 2444 km non sono pochi. E in 2444 km sono uscita dalla vita e ci sono rientrata tante volte quante l’autobus che mi conduceva da una stazione all’altra, insieme a un carico scialbo di passeggeri più un essere umano a me caro, si è fermato ed è ripartito, di volta in volta ricompattando il mosaico di paesaggi e linee di fuga nello spazio sterile di un parcheggio già deputato a una successiva e immediata disintegrazione in nuovi paesaggi e linee di fuga, così per 2444 km.

È difficile in questa sede andare fino in fondo ai pensieri e alle emozioni del mio cosmo in quei giorni, sono complessi e riguardano troppi aspetti differenti della mia vita, ma si dà il caso che spostamenti simili a quello di cui sopra soddisfino per allegoria la mia necessità enterica di nuovi inizi: “la migrazione è di per sé un fatto rituale”, mi ricorda Chatwin, “una catarsi ʿreligiosaʾ, rivoluzionaria nel senso più stretto della parola in quanto l’atto di piantare e togliere il campo rappresenta ogni volta un nuovo inizio. Ciò spiega la violenza con cui un nomade reagisce quando qualcuno blocca le sue migrazioni. Per di più, se accettiamo la premessa che la religione sia una risposta all’inquietudine, allora il nomadismo deve soddisfare certe fondamentali aspirazioni umane che la stabilità non soddisfa.”
Il mio definiamolo nomadismo è nato, qualche anno fa, da un territorio troppo sterile perché potessi ipotizzare cosa fosse un sereno appagamento, il riguardo nei confronti di me stessa che è una cosa meno fine a se stessa di quanto possa sembrare. Per quel che mi riguarda, il movimento è metabolismo. Inizia di solito con un certo imbarazzo, se non proprio con la fame o con un’indigestione violenta. Di conseguenza, non posso far altro che spostarmi, pena la morte per astinenza subita o auto inflitta nel tentativo angoscioso di ritrovare la leggerezza. Mi lascio dietro qualcosa a ogni fermata e nuova partenza, è un dato di fatto che il movimento innesca le reazioni chimiche e fisiche di degradazione e trasformazione della materia e che allo stesso tempo, se non per concausa, sintetizza e libera nuove energie, alimentando lo spirito a nuove prospettive. Tutti i miei stati migliori li partorisco alla fine viaggiando, quando creo spazio espandendomi. C’è in questa formula qualcosa che tanto mi consola quanto mi eccita ed è nel cuneo tra queste due impressioni che respira la mia serenità.

Avrei potuto prendere un aereo: Amsterdam-Edimburgo, avendo fondamentalmente bisogno di essere a Edimburgo il 15 giugno in occasione della proiezione di Dreamer all’Edinburgh Short Film Festival. Ma avvertivo di più l’esigenza particolare di un passaggio intorno alla geografia delle mie emozioni e così ho rivendicato come miei 2444 km totali dentro un autobus. Credo volessi stremarmi, scivolarmi fino al limite delle mie sensazioni, abbandonata come sarei stata di fatto a un movimento organizzato e immutabile nell’alcova fastidiosa di una poltroncina strizzata tra cento altre.
Si aggiunga che allo stesso tempo io abbia avuto l’opportunità di segnare un percorso predisposto, di intaccarlo con decisione e questo perché i 2444 km che ho appena compiuto non sono stati per me un percorso a caso, piuttosto un sentiero che ha collegato alcuni dei luoghi e degli esseri umani che, in momenti molto diversi, sono stati tra i più fecondi e sui quali riverso un particolare attaccamento affettivo. Mi piacciono gli spazi del ritorno perché fanno luce sul presente e a loro volta si fanno illuminare da esso: in questo modo diventano la prova visibile dell’intreccio delle migliaia di vie del sentire e la vita si arricchisce all’istante col senso del cambiamento che è quando realizziamo di essere, esseri umani – materia emotiva – all’interno di un intrinseco processo evolutivo senza fine, processo evolutivo noi stessi, atto nobile di libertà spirituale.
Riconosco in questa visione dei fatti il mio impulso tenace a travalicare, forse anche a travalicarmi. Come se un giorno potessi salirmi in cima e da lì sopra stare a guardarmi,

mi sto guardando.


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Scotland, Edinburgh, Arthur’s seat, 16 June 2014,
tre mesi esatti dopo la prima scalata.

Strutture essenziali

marzo 31, 2014

Mood: zen
Reading: Margaret Mazzantini, Venuto al Mondo
Listening to: Meg – Succhio Luce
Watching: The Grand Budapest Hotel di Wes Anderson
Eating: con la cannuccia
Drinking: caffè con cannuccia



Comunque vada e ovunque vada, l’artefice della propria vita che si trovi a tras-locare dalla benevola condizione della sua normalità a una realtà del tutto nuova si darà con vigore a ricostituire la forma ideale del proprio spazio esistenziale, essendone mosso il desiderio dalla necessità nonché dalla nostalgia.

Un anno fa ero appena arrivata in Olanda, un anno lento e pesante che ha richiesto uno sforzo esagerato alle mie risorse di entusiasmo. Vivevo all’epoca una specie di atarassia trasformatasi in inadeguatezza sensoriale nei mesi seguenti. Mi aspettavo che in capo a qualche settimana tutta la mia vita si sarebbe riconformata e non soltanto con l’assolvimento dei fatti burocratici, un indirizzo civico e qualche lavoro temporaneo, quanto piuttosto attorno a piccoli embrioni di rapporti e circostanze ideali. Per un lungo periodo di tempo le cose non sono state elettrizzanti. Trovavo la situazione particolarmente frustrante. Mi sembrava che la vita si svolgesse troppo lontana da me. E ci sarebbe da dire che mortificavo i miei piccoli ottenimenti quotidiani tanto più mi crucciavo con l’aspettativa di qualcosa di meglio. Intanto, ne smuovevo di cose e di cose ne accadevano!
L’ho compreso in un abbraccio. Non uno come quelli di circostanza, ma un abbraccio così d’impulso da essere totalmente fuori luogo: una sera in un ristorante fra gente sconosciuta, mentre servo ai tavoli un pasto dietro l’altro tre per volta, bottiglie di vino e vassoi di bicchieri instabili. L’imprevedibilità dell’evento ha di che svuotarmi da ogni asprezza. Mi sento in pace. Respiro stretta contro una spalla amica in Olanda e a mia volta stringo forte.
Ho realizzato in questo momento che, dozzine di volte nel corso dell’ultimo anno, ho sentito mancarmi gli abbracci, chi si muove poco dalle proprie amicizie e consuetudini più preziose farà fatica a immaginarlo.

La mia struttura essenziale – da giorni ci penso – è quella dell’abbraccio. Un abbraccio è un insieme, intendo una forma di più elementi che, sebbene preesistenti singolarmente all’insieme, insieme determinano un nuovo carattere. In questo senso, nella tensione rotonda di un abbraccio coesistono una domanda e una risposta, l’espressione più elementare – attraverso la fisicità – di un’offerta e di una reciproca accoglienza nuda. Di modo che l’interno di questa conca ospitale diventa lo spazio in cui non solo ci si riconosce, ma soprattutto ci si è riconoscenti, grati, meravigliati. Così ci si aggrappa alla vita. E si comincia a sentirsi parte di un luogo, di un’idea, di un gruppo, di un sentimento, di un evento, a conti fatti, del corso dell’esistenza stessa.

La procreazione, il big-bang. Tutto potrebbe cominciare da un abbraccio.


[A Tara.]

La nuova epoca

gennaio 7, 2014

Mood: sovraccarico
Reading: Jack Kerouac, On the road
Listening to: The Strokes – Alone, Together
Watching: The Young and Prodigious T.S. Spivet di Jean-Pierre Jeunet
Eating: tiramisù
Drinking: caffè



