Avere le scarpe al contrario
aprile 13, 2012
Mood: vegetativo post nottataccia
Reading: Nick Hornby, Non buttiamoci giù
Listening to: Mina Mazzini – Io sono il vento
Watching: la pioggia che si attacca alle finestre
Eating: caramelle Ricola LemonMint, l’assenza della cucina di mamma si fa sentire tanto più se il frigo è vuoto
Drinking: acqua
Quando ho lasciato l’Olanda per l’Italia passando per la Germania, ieri pomeriggio, provavo il solito sentimento misto di nostalgia ed euforia che mi assale a ogni nuova partenza. Succede così alle persone di tutto il mondo che dicono Casa non quando hanno un tetto sulla testa ma quando sentono i piedi stare saldi al terreno le scarpe adeguate e questo tipo alternativo di Casa – si capisce? – non ha problemi logistici burocratici legali può essere piazzata un po’ ovunque in mezzo a milamilioni di esseri umani, per esempio ho visto giustappunto ieri su un’autostrada olandese una casa di legno sopra un camioncino una casa di legno tutta pronta pareti porte e infissi per essere abitata dopo esser stata piazzata così mi ha detto papà e io ho pensato sono un po’ come quella casa pronta per essere abitata, ma molto più impalpabile, molto meno concreta e insomma succede così alle persone di tutto il mondo quelle come me succede che sentono la mancanza e il desiderio di tanti luoghi – si capisce? – emotivi più che geografici tutti quanti insieme e poi un po’ si sentono confusi, occorre sempre un grande sforzo per andare e un grande sforzo per restare.
Quando ho lasciato l’Olanda per l’Italia passando per la Germania, ieri pomeriggio, io mi stavo sforzando, ma tanto e non solo perché così succede alle persone di tutto il mondo quelle come me quando devono andare o restare, ma anche perché io provavo la sensazione scomodissima di avere le scarpe al contrario i lacci ingarbugliati le suole impiastricciate e di non sapere cosa non lo so, forse di non sapere cosa sapere perché nella vita c’è sempre bisogno di sapere qualcosa sennò ci si sente scomodi come mi stavo sentendo io. Adesso, a onor d’onestà, sono giorni forse un mese che mi sento molto scomoda tra un sorriso e un altro e vario da una condizione a un’altra opposta con estrema facilità, se c’è una cosa peggio di tutte le altre è quando non riesco a starmi dietro, vado troppo di corsa e mi viene il fiatone, mi si gonfia nella laringe un nonsochè come una poltiglia, dolore credo nero denso grave mi si gonfia nella laringe e non fa passare l’aria sicché per alleviare il fastidio io continuo a cacciarmi le mani in gola e a suonare forte le corde vocali pizzicarle sfregarle nella speranza di urlare come quando
una notte ho sognato mia nonna che è morta e nel mio sogno mia nonna che è morta era la prima ballerina di uno spettacolo del Mouline Rouge, stava tutta torta e rinsecchita dentro la sua bara che oscillava a metri d’altezza attaccata al soffitto per delle funi tese da un paio di ruzzulani e io lì a guardare che ne avessero cura non la sballottassero troppo facendola piroettare e poi all’improvviso i due ruzzulani hanno calato la bara con dentro mia nonna che è morta e lei ha vomitato un rivolo di sangue giù per una ruga e come se questo l’avesse rianimata come se tutto il sangue fosse tornato a gorgogliare mia nonna che è morta si è alzata mi ha guardata e giuro non faceva nessuna paura voleva rassicurarmi tranquillizzarmi offrirmi una possibilità e quando mi ha abbracciata io le sono caduta in mezzo alle braccia sono caduta in ginocchio di peso e ho iniziato a urlare che sembrava non avrei finito mai che sembrava che mi stessi liberando persino degli organi, urlavo e non avrei mai finito se non quando mi fossi svegliata,
così