Il 2014 mi ha raggiunta da qualche parte a Utrecht tra i tetti a falde inclinate, ritta e incerta sotto la distesa del cielo su una lingua snella d’acciaio che, passando per un abbaino, si lanciava da una mansarda in festa all’imbocco di una scala antincendio tubiforme da dove piombava all’infinito nel buio inchiostrato. Ci si doveva stare a gruppi di cinque su questo corridoio al firmamento tanto era stretto. Quelli per cui non c’era spazio aspettavano che arrivasse il loro turno all’interno, scolandosi una bottiglia di vino rosso con andamento circolare e dissertando sull’esistenza con accuratezza filosofica.
A me andava benone stare fuori. Il cielo era costellato dai fuochi d’artificio, un gran casino. Scoppiavano e sfrigolavano a migliaia tutt’attorno all’orizzonte basso, basso con la sola difformità da centododici metri della torre del Duomo, una linea lunga e continua inguainata dalla luce arancione dei lampioni cittadini e dai getti rosso, oro, verde, azzurro. A ogni detonazione, la massa dell’aria satura di zolfo si contraeva e si rigonfiava fino alla massima tensione possibile, andava vicinissima a crepare, ma nella magnificazione dei bagliori di luce a seguire si ripiegava su se stessa e gioiva delle stesse fantasticherie notturne che fino a poco prima l’avevano addolorata. Il vento trasportava il fumo che restava, insieme alle lanterne cinesi, tanto fumo che generava foschia. E pioveva, una pioggia leggera e battente come fosse vapore atmosferico.
A poco a poco mi sono infradiciata e, forse a causa dello scialle di lana che zuppo d’acqua com’era mi procurava un prurito disumano contro il collo, ho desiderato per un momento di trovarmi all’interno di quella sala candida fiocamente illuminata che sfuggiva al ritaglio di una grande finestra in basso al lato opposto della strada, una sala senza tracce umane con un lungo tavolo sgombro e più in là lo scorcio di un camino acceso, ho sognato di stare nuda accanto al fuoco, allungata sul pavimento con gli occhi al soffitto statico e le orecchie al crepitio delle fiamme. Il che però sarebbe stato infruttuoso in una notte come quella, lo sapevo fin troppo bene.
Dalla mia posizione privilegiata in alto sulla città, mi sentivo al limitare estremo del mondo, intendo lontana dal nocciolo primordiale dell’esistenza, eppure, per la prima volta dopo tanti mesi insignificanti, intimamente e violentemente vicina a tutto. I fuochi d’artificio germogliavano in mezzo ai tetti circostanti e, sibilando, si slanciavano sottili e veloci verso il firmamento che mi sovrastava, ne puntavano il centro per sbocciarmi sulla testa in un tripudio di luce e colore. Erano una moltitudine in festa, l’insieme ricordava un flusso caparbio di spermatozoi. E io, al centro, un grande ovulo universale. Tutto ancora era concepibile e tutto poteva succedere. Bisognava solo che mi lasciassi vivere, predisponendomi a accoglierne la sostanza e a nutrirne la bellezza. Sentivo gli occhi ricolmi di stupore. Eccola, la nuova epoca. Il mio basso ventre eccitato lo comprovava. Voglio dire, è nello stupore la nuova epoca.


***

A Eta che ha a cuore – sempre – la mia nuova epoca.

Tras-locare #5

agosto 20, 2013

Mood: decisivo
Listening to: Krista Polvere – Jack and Me
Watching: Francesco Paolo Catalano’s
Eating: crema pasticciera fresca
Drinking: caffè



Sono sbarcata all’aereoporto di Düsseldorf il 30 aprile per poi fare rotta verso Rijswijk, Olanda. C’era il sole tiepido e qualche fiocco di neve andava per aria. Ho cercato mio padre tra quelli in attesa e tra quelli appena sbarcati in attesa di quegli altri che avrebbero dovuto essere in attesa, ma erano in ritardo. Come ogni volta negli ultimi due anni all’aereoporto di Düsseldorf ho sostato tra quelli della seconda categoria, il che mi ha concesso di starmene per un po’ al sole, offrendo il corpo intero a profonde infiltrazioni di levità. Mi piace tanto quando c’è il sole sulla pelle nuda, ma fa anche un po’ freddo e bisogna stringersi nei vestiti, la considero una disposizione elementare armonica, fra l’altro la più appropriata a figurare i miei sentimenti all’aereoporto di Düsseldorf il 30 aprile, va tutto bene, io sto benissimo.

Nei giorni a seguire, sono rimasta ben salda nella mia serenità, circostanza questa che ho considerato non priva di straordinarietà. Voglio dire, è risaputo che io punti buona parte del mio benessere sull’andare di qua e di là. Ma, trattandosi adesso di un tras-loco, in altri termini di un commiato dalla mia vita passata come fino a allora per andare a destreggiarmi in un’abbondanza di scelte e intenzioni, eventi e persone, argomenti di discussione e modi di passare la giornata che ancora non sapevo – ma per certo differenti –, mi è sembrato quantomeno una diavoleria non provare quella ragionevole misura di eccitazione e timore, di vaghezza baldanzosa e ansia sciolta che potrebbe considerarsi il segnale privilegiato di un qualsiasi tras-loco verosimile. Io, nell’abbondanza di sentimenti e stadi emotivi di cui avrei potuto disporre e tutti insieme, ero serena, mi renderò conto prima o poi di essere migrata?

Tanto ho considerato e riconsiderato la particolarità della situazione che a un certo punto mi è sembrata completamente inopportuna e, andandomene per così dire alla ricerca del turbamento, mi sono spinta nell’attesa di procacciarmelo a rintracciare le cagioni della sua insussistenza.
L’ho buttata su Pasqua – dopotutto uno spostamento dall’Italia per l’Olanda a Pasqua potrei percepirlo, preposta una rimozione coscienziosa, non diversamente dall’intera filiera di partenze per festività degli ultimi due anni,
poi su Parigi – dopotutto andarmene a Parigi con uno zaino in spalla senza neanche essermi sistemata in Olanda, potrebbe farmi sentire, sempre preposta una rimozione coscienziosa, al centro soltanto dell’ennesima peregrinazione.
Tutte analisi queste in proporzione alle quali mi è sembrato quantomeno ragionevole non avvertire da subito il disorientamento.

In tre settimane, entrando giorno dopo giorno sempre più scelte e intenzioni, eventi e persone, argomenti di discussione e modi di passare la giornata nella mia nuova quotidianità, ho congetturato che con buone probabilità non mi si sarebbe offerto mai neppure un minuscolo traboccamento d’incertezza.
A controprova, è risalito perfettamente verticale il ricordo del mio primissimo tras-loco che, nel suo essere innanzi ai successivi, preserva intatte le tracce di un evento essenziale, istintivo voglio dire e pertanto privilegiato.
Avevo allora diciott’anni e poca familiarità ancora col mio animo da rondine. Me ne andai dal paesello nel barese dov’ero nata a Siena, i documenti ufficiali dicevano per studiare archeologia, ma io non ho mai cercato di nascondere che fosse di fatto per vedere com’era la vita fuori tant’è che rinunciai agli studi sei mesi dopo e mi sistemai a Milano. Fu a Siena che per la prima volta io, dimostrando una sicura benevolenza e un interesse privo di remore e malinconie per la mia nuova situazione di fronte ai messaggi malfermi di quanti tra gli amici di sempre erano anche loro andati via dal paesello verso altre città e con diverse motivazioni, mi crucciai, ma senza espormi più di tanto, col sospetto di non avere un cuore, di averlo affogato magari in qualche risata o in un goccio di troppo in Piazza del Campo.

Ora, io mi aspetto il turbamento a ogni nuovo tras-loco perché mi sembra qualcosa da provare, se così succede in tutti gli altri. Lo cerco dappertutto, ma è una specie di garanzia che non arrivi mai e questo talvolta mi si pone come un difficile problema etico.
Per risolverlo basterebbe ammettere nel mio caso specifico che l’aspettativa del turbamento da tras-loco è un’illusione: comunque vada, è evidente che io nei panni del migrante ci sto comoda.
A ogni nuova stazione, porto, aereoporto, la mia impressione non è quella di arrivare o tornare, ma più spesso quella di stare. Per meglio dire, benché sia chiaro che qualsiasi confine vada rosicato prima di poterlo passare, io mi naturalizzo con serenità ai luoghi differenti che incontro perché, d’accordo, starò pure in un luogo, ma prima di tutto sto nella vita e la vita per me segue i flutti del mare e il soffio del vento, ha luogo, per così dire, ovunque. Sicché – se la familiarità non è che una congerie di costituenti della vita di tutti i giorni – ovunque esistono anche le eventualità con cui nutrire il mio senso di familiarità. Di qui in poi, preso in considerazione un valore temporale più o meno ampio a seconda dei casi particolari, con quel tanto di entusiasmo vitale e di sicurezza disinvolta in me stessa, le coglierò, confacendomi un posto da chiamare casa. Del resto, il sottotesto è per sua natura quello di una sfida, non fosse altro di un’ipotesi da confermare e a me ne basta il sentore per intestardirmi a volerla spuntare.
Sarebbe nient’affatto lungimirante rilevare nel mio sentire un qualsiasi tipo di incapacità d’affezione nei confronti della mia vita passata – come fanno taluni – o un atteggiamento mentale di comodo nei confronti di quanto mi trovo a vivere – come fanno tal altri.
Ci sono uomini che hanno la vita a comparti stagni, in ognuno un certo numero di scelte e intenzioni, eventi e persone, argomenti di discussione e modi di passare la giornata tra loro isolati – come se già non fosse un abbaglio l’idea di poter ripartire la vita, estromettendo un momento da un altro, una storia dall’altra, una causa dalla sua conseguenza. A queste persone costrette dentro una visione esistenziale striminzita sembra per esempio di iniziare una vita nuova ogni qual volta, mossi da un intento catartico, piombano un contenitore e cominciano a stiparne un altro facendo qualche accomodamento di qua e di là rispetto alla vita precedente, ma per lo più alla rinfusa e in maniera compulsiva finché non raggiungono il limite oltre il quale precipitano in un lungo periodo di stasi che è quando ci convinciamo di essere intrappolati in un universo immobile e non realizziamo di essere invece noi stessi un ganghero guasto e impalato di un sistema che a modo suo mulina senza sosta. In uno stato di cose così, la cassa toracica di questi esseri umani finisce per riverberare il desiderio soltanto di ritornare alle scelte e alle intenzioni, agli eventi e alle persone, agli argomenti di discussione e ai modi di passare la giornata ammassicciati nel reliquario di una vita oltrepassata, nonché perfezionata con disinvoltura e nobilitata nel tempo dai processi della memoria – una ben arzigogolata disfunzione reazionaria questa, tipica della specie.
Io no: la mia geografia esistenziale esprime una sorta di ideale pangenetico in virtù del quale ciascuno dei territori che mi do guarda gli altri, tutti riconoscendosi – sebbene alla deriva e al di là di grandi oceani – appartenenti a una stessa formazione anteriore che si è spezzata e si è dislocata e che continuerà a farlo per naturale moto e andamento delle cose. Non incidentalmente ci si accorgerebbe, analizzandole, che le linee costiere di ogni singola regione non solo aderiscono, ma si richiamano l’un l’altra dacché attaccato a ogni versante c’è un lotto che avrebbe potuto essere degli altri, cose come il piede di un amore dentro la gola di un altro o la secca salmastra di un vecchio fiume di lacrime salito al sole. Nella pratica, non esistono transizioni brusche a carattere volontario nella mia vita. Solo processi lunghi e metabolismi ininterrotti le cui necessità e finalità si formano mentre, così com’è intrinseco in qualsiasi processo evolutivo, certe scelte e intenzioni, eventi e persone, argomenti di discussione e modi di passare la giornata finiscono e, poniamo, ne iniziano altri, mentre il qui diventa l’altrove e l’altrove il qui, mentre un treno mi porta e un altro mi riporta, così io segno la mia rotta nel mondo.
Non che, mi si creda, quest’andamento sia disinvolto al punto da diventare scanzonato. Di tanto in tanto anch’io, avvertendo i presupposti di un tempo tanto diverso dai precedenti, emetto fiati nostalgici in direzione di luoghi lontani, senza necessità, né finalità. Ma non ho mai la sensazione di poter stare completamente bene in un ricordo inerte, inchiodandomici e smettendo di disporre d’una volontà sulle eventualità di ogni giorno. Ho notato, del resto, che la mia nostalgia ha sempre più spesso lo sguardo della tenerezza e della gratitudine, le modalità di un commiato in considerazione del fatto che mi porto dentro, come chi ha conosciuto l’irrequietezza tra le più divoratrici e l’ha sanata andandosene da un posto all’altro per scoprire quanto il mondo ha da sorprendere e emozionare un passo più in là del proprio naso, la convinzione che la vita inizia laddove inizia il movimento – che l’idea stessa di vita coincide con quella di movimento – e che se tutto quello che ho vissuto fa di me la persona che diversamente non sarei stata, non esiste uno stato di cose indegno d’essere o di essere stato esperito. Tutto produce, avendo imparato a coglierlo, nuovo materiale grezzo con cui costituirmi, farmi tesoro, io che in principio non possedevo nulla e questo nulla mi piaceva persino, finché non ho ingerito una molecola d’aria e la mia coscienza non ha iniziato a espandersi. Sicché, pur amando e tanto il punto da cui sono partita e ciascuno di quelli che ho attraversato, non smetto di muovermi, di inseguire il senso di una direzione.
Talvolta mi colgono ascessi di vita come stati febbrili – tanto più pressanti quando realizzo che la misura del mondo è di gran lunga più ampia del tempo a disposizione e dei miei organi di metabolismo. C’è così tanta vita dietro ogni cosa e tutta insieme. Tal altre volte, dallo stesso livello di profondità da cui questi ascessi di vita derivano, esala il timore di perderli e di perdermi per sempre. Ma poi mi rilasso e considero l’idiozia sottesa al tentativo di assicurarmi il vivere dal momento che si tratta di qualcosa che è spontaneo e che in ogni caso va avanti. Al più si tratta di vivere bene, senza affanni superflui.
Allora se di una cosa posso esser certa, parlando di me, è che per nulla al mondo sarei capace di cadere vittima dell’abulia e trarne appagamento. Tra i vari più o meno notabili nel bene e nel male che mi costituiscono, ho esercitato, desiderandoli ardentemente, un paio di marchingegni direi di meraviglia, ovvero l’entusiasmo che mi predispone a notare la bellezza e uno sguardo mobile col quale penetro tra i diversi livelli di esistenza della realtà, nonché la curiosità che mi pungola a non smettere di ricercare, mantenendo a distanza l’orizzonte.
È un’evidenza che in tutto questo ci sia la mia tensione alla felicità. E che in questa certezza ci siano le motivazioni stesse della mia felicità, se non altro della mia capacità di essere felice,

va tutto bene, io sto benissimo.
Effettivamente questa mia natura mi solleva.


[e con Tras-locare #5 chiudo l’argomento, per adesso.]

Sofia

Maggio 2, 2013

Mood: intorpidito
Listening to: Raphael Gualazzi – Reality and Fantasy
Eating: crostata di crema e marmellata rossa
Drinking: succo di mirtilli



Mi hanno riferito che a due giorni da quello previsto per il tuo arrivo, ti si è bloccato il cuore – dieci secondi senza battere – e che perciò sono venuti a prenderti di forza dal ventre dov’eri e ti hanno [r]incubata perché troppo piccola in un rettangolo di policarbonato trasparente, al di qua del quale tutti restrebbero seduti per ore a guardarti con lo sguardo di meraviglia come si osserva un trasformista, gli occhi si sono aperti, le rughe per lo sforzo si sono distese, il viso si è arrotondato, i capelli sono cresciuti, adesso assomiglia a sua madre, no a sua nonna paterna, no a suo cugino maggiore, adesso un po’ a tutti anche a me scusate che dormivo con le mani strette a pugni in testa come lei, gli occhi stanno cambiando colore, saranno azzurri, non azzurri, ad ogni modo.

Potrebbero esserci molti motivi per i quali ti si è bloccato il cuore, per esempio
terrore di dover vivere
euforia di dover vivere
‘ché sempre da dove ci troviamo la vita sembra gigantesca, figurarsi dall’interno di un ventre quando bisogna poi spingersi fuori!

Qualcuno ti dirà che il battito del cuore è quello che ci tiene vivi e non ti avrà raccontato una bugia.
Io ti dico solo questo: a noi esseri umani – tutti e di ogni età –, spesso nel corso della vita succede anche che il cuore ci si blocchi per un certo momento di un certo giorno e che poi, così come si è bloccato, torni a battere. Cosa che può sembrarti un po’ inquietante adesso che hai solo due giorni, ma lascia che ti dimostri il contrario.
Quando il cuore ci si blocca per un certo momento di un certo giorno è perché in quel certo momento di quel certo giorno le emozioni di cui ogni giorno facciamo più conoscenza e che si accumulano nel cuore, a qualunque cosa siano simili – l’aria che si sposta tra un bacio a fior di labbra o il rifrangersi di una tempesta contro il torace –, si sono sciolte e si sono gonfiate fino a inondare e inabissare per un certo momento il cuore, del tutto sprovveduto di fronte a quell’evento unico e inatteso, improvviso.
Più l’emozione è profonda, e più a lungo il cuore trattiene il fiato prima di riemergere, è evidente no?

Certo, qualcuno potrebbe obiettare che è tanto meglio costruire dighe attorno al cuore e vivere ogni giorno svegliandosi alla solita ora, compiendo un certo numero di solite azioni – quali mangiare le solite cose, fare il solito lavoro, parlare delle solite cose con le solite persone – e andare a dormire alla solita ora con la certezza di essere vivi, dacché il cuore ha regolarmente battuto.
Ma prova a immaginare che a quel qualcuno si blocchi il cuore a un certo momento di un certo giorno e che poi capisca, tornando a sentirlo battere, di non essere morto – come avrebbe potuto sembrargli – ma per esempio innamorato. O furibondo. Estasiato. O angosciato. O tanto altro ancora. Dirà allora di aver vissuto.
E vivere non è uguale a essere vivo, converrai con me,

mi sfugge di dirti, come se te e io già potessimo discutere sui massimi sistemi perché a un certo punto di queste parole mi è venuto da chiedermi se non ti stessi raccontando cose che hai già assimilato due giorni fa,

quando ti si è bloccato il cuore e poi sei nata,
Sofia.

Queste parole, invece, sono io, Dorotea, tua cugina,
non potendo essere tra gli altri dietro l’incubatrice, ma volendo.


Bene-arrivata.

Umor acqueo

dicembre 9, 2012

Mood: acqueo
Reading: Vittorio Storaro, Scrivere con la luce
Listening to: Dillon – This silence kills
Watching: Amour di Michael Haneke
Playing: a star calma
Eating: bruschette
Drinking: camomilla



Ecco, la faccenda è che da qualche giorno il mio umore ha molto in comune con il vapore acqueo che si gonfia nel telaio della finestra del bagno quando la apro all’improvviso e le esalazioni di un bagno bollente alla lavanda impattano con il freddo che fa fuori meno un grado neve inclusa,

il vapore, dico, che si gonfia, sussulta di spavento e sfuma via, senza che io riesca a inseguirne una molecola soltanto perché qualche volta sento di avere gli occhi stanchi e allora allibisco nel telaio della finestra del bagno, dov’è quel qualcosa che prima c’era, ne sono sicura, e poi, puff, non più?