pensavo e c’era la luce dorata ad avvolgere l’Erasmusbrug i palazzi vetrati del porto di Rotterdam in lontananza dall’autostrada che porta a Dordrecht Utrecht Havens e pochi chilometri dopo, svoltando per Gorinchem c’erano le nuvole viola pesto a imbrogliare i prati sconfinati le poche costruzioni l’intreccio delle strade e quasi non volevo crederci che già a un angolo dell’orizzonte c’era l’arcobaleno solido e spezzato in cima simile a un marshmallow e che soltanto dopo l’arcobaleno è arrivata la pioggia a chicchi grossi poi a aghi sottili e di nuovo a chicchi grossi verso Venlo Nijmegen Köln fin quando al confine con la Germania non è ricomparso il sole uno spicchio sanguigno di prepotenza che la terra stava inghiottendo per illuminarsi bruciare col fuoco da dentro prima della notte, sembrava che per tanti chilometri noi non avessimo fatto altro che inseguire lo spettacolo finale, in Olanda, un momento prima c’è il sole quello dopo la pioggia così mi ha detto papà e io ho pensato – si capisce? –
Paradossi Cardio(a)ritmici
ottobre 7, 2011
Mood: stranamente ansiogeno
Reading: Salvador Dalì, La mia vita segreta
Listening to: la ventola del computer che si incazza e minaccia di andare in orbita
Watching: disordini
Eating: chissà quando se non mi sbrigo a cucinare qualcosa
Drinking: effettivamente necessiterei litri liquidi alcolici
Dopo più di due anni di totale assenza dalle scene sanitarie per la noia di sentir prima ricondotto ogni mio malessere fisico alla somatizzazione e per il cipiglio di sentirlo poi elevato senza ragioni sufficienti a grave male degenerativo, dopo più di due anni di totale assenza dalle scene sanitarie, dicevo, mi sono persuasa per forze di causa maggiore ad andare a far visita al mio medico curante che, effettivamente sorpreso, mi ha chiesto se non mi avesse per caso costretta mia madre. E, dopo i convenevoli di rito, ‹‹Come stai?››, ‹‹Alla grande!››, non iniziamo subito con la storia della somatizzazione, ‹‹Dove vivi?››, ‹‹A Milano.››, ‹‹In che zona?››, ‹‹Sui Navigli.››, ‹‹Mia figlia anche sta a Milano…››, eccetera eccetera, andiamo al dunque che c’ho da fare, gli ho raccontato che da quando un giorno di qualche mese fa sono caduta al suolo come una pera marcia dal suo pero in mezzo ad un gregge umano nel cesso pubblico di un multisala, continua costantemente a girarmi tutto intorno alla testa, poi improvvisamente e frequentemente la testa suddetta mi si svuota e mi affloscio, ma cosa assai peggio ed imbarazzante – che tanto di tenermi su mi riesce per il momento – mi sciolgo in un bagno di sudore, sospetto di soffrire di violenti cali di pressione, gli ho raccontato anche, subito, subito, che, non stia a chiedermelo, tutto questo mi succede per lo più in spazi chiusi o molto affollati, sono affetta da claustrofobia io e contemporaneamente dalla smania di tenerla sotto controllo, e frequentemente quando provo dolore e disgusto, ciò è strano, ché io ho una soglia di sopportazione del dolore molto, ma molto elevata, e che, neanche s’immagini di domandarmelo, ho una vita dai ritmi stressanti, dormo poco e male, lavoro tanto e vanto una tragedia shakespeariana per vita sentimentale, disastrata e priva di certezze, ora più che mai confusa, sicché neanche provi a tirarmi fuori la storia della somatizzazione, so da me, voglio solo controllarmi con degli esame del sangue, una cernita di valori, nero su bianco, me li prescriva, che tra le varie sono anche vegetariana e nell’ultimo periodo non mi sono alimentata da brava vegetariana, nonostante possa vantare un ciclo mestruale stabile, e non si sa mai.
Al che il mio medico curante mi ha puntato al cuore lo stetoscopio che è un aggeggio che mi affascina decisamente e massimamente, al punto che, dovessi possederne uno, rischierei la dipendenza da auscultazione delle mie viscere. ‹‹Sei agitata?›› mi ha domandato il mio medico curante, ‹‹No! Sto un pascià!››. Allora mi ha punzonato il dito con un altro aggeggio elettronico che schizzava bmp a caratteri squadrati gialli e non me lo ha tolto fino alla fine della visita, ‹‹Lo vedi?, questa è la tua frequenza cardiaca regolare››, 102,103,108, e mi ha notificato che normalmente il cuore di un adulto ha frequenza regolare di 80 battiti per minuto, da che ho dedotto che io non rientro nella famiglia “Normalmente”, dovremmo vedere, fare, controllare questa dinamica, in verità sono anni che ci provo, gli ho detto, ma nessuno sa dirmi niente ed io resto col cuore in gola vita natural durante.