Però vabbè…

Mood: riflessivo
Listening to: gocce d’acqua nel lavandino
Watching: consueto disordine prepartenza
Eating: il frigo è vuoto
Drinking: latte fresco




Mainz, railway station



Frankfurt Stadion, railway station




Frankfurt, Shoppingmeile Zeil



Frankfurt, Kleinmarkthalle



Frankfurt, Eschenheimer Tor, Post-War New Town architecture and traffic


Frankfurt, marriage in Romer



Frankfurt, Eiserner Steg

Mood: affaticato
Reading: Ercole Visconti, Parole illuminanti
Listening to: The Lumineers – Ho Hey
Watching: Anna Ådén Photography
Playing: con le immagini
Eating: pastina al brodino, sinonimo di influenza
Drinking: brodino



Mercoledì mattina mi sono svegliata in pantofole. Fuori c’era la caligine accecante d’inizio ottobre a Milano – una peculiarità –. Ho trascinato il cervello stigio fino al primo caffè della giornata, cercando di persuaderlo a propositi di natura più operativa, ma già millantando vie di fuga di maggiore interesse, mostre, eventi, convegni.
Un’ora dopo ero in partenza per la Germania. Ho agguantato in volata la proposta di un passaggio in macchina direzione Mainz. Stava nell’aria da qualche giorno. Si sarebbe trattato di una toccata e fuga da due giorni in mezzo a sedici ore di autostrada.
Con me c’erano Arianna, Carlo l’amico di Arianna, Fabio il padre di Carlo che a Mainz lo aspettavano ragioni di lavoro. Quando abbiamo impilato i trolley nel bagagliaio della Ford e ci siamo avviati, la giornata era diventata assai calda. Il cappotto sarebbe servito solo qualche ora dopo.

Lungo le autostrade lombarde che portano fuori da Milano, il cielo si riempie sempre poco a poco di azzurro, come se la velocità dei mille viaggi intrecciati per ogni dove gli strappasse di dosso polveri e foschie. Alla frontiera con Svizzera, si è fatto largo anche il verde, cascando dalle montagne insieme all’acqua dei ghiacciai, prima smunto, poi acceso e macchiettato d’autunno giallo e rosso.
Abbiamo superato il confine da Chiasso, procedendo per Lugano e Bellinzona, un percorso già fatto quattro anni fa, in un’occasione molto diversa della quale non ricordavo nient’altro oltre la sensazione di un violento esilio emotivo, riverberato dalle barriere metalliche autostradali. Da sud a nord, lungo l’autostrada del San Gottardo, il paesaggio svizzero è fatto da mucche e laghi nella regione italiana, da distese di patate e lama nella zona tedesca. Le montagne accompagnano tutto il percorso attraverso la Svizzera, ma la loro altezza digrada, passando dall’una, all’altra, fino a sfumare nella verdeggiante pianura tedesca del Reno ai piedi della zona montuosa del Mittelgebirge, sempre uguale a se stessa fino a Mainz. Osservando, sulle linee fisiche dell’ambiente, si sovrapponevano nella mia mente tratti di rincorse [verso cosa?] impedite sul finire [o iniziare] da una ritorsione indietro, indentro. La radio passava “la meteo” e Una lacrima sul viso.

Dalle pagine che stavo leggendo.
“[…] gli aborigeni non potevano immaginare il territorio come un pezzo di terra circondato da frontiere, ma piuttosto come un reticolato di «vie» o «percorsi».
«Tutte le nostre parole per “paese”» disse «sono le stesse che usiamo per “via”».
Il perché si spiega facilmente. Gran parte dell’outback australiano era costituito da aride distese di arbusti o da deserto sabbioso; là le precipitazioni erano sempre irregolari e a un anno di abbondanza potevano seguire sette anni di carestia. In un paesaggio simile, muoversi voleva dire sopravvivere, mentre rimanere nello stesso posto voleva dire suicidarsi. Il «paese natale» di un uomo era definito «il posto in cui non devo chiedere». Però, sentirsi «a casa» in quel paese dipendeva dalla possibilità di lasciarlo. Ognuno sperava di avere almeno quattro «vie d’uscita» da seguire in tempo di crisi.”

Abbiamo raggiunto Mainz che era notte da un po’, le strade deserte come gran parte delle città nel Nord Europa in settimana dopo le otto di sera, le case tinteggiate di rosa e panna con intelaiatura a traliccio immobili con pochi occhi accesi nel buio.
Siamo andati per prima cosa in albergo dove Fabio aveva prenotato due stanze. Mi è bastato guardarlo in altezza e larghezza per sentirmi stretta, ristretta, costretta. Fino ad allora, l’ultima volta che mi ero infilata in un posto del genere risaliva a tre anni fa, a Nantes. Ciò che proprio non sopporto degli alberghi è l’idea di viaggio come di merce di consumo – una tra le tante in vetrina – sottesa a quella corporatura da incolonnamento di capsule stagne tutte identiche per un turismo di massa, reiterato senza la minima variazione in ogni parte del mondo. Sono uscita subito dopo aver posato i bagagli.

Agognavo la Germania da tanto tempo. Un giorno – ero ancora al liceo – una delle poche personalità di grande importanza nel mio percorso formativo raccontò alla classe di un viaggio a Berlino e de Il Secolo Breve di Hobsbawm. Ci disse, Berlino è una città ferita e questo è palpabile ancora oggi, dopo la guerra, dopo il muro, dopo tutta la storia tedesca, non c’è un solo angolo della città che conceda di ignorarlo. Sono certa che la mia attrazione per la Germania sia dipesa da questa osservazione.
Poi, due anni fa, di passaggio per andare a Rijswijk, scesi per la prima volta a Weeze, l’aereoporto di Düsseldorf. Lì, non appena fuori dall’aereo – lungo il percorso che, segnalato da strisce bianche e transenne di metallo, porta in colonna dalla pista d’atterraggio alla sala degli arrivi, nel buio freddo illuminato a crudo dai neon degli interni e dalle luci degli aereoplani – avvertii davvero il presentimento di qualcosa da approfondire al più presto, l’impatto immediato di un’onda frequenza emotiva molto, ma molto bassa contro il petto, qualcosa che mi fece stringere nelle braccia.
Credo di non aver mai più potuto prescindere dall’immagine della ferita di Berlino, neanche quest’ultima volta.
In due giorni in Germania, ho leccato piombo sotto la lingua.

Mi sono mossa tra Francoforte e Mainz senza studiare gli itinerari per lasciar lavorare le impressioni. Ho prestato molto ascolto con orecchio mite. Al respiro sommesso che si annida nei casermoni di periferia con i filari di finestrelle frantumate. Alle stazioni sconfinate con le decine di binari interrotti e vagoni inutilizzati. All’allineamento massiccio dei tralicci dell’alta tensione che intelaiano sul cielo centinaia di cavi di ferro carichi di uccelli neri, tutto immerso in un grigiore fumoso, impiastricciato da aloni di lampioni alogeni. Alla vicinanza fragorosa tra i palazzi nuovi, gli edifici storici e le strutture ricostruite, dove mi è parso di poter toccare ancora gli sconfinati spazi vuoti e le macerie lasciate dalla seconda guerra mondiale.
Ho dato fiducia all’udito più che a ogni altro senso perché in Germania il silenzio fa impressione. È materico, ha profondità spaziale, si prende tutto quello che c’è intorno, diventa tutto quello che c’è intorno, spazi urbani, sale da cafè, carrozze del treno, volto occhi grandi di una donna di mezza età che sorride con discrezione. Avrei voluto avere con me un registratore, prima ancora che una macchina fotografica. Sarebbe stato uno strumento più discreto, più adeguato per raccontare quello che ho visto.

In Germania, c’è qualcosa che chiede, impone di essere compreso, con un’intensità che non ritrovo in nessun altro luogo dove sono stata fin’ora. A primo impatto, le sue sono maniere da penetrazione che non comportano la grazia della compenetrazione. Mi sono sentita presa da un disagio bastardo e un’inquietudine febbrile – mi sono mossa con le spalle contro i muri – e da multipli processi di congestione – mi sono messa sulle spalle il cappotto.
A posteriori, sono ritornata più e più volte in Germania con la memoria, cercando di scandagliare e razionalizzare le percezioni sfuggenti, ma animose che mi si sono stipate dentro. Ho vagliato gli appunti fitti, ho richiamato l’aria tedesca nelle orecchie e nei polmoni. Ne ho discusso più e più volte con persone diverse. Ci ho camminato su. Le idee migliori mi arrivano chiacchierandone – e muovendomi.
Può darsi che due soli giorni non siano sufficienti per parlare con coscienza di un luogo. Questa idea mi sta ossessionando, a maggior ragione perché in Germania, per la prima volta mi sono sorpresa a domandarmi quali fossero i rapporti di forza in atto nel mio sguardo: per certo ho risentito del condizionamento culturale dovuto a ciò che la storia mi ha raccontato della Germania, ma ho anche avvertito subito la sensazione di un luogo con un’identità storica e culturale così circostante e così densa da sbattermela in petto nel giro di pochi secondi, senza preamboli e edulcoranti, che è l’atteggiamento di ciò che ha consapevolezza di sé e del proprio valore.
Ci sono persone pronte ad acclamare alle vergogne tedesche – dimenticando per altro cose di alto pregio a caso come l’arte e la filosofia che in buona parte sono germogliate in quelle terre –. Per quel che mi riguarda, da tempo sono matura abbastanza per non indulgere in coppie di concetti ossimorici come “buono” e “cattivo” o “bello” e “brutto” che aspirano tutto il senso più profondo di una problematica.
L’identità storica e culturale tedesca è un fatto e ho l’impressione – se soltanto di impressione per ora posso parlare – che lo sia nel “buono” e nel “cattivo”, nel “bello” e nel “brutto”, soprattutto nell’interstizio tra i due, dentro la ferita lasciata dagli ultimi decenni. La Germania che io ho visto è quella che, nel “buono” e nel “cattivo”, nel “bello” e nel “brutto”, sta tutta quanta raccolta, stretta come un pugno. Quella che, nel “buono” e nel “cattivo”, nel “bello” e nel “brutto”, emana solennità e austerità, mestizia e dignità senza precedenti. Soprattutto pudicizia.

(Oltre che quella della birra a litro, delle uova strapazzate e del formaggio – a colazione –, della kartoffeln, della flummkuchen, del bretzel, della soup di pomodoro,
e dei viaggiatori irlandesi dagli occhi azzurri come il mare e i denti storti come le sue onde)

Mood: teso
Reading: stupide carte di metodologia di design, ma che frega a me?
Listening and watching: l’arrivo del temporale
Eating: poco
Drinking: tea chai



Mi sono strappata di dosso l’universo che mi ero appiccicata alle ossa, ago e filo,

ho scoperto in stadio avanzato un buco nero emozionale,
– roba da strozza-fiato lacrime a singhiozzo –
l’ho srotolato nel vento.

Adesso ballonzolo nuda a mezz’aria, con uno scafandro gigantesco sulla testa tra milioni di possibilità accese tutt’attorno a fulcri bollenti di necessità in evasione da Sottocontrollo,

prima o poi doveva succedere

Ogni tanto ci sta,
ballonzolare a mezz’aria e niente di più,
è fuori questione una guerra a breve termine per la conquista di scampoli di suoli e materia stellare da addobbo,
ballonzolo a mezz’aria e niente di più,
mi serve per s-gravitare la testa,

Dai fogli di bordo, nodi della crisi

il giorno in cui la mia fantasia ha defezionato
il giorno in cui una bufera spazio temporale mi ha trascinata in un universo lontano (tantissimo) di cose ancora da scoprire
il giorni in cui i cavi comunicazionali con un paio di universi vicini (tantissimo) sono saltati
il giorno in cui ho riconosciuto di essere affetta da una forma gravissima di loco-patia
il giorno in cui ho scoperto che allora l’avvicinarsi della chiusura di un ciclo mi fa paura
i giorni in cui ho desiderato [e anche quelli in cui ho sfiorato]

prima o poi.

Mood: instabile
Reading: Jonathan Safran Foer, Ogni cosa è illuminata
Listening to: The Platters – Only You
Watching: il temporale
Playing: a ungermi di cortisone dopo che uno stuolo di zanzare ha fatto strage di me
Eating: melone
Drinking: acqua



“Questa sera vado a letto desideroso di frugare nel cestino della passione, fra i ricordi e i sogni. Voglio vedere cosa resta del mio vecchio cuore, quello con cui mi sono innomorato.”

[Mathias Malzieu, La meccanica del cuore]


Qualche pezzetto ne è rimasto sotto il cuscino insieme a tutte le cose preziose che ci nascondo fin da quando ero minuscola un pollice e credevo che nel torpore tutte le cose preziose nascoste sotto il cuscino parlassero ai miei sogni li persuadessero a non turbarmi e da allora negli anni il mucchietto è cresciuto ha assunto una morfologia assai consistente e dinoccolata al punto che quando ci appoggio sopra la testa devo farlo con leggerezza per non frantumare o riattizzare alcunché.
Quelle volte in cui succede che sono maldestra, i pezzetti del mio vecchio cuore si mettono a cigolare un sacco a perdere ruggine pieni come sono di condotti di sutura raffazzonati alla meglio più che di capillari ostruiti e rinsecchiti, a farmi male a piantarmi nel petto gli antichi lamenti d’amore di chi tanto amando tanto senza confini noti è rimasto in attesa di una meta che non era stata prevista e implora perdono per aver tollerato di essere ridotto a sussulti e stanchezza dopo aver barattato le corde per vociare un usuale impersonale – così sembrava – e per tradizione sereno ti amo, mi manchi, voglio baciarti con le congetture magnifiche di una nuova forma essenziale scolpita a tutto tondo da rare straordinarie e per tradizione tempestose emozioni, quindi tanto meglio se faccio attenzione.
Mai avrei pensato che a causa dell’infelicità un cuore potesse consumarsi per sempre perdendo un pezzo dietro l’altro e restare in briciole nella conca dell’anca destra senza far dolore prima o poi mi riesce di rimetterlo insieme pensavo, ma dopo tanto rigirarmi per tutto il mondo tra bonzi e stregoni non ho trovato un solo pezzo di ricambio per il mio vecchio cuore vecchia scuola finito fuori serie da qualche anno, nessuna diavoleria avrebbe potuto aggiustarlo.
Perciò ho raccolto qualche pezzetto tra i più grossi rimasti del mio vecchio cuore nella conca dell’anca destra e li ho nascosti sotto il cuscino, quel po’ che restava l’ho soffiato in polvere al vento che ne avesse un po’ d’amore. Nella cava ormai vuota del mio petto ho ficcato un cuore nuovo di fiamma conquistato dopo mille fatiche in fondo a un imbuto, ho allacciato per bene vene e arterie e l’ho azionato.
Il mio nuovo cuore è un prodigio, ha una capienza esagerata dentro un assetto ben saldo e compatto ma estremamente leggero e flessibile sicché mentre pulsa tutto euforico e impaziente i flussi e i deflussi della vita intera vanno avanti e dietro avantiedietro senza che mai la sacca si svuoti o si ingombri, entrano in circolo e con quale fierezza il mio nuovo cuore mi insegna che la vita intera si percepisce nella misura di quello che si decide di accogliere abbracciare incanalare tra possibilità e pesi in atto, con quanta diplomazia svolta malumori in buonumori, eppure
Io col mio nuovo cuore non mi sono ancora mai innamorata. Sembra quasi non ne abbia bisogno tanto è sicuro di se stesso e pago del suo connubio con la vita intera, il mio nuovo cuore si direbbe innamorato del modo in cui ama.
Allora ogni tanto prima di addormentarmi sollevo il cuscino sotto il quale nascondo tutte le cose preziose fin da quando ero minuscola un pollice e rovisto tra i pezzetti rimasti del mio vecchio cuore, del mondo che rappresentava che avevo dove stavo e che non esiste più, resto un po’ in ascolto dei cigolii come della nenia scordata di un carillon di quelli con la ballerina dagli arti sottili che si gira attorno in punta di piede per meccanica reiterazione senz’anima,
poi tutti i pezzetti rimasti del mio vecchio cuore li nascondo di nuovo sotto il cuscino tra le altre cose preziose e vado via per il mondo ‘ché c’è ancora tutto da fare e più che del mio vecchio cuore col quale mi sono innamorata, più che del mondo che rappresentava che avevo dove stavo e che non esiste più non voglio più, io ho bisogno di sentire le emozioni vivide ed espanse di quando sono innamorata. E io col mio nuovo cuore non mi sono ancora mai innamorata,

ho bisogno di pensare che posso ancora innamorarmi che a irrigidirmi non è la paura del mio vecchio cuore in polvere e pezzetti, quello con cui mi sono innamorata.
Che con tutti i flussi e i deflussi della vita intera che fa andare avanti e dietro avantiedietro entrare in circolo prima o poi il mio nuovo cuore, quello con cui non mi sono ancora mai innamorata, busserà al petto e mi dirà ci siamo innamorati.

[2 luglio, non a caso]



***

Comunque sulle pagine de La meccanica del cuore di Mathias Malzieu ho pianto senza risparmiare lacrime ‘ché tanto sulle lacrime la crisi mondiale non prevede tagli. L’ultimo libro che era riuscito a coinvolgermi a tal punto è stato Che tu sia per me il coltello di David Grossman. È successo quasi quattro anni fa ormai, avevo ancora il mio vecchio cuore. In verità, sulle pagine de La meccanica del cuore ho pianto senza risparmiare lacrime per la prima volta da quando ho il mio nuovo cuore.
Insomma, tanto per fare un po’ di vendita promozionale che in certi casi è doverosa.

Dyonisus è il gruppo di cui Mathias Malzieu è frontman e cantante solista. La mécanique du cœur è il disco con il quale mettono in musica l’immaginario del libro.

Mood: cosìcosà
Reading: noiosissime dispense universitarie scritte con i piedi a dir poco
Listening to: The Shins – New Slang
Watching: Comizi d’amore di Pierpaolo Pasolini
Playing: magaaari!
Drinking: latte
Eating: mezza carota cruda



Avrei voluto raccontarti dei colibrì nello stomaco che sono il modo in cui ti sei insediato dentro me.

Sai che i colibrì nessun’altro li eguaglia,
il loro cuore, grande in proporzione più di quello di un uomo, picchia fino a milleduecentosessanta volte al minuto e le loro ali, piumaggi leggeri e variopinti, frullano fino a duecento volte al secondo quando sono innamorati premendoli in voli ronzanti fino a cento chilometri orari,
di certo lo sai,

tutti gli organi interni mi si sono riposizionati sulle bordate d’ali dei colibrì nello stomaco.

Ecco, avrei voluto raccontarti dei colibrì nello stomaco,
ma di quando dentro me si sono spenti e non è rimasta che la fenditura vacante di una lunga onda frequenza condannata a non ripetersi

e io a contorcermi sui perché e sui quando da sola a imparare e accettare che niente è così tanto speciale a eccezione di quello che crediamo tale e per il quale siamo disposti a offrirci con la cassa toracica scoperta.