‹‹Questo fatto che il tuo cuore è sempre in corsa con se stesso…›› ha esordito ad un certo punto il mio medico curante per dirmi che questo fatto è un problema da non sottovalutare nella diagnostica della problematica e per lanciarsi infine in una lunga spiega che accompagnava con una mano misurandomi la pressione, ‹‹Regolare››, con l’altra mimando il mio cuore come fosse una pompetta, ‹‹Lo vedi? Il cuore fa così››, solo che il mio, pulsando tanto rapidamente, ‹‹non ha il tempo sufficiente per pompare bene il sangue in tutto il tuo corpo e nemmeno per riempirsi a sufficienza di ossigeno››, sicché a me viene da mancare, negli atleti, dovrei saperlo, sono un battito cardiaco ed una respirazione regolari il passpartout per le migliori prestazioni!, e poi non dobbiamo svalutare le crisi di panico, che sarò anche brava a controllare, ma mica sempre!, ed il dolore che ‹‹mia cara, stende anche i più forti.››, ché c’è un comportamento fisico, m’ha spiegato, o qualcosa di simile, per cui il cuore rallenta all’improvviso il suo ritmo usuale, sicché il mio, che d’uso batte accelerato, non riconosce quella nuova aritmia ed a me ugualmente viene da mancare.
Ad ascoltare il mio medico curante, a me è venuto da sorridere, quasi da ridere, ché appena recepite queste parole, direi fin dalle prime ineluttabili, ‹‹Il tuo cuore è sempre in corsa con se stesso››, il mio cervello s’è messo in opera per definire e ridefinire strutture e sovrastrutture, sensi e sovrasensi scientifici ed emotivi, a me lo racconti che il mio cuore è sempre in corsa con se stesso?, a me proprio che sono condannata a sentirmelo ogni giorno nelle vene, ed esserne animata, incalzata, bruciata!
Mi riempio gli occhi di strade e stazioni, di esseri umani comuni, ma sopra le righe e di storie e racconti di gioie e dolori che sono tanto i miei, quanto i loro e di corolle di amori, do nuovi nomi alle cose ed al centro di questa ritmica incalzante mi si dispiega nello stomaco il sentimento stesso della vita, la sua complessità e la sua bellezza, come posso spiegarlo diversamente con le parole?, lo spazio sconfinato ed estremamente essenziale che interconnette me a quello che è fisicamente fuori da me, ma emotivamente già dentro di me. Il mondo mi colma e mi nutre ad ogni palpito ed io, che pulso tanto veloce, raccolgo più ossigeno nei polmoni, non meno, diffondo più sangue in vena, non meno!
Eppure.
Talvolta, tra una strada ed una stazione, mi coglie impreparata il ritmo del mio passo solitario, comincio ad andare oltre più adagio, meno spasmodicamente, mi appesantisco. Negli anni, ho sviluppato concezioni di vita che travalicano il senso comune, imbevute di platonismo, amore e casa prima di ogni altri sono diventati per me eteree ed incorruttibili parentesi di condivisione nel corso del viaggio. Eppure a dispetto di tutto ciò che di ascetico e di fuori le righe penso e faccio, “una qualunque” ci sono nata e ci sono rimasta anch’io, mi è toccato crescere prima di riuscire a raccontarmelo in serenità. È questa la mia umana contraddizione in cui si annida, guarda caso, il desiderio di un passo che si confonda col mio, un comunissimo desiderio di stabilità nel mio caso emotiva, più che propriamente geografica. ‹‹Beata te›› mi dicono quando racconto delle mie pratiche di nomadismo ‹‹Per tutto l’amore che non ho, anche per questo›› ho confessato l’ultima volta ad un’amica fidata, ché ora, per dirla pane al pane, vino al vino, sempre a dispetto di tutto il mio sistema filosofico plurinominato e non rinnegato sul movimento come condizione necessaria al sentire la vita per intero e complessa e sul sentire la vita per intero e complessa come condizione necessaria al nutrimento dell’anima, nei miei vagabondaggi convivono anche tutte le folgoranti possibilità del non essere legata a niente e nessuno in particolare come “una qualunque” e la speranza timida di un giorno diverso da questi in cui stringere tra le mani i miei sogni lontani da “una qualunque”, quelli su un buon motivo per cui smettere di andare oltre spasmodicamente in primis. Non che io non ne abbia mai riscontrato nessuno, anzi, in tutta onestà, ce n’è in particolare uno che mi assilla, ma, non nascondiamocelo, mai un “Baby, please don’t go” come quello che gorgheggia nelle radio a mezzanotte, che imbarazzo io che sogno ed aspetto una professione sentimentale così tanto banale, ma ebbene sì, talvolta l’aspetto. Voglio dire, i buoni motivi per cui smettere di andare oltre spasmodicamente, finanche quello in particolare che mi assilla, mi si sono affacciati al cuore eccome, ma sono stati miseramente sviliti e snaturati dalla consapevolezza di restare ancora una volta miei soltanto e di nessun’altro, iperglicemica monnezza non condivisa. Questo certe volte, ché certe volte altre invece andare oltre spasmodicamente si è rivelato per me più facile, meno compromettente e più opportuno che restare e soffrire ancora, intendo quando i buoni motivi per cui smettere di andare oltre spasmodicamente hanno iniziato a svilupparsi e sviluppandosi mi hanno fatto paura.
In buona sostanza, quando talvolta tra una strada ed una stazione, mi coglie impreparata la crisi da “una qualunque” ci sono nata e ci sono rimasta anch’io, mi sembra che la mia vita intera annaspi in un corollario di strade e stazioni ed esseri umani e storie e racconti e gioie e dolori ed amori interrotti o esauriti nel ciclo di un attimo, di cui non restano che le briciole come eroiche vestigia al limitare della strada di cui non m’è dato sapere se sarebbero diventati castelli semplicemente perché sono andata oltre spasmodicamente. Allora il mondo mi scivola via dagli occhi ad ogni palpito, strano, fino a poco prima erano colmi, o almeno così mi pareva, adesso invece mi sembrano disabitati, ed io che pulso tanto velocemente, raccolgo meno ossigeno nei polmoni, non di più, diffondo meno sangue in vena, non di più!
Per farla breve, paradosso cardio(a)ritmico migliore non avrei potuto fantasticarlo. A volte mi ritrovo a pensare che prima o poi dovrò smettere di essere in corsa con me stessa e di professare la vitalità e l’equilibrio della squilibratezza per allenarmi invece ad una qualche forma di regolarità più comunemente intesa. Ne gioverebbe anche la salute, pare. Ma che pretendo?, non sono nata per far l’atleta io! Pur volendo, non me ne sono stati forniti i connotati neanche biologicamente!
Annotazioni Sparse Strada Facendo, Ancora Di Vita
luglio 26, 2011
Mood: rintonito
Reading: Quando si perde l’occasione di tacere, un minuto di silenzio, no, di più, molto di più.
Listening to: Coldplay – Every Teardrop Is A Waterfall
Watching: le pareti troppo spoglie di questa casa
Playing: a cacciare insetti indesiderati ed indesiderabili
Eating: Tuc donatimi da Zulio prima di balzare sull’ennesimo treno, in alternativa acqua salata con la forchetta, ovvero la gioia di tornare a casa a Milano per una giornata appena, sapendo vuota tanto la dispensa, quanto il portafogli
Drinking: acqua naturale
Se di nuovo mi diletto a vagabondare senza mai predefinire con troppo anticipo il momento di uno spostamento, tirandomi dietro una valigia riempita senza criterio un pomeriggio d’inizio mese, all’improvviso e da allora mai svuotata in un armadio qualsiasi, foss’anche quello della mia casa materna, è a causa di una sensazione di disagio ed irrequietezza tanto violenta da diventare nausea fisica, che mi riconduce a star bene in tanti luoghi piuttosto che in uno solo, cogliendo di ognuno le visioni e gli umori, ma andando via prima di anche solo correre il rischio di vederlo sfiorire giorno dopo giorno, fors’anche di vederne schiudersi le gemme. Non solo. Ci sono una manciata di momenti ben localizzati nella mia vita ultima, a partire dai quali ogni risveglio ha iniziato ad agitarsi nell’urgenza spasmodica di vivere e vivere per intero, di circoscrivere in un angolo soffice del cuore tutto quanto fin’ora è stato ed ho amato e tutt’ora amo di più, ma che in un modo o nell’altro, per un motivo o per l’altro mi ha frenato il passo, mentre la vita mi passava sotto il naso più e più volte ed io la lasciavo andare. Circoscrivere in un angolo soffice, che non significa chiudere gli occhi e rinnegare un’importanza o cercare di dimenticare, non è nei miei tentativi, né mai sarebbe impresa possibile, piuttosto ridimensionare sullo sfondo eventi e figure in primissimo piano con cui ancora fatico a fare i conti, quindi portare dentro ed andare avanti, lasciando che il tempo muti lo sguardo ed il sentimento per poter esserci ancora, ma libera da ansie o aspettative folli, ho bisogno di ciò che amo, ma non voglio più aver bisogno di ciò che non posso avere così come lo vorrei, è pura insania. Prendo le distanze da tutto quanto fin’ora è stato ed ho amato e tutt’ora amo di più per curiosità e speranza e fiducia di ciò che ancora deve venire perché c’è sempre qualcosa che è ancora a venire, sempre qualcosa che ancora non s’è