Anossia

marzo 30, 2012

Mood: almost easy-going
Reading: Nick Hornby, Non buttiamoci giù
Listening to: le storie sospese tra la Istanbul e Barcellona del primo couch surfer di PaRecchia al Tre
Playing: a sfoggiare con poca grazia il mio inglese maccheronico
Watching: spazi vuoti
Eating: pizza
Drinking: tanta acqua



‹‹Cos’avete da raccontare?››

Io in tutta risposta, si poterono sentire i moscerini fare l’amore chilometri più in là.


È come l’anossia.
È l’anossia.
Ho bisogno di aria, io me ne nutro di conseguenza le storie che io racconto. Il problema è che sono a digiuno da un po’.

Esisto // Notturno

dicembre 30, 2011

Mood: amorfo
Listening to: The xx – Basic Space
Playing: a fare i palloncini con metà bigbabol
Watching: a breve, una probabile nuova casa olandese
Eating: panino con philadelphia
Drinking: acqua





Rijswijk


Esisto.

Capirai se non ho più intenzione di darne spiegazioni.


Un giorno sostituirò la carne col vetro per poter guardare attraverso, nello spazio vivente tra le ossa. E non appenderò le tende.

Legge costituzionale

dicembre 29, 2011

Mood: compagnone
Reading: Chatwin, Che ci faccio qui?
Listening to: Tom Waits – Time
Playing: a correre nel vento per le strade di Delft
Watching: fulmini in lontananza
Eating: cheesecake da Uit de Kunst
Drinking: cappuccino



Che in me i momenti del piacere siano annodati all’esplosione in gola delle sacche del dolore in quarantena è una legge non scritta.
Perciò adesso non mi sorprende la sensazione tutta fisica dell’anima che si lacera in più pezzi senza preavviso in momenti impensati della giornata, facendo i salti mortali tra le cime del piacere, per l’appagamento e per tutte le prospettive che sta fruttando il mio lavoro, e le slavine del dolore, per quello che è caduto a pezzi e per quello che forse verrà, ma intanto si ostina a mancare.
Nella mia realtà del momento, i cambiamenti si incuneano con una rapidità da capogiro, qualcuno lo graffio dalla pietra dei giorni, qualcuno mi capitombola in braccio e lo puntello. Entusiasmo, fierezza, timori e incertezza si fondono insieme e fin qui niente di strano, ogni sentimento rende possibile il dannato vivere.
Ma spesso, alla fine di un giorno qualunque, dopo aver tanto corso e tanto sudato energia, mi sento persa. Nel mezzo è capitato più volte di aver lasciato cadere un sassolino lungo l’aorta, sperando negli angoli più buoni per poter rimettere ogni cosa e cercare conforto, leggerezza o semplice e ineducata condivisione. Altrettante volte è capitato di sentire ritornare solo le eco stridenti dei luoghi del cuore che un tempo furono giardini e ormai sono deserti sconfinati.
Con i tempi che corrono sarebbe meglio tenersi vicini, scaldarsi col fiato. Allora com’è che i doppi legami in cui mi cullavo giacciono sfilacciati nella terra e già ingrassano i primi giacinti? Ricordo sorpresa di aver creduto in ognuno di quegli amabili avanzi così tanto da sentirmi troppo piccola per non correre il rischio di esplodere. Sono consapevole che qualsiasi cosa finisce, ma come può qualsiasi cosa finire? È come prendere nello stomaco un pugno e vedere dischiudersi un gorgo. Rimpicciolisco. Mi risucchio al centro. Ed esco dalla felicità. Se c’è una cosa che mi fa male è non capire dove, quando e perché le direzioni sono diventate opposte. E valicando i patetismi di un necrologio qualunquista, scivolo in una delicata rassegnazione. Mai, prima d’ora, mi era capitato di sentirmi così.

Ecco, bisognerebbe che io sondi e argini una volta per tutte il meccanismo per il quale un’ondata di gloria non possa restar tale per più di un secondo prima di sprofondare in una qualche falda putrida. Bisognerebbe perché inizio a esserne stufa. L’udienza è aperta.
Per mirare il nocciolo della faccenda, non mi nascondo che tanto sono tronfia di gratificazioni lavorative, tanto sono sul lastrico dei sentimenti. Ma se c’è qualcosa di puramente umano, questo è l’incapacità di sorridere davvero alla vita quando i ritagli più intimi ed emozionali dell’esistenza sono scoperti al freddo. D’altra parte, con me il gioco è particolarmente facile. Qualunque idiota potrebbe intuire che il mio punto di massima vulnerabilità e contraddizione è negli affetti. In tutta onestà, ho un talento particolare per le circostanze squilibrate. Forse un istinto naturale.
Certo, adesso potrei lasciarmi andare ai venti nuovi che soffiano da ovunque, stringere legami più freschi, mappare nuovi riferimenti. Non mi diverte stare inchiodata mani e piedi a far arieggiare il cuore dalle scie degli amori persi. Vorrei anch’io sapermi concedere l’occasione per bruciarne di nuovi. Ma è come se, al momento, la mia anima fosse priva della capacità di avvicinarsi veramente a qualcuno e di incastrarsi.
Perciò, quantunque mi sfogli la pelle con scrupolo, il volto più viscerale della mia vita resta, fuori da un taglio qualsiasi di luce, con le orbite senz’occhi. E date le circostanze, quel sentimento di nuda verginità in un presente che non mi è amico, rattoppo i pozzi profondi che, fissandomi, m’affliggono con tutto ciò che di più vicino all’umano raggranello in fretta sui lidi della mia anima, sassi e conchiglie per lo più, postumo, spurgo, rimasuglio, sedimento di vecchi fiati e battiti cardiaci. Presenze che testimoniano assenze, assenze che riempiono vuoti. A ognuno il suo personale portagioie.

Ordunque si manifesta il valore costituzionale della legge non scritta per la quale in me i momenti del piacere sono annodati all’esplosione in gola delle sacche del dolore in quarantena.
Eppure sarei ingenua a pensare che non c’è modo di andare al di là. Dopotutto, in questo mondo non esiste legge, finanche la più costituzionale, non aggirabile con un affabile cavillo da azzeccagarbugli. Forse questa storia ha che fare con la meschinità più di quanto non voglia riconoscere. Più di quanto non voglia riconoscere, ho detto. Ebbene. Mi calo nell’etilene, poi di faccia in un cesso e mi assento dalla dignità. Faccio passare la notte. Epuro lo stomaco dei succhi gastrici. All’alba ho passato troppo tempo spezzata in due per voler continuare come fin’ora. Perché credere di poter riempire le mancanze con le assenze, perché se una vita può esser piena di presenze? A volte devo fare qualcosa di molto brutto quantomeno per farmi forte di una serenità nuova e accomodarmi quelle stesse possibilità che ho troppo ostacolato. Non so granché, soltanto che andare da questo luogo a un altro, quale chissà, mi bacerà, nutrirà, terrà viva.
L’udienza è sospesa.



[in merito a questa storia, si ringraziano – con tutto il cuoricinoinoino
Lou e Yanna per la luminosa sempreveravicinanza]

Roghi

dicembre 14, 2011

Mood: esausto
Reading: Chatwin, Che ci faccio qui?
Listening to and watching: Birdy – Skinny Love (un piccolo regalo in una casella di posta)
Eating: pasta gorgonzolaezucchine
Drinking: camomilla






‹‹Voglia di non farcela?›› mi ha chiesto Eta.
‹‹Mai. […]›› ho risposto. E pochi secondi dopo ‹‹Forse sì, invece. Non lo so.››

Intrografie

ottobre 6, 2011

Mood: vago
Reading: Yuri Herrera, La ballata del re di denari
Listening & Watching: Florence + The Machine – Shake It Out
Eating: Ringo Black
Drinking: acqua



Di Intrografie avevo già scritto. Del viaggio geografico ed emotivo che è alle sue fondamenta e delle mie dinamiche di interiorizzazione ed estetizzazione del reale esterno ho scritto ancora di più su questo spazio, nel corso di tutto un anno. Fondamentalmente Intrografie è il primo archivio parziale di storie, un libricino nero che ho rigorosamente voluto tascabile. Perché potesse stare dentro una giacca vicino al cuore come ci stavano i Canti di Catullo del mio professore di Letteratura Latina a Siena. Ed anche perché chiunque si ritrovi a guardarlo non lo liquidi in fretta, ma si soffermi ad analizzarlo per ricostruire i frammenti della storia nelle immagini con la stessa attenzione e lo stesso esercizio all’osservazione che richiede la possibilità di riscoprire e carpire i dettagli nel mondo reale per rintracciare i fili rossi dei propri racconti, chè io, ne sono convinta, ogni narrativa ed ogni visione non sono che il frutto del sentimento soggettivo del reale.
Insomma, ecco infine – alias, con le mie solite tempistiche dilatate – Intrografie. Meglio tardi che mai, oh!


Circonvoluzioni



Milano, Italia
Ventidue Febbraio Duemiladieci, ore diciannove e quarantatrè


Nantes, Francia
Quattordici Marzo Duemiladieci, ore diciannove e ventisette


Rijswijk, Olanda
Ventisei Dicembre Duemiladieci, ore quindici e otto


Monopoli, Italia
Tre Aprile Duemilaundici, ore diciotto e quaranta


Den Haag, Olanda
Ventisette Dicembre Duemiladieci, ore diciotto e quarantadue


Monopoli, Italia
Dieci Dicembre Duemiladieci, ore diciotto e uno


Nantes, Francia
Tredici Marzo Duemiladieci, ore undici e trentotto


Inter-mezzo



Venezia, Italia
Sedici Luglio Duemilaundici, ore quindici e cinquantotto


Milano, Italia
Tredici Febbraio Duemilaundici, ore quattordici e due


Castellana-Grotte, Italia
Nove Aprile Duemiladieci, ore sedici e cinquanta


Milano, Italia
Diciassette Marzo Duemilaundici, ore zero e cinquantotto


Derive


Como, Italia
Ventisei Marzo Duemilaundici, ore diciassette e quarantotto


Milano, Italia
Tredici Febbraio Duemilaundici, ore quattordici e due


Venezia, Italia
Sedici Luglio Duemilaundici, ore dodici e trentuno


Monte Grappa, Italia
Ventidue Luglio Duemilaundici, ore diciannove e cinquanta


Monte Grappa, Italia
Ventiquattro Luglio Duemilaundici, ore diciotto e trentatrè


Monopoli, Italia
Ventinove Luglio Duemilaundici, ore sedici e undici


Pietrapertosa, Italia
Ventisette Agosto Duemilaundici, ore sedici e quindici


Conclusioni provvisorie



Venezia, Italia
Sedici Luglio Duemilaundici, ore sedici e cinquantadue


Milano, Italia
Diciotto Febbraio Duemilaundici, ore quattordici e diciassette


Bassano del Grappa, Italia
Ventitrè Luglio Duemilaundici, ore quattordici e trentanove


Fasano, Italia
Quindici Agosto Duemilaundici, ore diciotto e trentotto

L’Intronauta

luglio 7, 2011

Mood: quieto
Listening to: la ninna nanna di questa notte
Watching: le poche finestre ancora accese nei palazzi circostanti
Playing: con i riccioli
Eating: frugalmente
Drinking: caffè, uno per ogni persona che sto rincontrando





Negli ultimi giorni, scrivo tanto, ascolto canzoni, leggo libri, scandaglio in profondità i testi e le parole, le mie e quelle degli altri, compulsivamente direi, con compulsiva-mente, ho fame di parole, le pronuncio a voce alta per avvertirne la consistenza tra il palato e la lingua, per sentirne il fiato che rende tremuli gli organi interni e le ossa anche quand’è già sfuggito alle labbra e all’insidia delle sue screpolature, cerco significati, sinonimi e contrari, scompongo e ricompongo, provo ad abbozzare definizioni ed ora confesso che le definizioni a me non piacciono neanche un po’ perché sono i limiti concreti al vivere e al sentire più profondo e contraddittorio, ma che di tanto, in tanto devo farci ricorso per capire qualcosa di me e companatico, mettere un puntinoeacapo e, a proposito di puntini, rendo manifesta la mia consapevolezza che, negli ultimi giorni, non solo scrivo tanto, ma scrivo anche manzonianamente, che a cercare il punto nelle miei frasi e nei miei raggiri non è sufficiente un binocolo.

Ma si dà il caso, e a quest’altezza del discorso chiunque potrebbe supporlo ben da sé, dicevo, si dà il caso che questo puntinoeacapo a me non riesce proprio di scovarlo e piazzarlo nel tormentoso rimescolio della mia esistenza, prim’ancora che nei miei scritti. Ora, che l’esistenza sia per gran parte tormentoso rimescolio non è certo la dichiarazione più geniale che potessi fare: letterati e pensatori, artisti e scarpari illustrerrimi che mi hanno preceduta tanto per le tempistiche, quanto per l’intelletto, hanno ampiamente disquisito e problematizzato la faccenda. Per quel che mi riguarda, me ne son fatta una ragione senza particolari isterismi e del tormentoso rimescolio sbrodoloso sbrodolino mi sono persino innamorata, fortuna che è così la vita, altrimenti sai la noia!, il che non vuol dire che il tormentoso rimescolio ed io non siamo contemporaneamente acerrimi nemici, ma quel che conta è che grossomodo mi barcameno e di questo farmi spazio a scossoni ho fatto uno stile di vita.
Il vero guazzabuglio è che nell’ultimo periodo, di cose ne sono successe e, repentinamente, ne sono cambiate e ne stanno cambiando ed io, che pure convulsamente cerco di seguire una direzione, non sto capendo nulla di tutto quello che al momento penso, provo, voglio, ché io al momento penso, provo, voglio non una sola cosa per volta, ma infinite cose e contrastanti e neanche so da dove partire per venirne a capo. A voler concretizzare, è come essere seduti davanti ad una montagnola collosa di spaghetti in un piatto troppo piccolo, senza riuscire a rintracciare lo spaghetto da cui iniziare ad arrotolare una forchettata.
Sono preda di una confusione totale e totalizzante che mi confonde – una confusione che confonde! – debilita, corrode, distrae, astrae, svuota, senza mai abbandonarmi per un solo momento, al punto che dopo l’ennesimo muretto a secco e l’ennesimo rinculo dell’auto a precedere scansati per un soffio, ho preso la per me-drammatica decisione di non guidare finché non sarò riuscita a tenermi sotto controllo, donnina coscienziosa. Si direbbe che tra cuore e cervello mi si sia innescato un attacco fork bomb di pensieri ed emozioni e desideri e paure contrastanti che non so decifrare e riequilibrare e che minacciano brutalmente di mandarmi in crash.

Penso che talvolta sarebbe massimamente utile se a vivermi e sentirmi ci fosse qualcun’altro più bravo di me a capire com’è che mi vanno le cose lì dentro, per poi riferirmelo con dovizia di particolari. Certamente sarebbe tutto molto più semplice, ma non sono certa che sarebbe la soluzione migliore, dopotutto è una grande avventura conoscere se stessi e dal confronto e dal conflitto si emerge necessariamente arricchiti e più consapevoli.
Qualche sera fa, tra le pagine de Il giardino dei gerani timidi, ho incontrato il termine “intronauta” e ne sono rimasta estasiata, non c’è dubbio che nel ventaglio di parole che ho rintracciato nel corso delle mie più recenti ricerche allo scopo di darmi un volto e di raccontarmi, “intronauta” sia proprio la più interessante, la più necessaria, “intronauta”, esploratore dell’interiorità. Nella mia immagine, l’intronauta ha uno scafandro sulle spalle, ed in mano una lanterna, una penna e un taccuino, viaggia in silenzio, si fa strada col respiro nei più intimi grovigli e valuta e annota e valuta e separa e valuta e chiarifica. Io sono un intronauta e sono in viaggio, dal cuore della mia nebulosa emotiva tutto sembra stazionario, ma semplicemente perché muove impercettibilmente verso una soluzione d’incastro, centro di controllo, abbi pazienza, qui ci vuole solo tempo, ce n’è di strada da coprire e di fogli da riempire, ma prest’o tardi la nuova strada sarà costruita!

Mood: sereneggiante
Reading: Anna Marchesini, Il terrazzino dei gerani timidi
Listening to: Niccolò Agliardi – L’ultimo giorno d’inverno e mia sorella che instancabilmente ripete per gli orali della sua maturità
Eating: focaccia
Drinking: acqua



‹‹La stazione mi era familiare, il babbo mi aveva portato molto spesso sulle pensiline del treno, quando avevo avuto la tosse convulsa, per farmi respirare un’aria diversa – così gli aveva consigliato il dottore, di cambiare aria. Mi piaceva tutto lì dentro; i riti di transito dei treni, i rumori che rompevano il silenzio senza turbarlo, il movimento lento ed eccezionale dei passeggeri quasi tutti militari o parenti di militari.
Mi affascinava quella sorta di schiaffo sonoro che faceva girare la faccia e inseguire il treno in corsa, quando sfilava davanti agli occhi, compartimenti di vite estranee l’una all’altra eppure insieme e accanto, lunghi condomini orizzontali disordinati o amorfi, vivaci, con le luci accese, o del tutto segreti, dove l’esistenza si era organizzata per qualche ora attorno ad una stessa casualità. Mi emozionava essere per un istante risucchiata da ogni rettangolo di luce che scorreva veloce, testimone io della fiammella invisibile che quelle famiglie di sconosciuti tenevano accesa senza saperlo e che li costringeva ad una effimera intimità. Dopo aver dormito accanto l’uno all’altro, estranei, si erano intrattenuti in una scandalosa confidenza che aveva aperto un varco involontario nelle loro esistenze abbottonate, il tempo breve della durata di una tratta e poi tutto si sarebbe richiuso frettolosamente, ciascuno uscito dallo scompartimento, appena scivolato via, avrebbe lasciato solo una sfoglia di sé e un posto vuoto, pronto ad accogliere un’altra breve rappresentazione.››

[Anna Marchesini, Il terrazzino dei gerani timidi]


Riflettevo, ieri pomeriggio, a bordo del Freccia Bianca Milano-Bari, in merito al carico di vite tra loro estranee che affollava lo scompartimento e che, scendendo sempre più il treno verso il tacco d’Italia, si organizzava per istinto in un sistema intrecciato di relazioni e scambi e simpatie ed antipatie, è questo che mi piace dei treni, il loro diventare micro-habitat ambulanti ed interinali in cui si accalcano e restano sospese come foschia le vite e le storie, oltre che le possibilità di costruirle queste vite e queste storie e di immaginarle, i signori infervorati di politica senza troppe cognizioni di causa e corrosi dal vivere amaro e gli interventi sporadici di qualcun’altro a caso e gli sguardi tra il sarcastico e il divertito e l’infastidito, il gruppetto aggregato attorno ad una partita a briscola o scopa, la signora preoccupata per le mie gambe deformate dalla reazione allergica alle punture di zanzare e incapace di togliermi gli occhi di dosso e voci e passi uno sopra l’altro e suggerimenti su come trascorrere il tempo di un lungo, lungo viaggio.

In ragione di queste coincidenze relazionali, S. ed io ci siamo conosciute. Stavo ascoltando la musica in cuffia ed elaborando in Lightroom le foto del mio Natale olandese, ché sì, tra una cosa e l’altra, ancora non ho avuto modo di concludere il lavoro, insomma ero così impegnata e S. che mi sedeva accanto se ne stava col naso appiccicato sul mio monitor, ascoltava con attenzione quello che canticchiavo e mi studiava nei gesti, nelle espressione, in quello che avevo attorno, più tardi le avrei confessato che io ho lo stesso vizio all’attenzione e alla curiosità, a trasformare in intimità l’estraneità. Sarà stato all’altezza di questo scarto che a S. non è tornata la ragione per la quale io non facessi le ascoltare quello che stavo ascoltando, sicché, al palesarsi delle sue perplessità, mi è sembrato onesto concederle una cuffia e ascoltare insieme Daniele Silvestri, che poi a lei la cuffia dovevo risistemarla di continuo perché di continuo le sgusciava fuori dall’orecchio troppo piccolo, circondato da ciuffi castano chiaro. Nella ripetitività di questo gesto, mentre mutava il panorama e si trasformava progressivamente in quel Sud caro al mio cuore, S. ed io siamo diventate amiche e lei chiedeva a me cosa stessi guardando e io chiedevo a lei cosa stesse guardando, abbiamo anche affrontato discorsi importanti come il matrimonio, in merito al quale lei mi ha confessato che avrebbe sposato la sua amica I., ma che una volta che la loro storia sarebbe finita, I. avrebbe sposato il suo amico J., gente del futuro!, motivo per cui sarebbe stato opportuno che io, non essendo ancora sposata, sposassi J., così che lei potesse rimanere per sempre con I., io le ho raccontato delle fate nello stomaco e di quelle che portano i sogni e lei mi ha detto che avrebbe pestato le fate dei sogni, che non è bello sognare perché ad ogni sogno si piange e quando le ho chiesto cosa sogna, S. mi ha detto che sogna i morti e non sapevo bene cosa raccontarle a quel punto, se non che non sono tutti brutti i sogni, che ce ne sono di belli e che sono importanti, solo a volte capita che un troll rubi un sogno ad una fata e lo infetti con la paura e per distrarci, S. ed io, abbiamo fatto merenda con i grissini spezzettati ed abbiamo giocato a chi mastica più veloce, uno, due, tre, via! e a chi resiste di più senza ridere e S. rideva tanto con un sorriso davvero bello e profumato di fiori e ad un certo punto, S. mi ha guardata dritto negli occhi e mi ha detto “Perché tu stai sempre così?” e ha ritratto il volto nell’espressione più accigliata ed altezzosa e contrariata che le riuscisse, ha stretto i denti ed ha incrociato le braccia ed io mi sono sentita come colta di sorpresa nella mia nudità di fronte a lei e ho cercato appigli che non esistevano per darle una risposta, storie che non tornavano al computo, ma più avanti, S. mi ha detto anche “Tu mi fai proprio ridere!” e quasi si stava strozzando con le caramelle che le navigavano tra la lingua e il palato ed io mi sono sentita ancora più nuda, come se mi avesse tolto la pelle e mi stesse dando la possibilità di perdonarmi ed arrotondare gli spigoli e ridimensionare ogni cosa in un solo sorso di vita. A Pescara, S. ed io ci siamo salutate, ci siamo abbracciate e ci siamo date un bacio, le ho detto che per questa volta non potevo andare con lei dalla nonna, ma che non è improbabile rincontrarsi un giorno per giocare ancora, magari su un altro treno in corsa ad energia propulsiva “verso il bambino”. S. ha quattro anni, quattro anni complessi e sinceri che in me hanno lasciato molto più di una semplice sfoglia di sé e non hanno svuotato un posto, ma l’hanno riempito.

Mood: in rapido recupero (a te, grazie, perché ci sei)
Reading: Reif Larsen, Le mappe dei miei sogni
Listening to: Kings of Leon – Cold Desert
30 Seconds to Mars – This is War
Eating: ciò che avanza nel frigo e va consumato
Drinking: tanta, tanta acqua, ho abbondato col peperoncino



Casa. Trolley e/o valigia. Stradastradastrada. Aereoporto. Check-in, al bisogno. Imbarco. Aereo. Posto xx. Decollo. Atterraggio. Sbarco. Recupero bagagli, al bisogno. Stradastradastrada. Casa. Sempre trolley e/o valigia.
Negli ultimi anni lo spostamento è diventato una costante della mia vita, talvolta percorro lunghe distanze anche più di una volta nel giro di una settimana, tutto d’un fiato o a tratti. Mi guardo nelle porte a scorrimento di un’aereoporto o di una stazione e riconosco in me la giovane viaggiatrice che ho sempre sognato di essere, con la valigia fatta all’ultimo secondo, povera di vestiti e carica di emozioni tutte stropicciate.


Domani parto per Amsterdam, raggiungo papà e mamma e sorella. Disastri meteorologici permettendo e ritardi secolari.
Intanto galleggio nel disordine che sempre comporta il tentativo di costringere la mia vita dentro una valigia in una sintesi striminzita e costantemente imperfetta, prima di lasciare un posto per un altro.
Mucchietti di vestiti, quelli da portare, quelli da lasciare e gli ultimi panni stesi ad asciugare per tutta la casa, sui mobili e sui termosifoni. Pile di libri e pile di fogli, quelli da portare, quelli da lasciare e penne e matite sparse sul suolo e tra le lenzuola. Collane di musica e canzoni, quelle da portare, quelle da lasciare e macchine fotografiche e rullini e schede di memoria e via così.
Di fronte alla valigia, il mio è un disordine tanto concreto quanto emotivo, ha molto a che fare con l’intimità, con chi sono e chi non sono, chi sono stata e chi non voglio più essere:

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Proprio per questo stavolta trovo particolarmente difficile fare la valigia. Niente a che vedere con le pelli di montone da farci entrare per affrontare l’inverno sui polder, chè tanto ho sviluppato una personale metodologia per far entrare in valigia il possibile e l’impossibile, all’occorrenza. Tutto a che vedere, invece, con l’ontologia.

Sì, è uno strano momento, lo avverto fisicamente, mi stringo i polsi, in vena mi scorre un’onda frequenza silenziosa, non dolorosa, non angosciante, ma sottile, penetrante.
Ho bisogno di far posare i pensieri.

A distanza di cinque anni, l’Olanda resta per me una meta emotivamente molto forte. Allora avevo sedici anni e la vita crepata da due. Per un mese, sono stata lontana da casa e da tutto quello che mi era familiare, ho vissuto in Olanda con mio zio, lavoricchiato in un suo piccolo alimentari con mia cugina, per lo più mi sono cercata disperatamente, dilaniata tra il desiderio di “fare strage di me” e quello di “restare in piedi e non avere paura”. Per questo sono stata lontana da casa e da tutto quello che mi era familiare e per questo sono andata in Olanda. Era la mia prima volta.
A distanza di cinque anni, ne ho percorsa di strada, tanta davvero e ho avuto coraggio, sono cresciuta. Non ho più tempo per vivere nel passato, piuttosto lo recupero per distendere le pieghe e perdonarmi finalmente, riconciliarmi con me stessa. Ho raggiunto la dose di stabilità sufficiente per presentarmi al faccia-a-faccia con la ragazzina che sono stata come la donna che sono oggi, dimostrarle che non abbiamo più nulla a che vedere l’una con l’altra ed allo stesso tempo tutto a che vedere. Sorriderle ed abbracciarla, e sollevarla, respirarle dentro aria pulita, rassicurarla, dirle di non passare la vita a morire dentro perché sa ridere forte da spaccare i cristalli, che arriverà il bello ed ancora il brutto, ma lei potrà essere debole, piangere e avere paura, essere umana perché anche in questo c’è coraggio e sarà più facile star bene. Ringraziarla per la donna che sono oggi. Non più un rewind, ma un flash forward.

Sì, è uno strano momento, lo avverto fisicamente, mi stringo i polsi, in vena mi scorre un’onda frequenza silenziosa, non dolorosa, non angosciante, ma sottile, penetrante.
In verità, è solo un po’ di tensione. E’ sufficiente non ingigantirla perché torni il sereno.

E’ ora di fare questa valigia e chiuderla.
La mia famiglia è già lì, mi sta aspettando. Io sola manco. Ed in verità, non vedo l’ora di stringere tutti in un abbraccio collettivo.