fatto e visto e ascoltato e assaggiato e toccato e odorato o semplicemente non a sufficienza, l’uomo che seduto per terra canta per sé soltanto e per la notte accompagnandosi con la chitarra, la malia del bucato appena steso ad asciugare e delle creme da corpo lungo le calli, l’immobilità di una mendicante nel tramestio dei turisti, la malinconia di un vaporetto a festa finita, certa musica in una terrazza sospesa sull’acqua come lingua languida, l’ebbrezza nella pioggia e nel vento forte che scompone la carne, il respiro della montagna, le cartografie luminose a valle quando cala la notte, la grappa al liquore, l’albero solitario negli ultimi accenni del tramonto, le vibrazioni dell’aria all’avvicinarsi della tempesta, la tazza di caffè bollente come un focolare, la coppa di un fiore che si scompone ansimante quando un’ape vi si immerge, la confidenzialità di certe discussioni, il rifugio con il camino acceso, i canti degli alpini che dal fronte vogliono volare dalla loro bella, la curiosità di un bambino nei confronti di una bambina che lo ignora, la crostata di more e mirtilli, il silenzio carico di emozioni prima del lancio di un parapendista e lo schiocco del vento che gonfia la tela, la vacca che allatta il suo vitello e lo protegge da sguardi indiscreti, il ragazzo che da me non vuole nient’altro che potermi aiutare con la valigia più grande di me all’uscita della metro, certe parole nella posta privata di feisbùck, nel dettaglio più insignificante, che sia per caso o per intenzione, ci può essere la comunione di più intimità, l’amore quel pluricitato, in verità l’amore è sempre laddove si è pronti a riconoscerlo. Quanto siamo banali, noi uomini, tutti bisognosi d’amore!, ci spingiamo a cercarlo per miglia e miglia perché ce lo immaginano immenso e brillante come una Via Lattea, l’amore, e non siamo capaci di renderci conto di quanto ci stia vicino, ché lui, l’amore voglio dire, sta nelle cose immensamente piccole di ogni giorno, e mentre così ciechi scalpitiamo e ci dimeniamo come tartarughe obese in un acquario troppo piccolo, ci inaridiamo, un pertugio di cuore oggi alla rabbia, uno domani al rancore, cesellati ed articolati ad arte attorno ad un tavolino mentale esclusivo. Ci inaridiamo per amore, noi uomini, grandissimi imbecilli che non siamo altro, capaci di scappare davanti all’amore! Eppure, ho l’impressione che tutto quello per cui vale la pena viversi questa vita sia proprio l’amore per quello che è perché non c’è viaggio più breve della vita per consumarlo in cantina.
Ammetto che è stato un fiotto di rabbia a lacerarmi senza troppi preavvisi da tutto quanto fin’ora è stato ed ho amato e tutt’ora amo di più, ma nella mia rabbia c’era e rimane tutta la nenia disperata dell’amore vissuto e sognato e negato e semplice e articolato e delicato e violento e fraterno e passionale e via così.
Perciò in questa scarpinata sulla distanza, tocca fare i conti non solo col desiderio di allontanarmi ed allontanare da me per guadagnare terreno sulle possibilità della vita, ma anche col dolore che procura allontanarmi ed allontanare da me. Penso che sarebbe bello al massimo se ad accompagnarmi ci fossero solo la consapevolezza di una necessità propulsiva improrogabile e indiscutibile e la curiosità e la speranza, ma un passaggio così lineare tra i giorni non potrebbe mai essere il mio perché di me fanno parte il conflitto e la complicazione, motivo per cui mi affatico, trascinandomi dietro un nugolo recalcitrante di ossessioni che mi richiamano indietro, gli odori in primis, che sempre io avverto troppo saturi ed allego ad immagini e suoni e sensazioni, gli odori nel tempo, riconosciuti per strada e riscoperti intrappolati tra le pieghe dei vestiti e negli angoli delle case che appena s’inviano su per il naso arrivano dritti al cuore e lo intasano, spezzando il rosario di pietra incandescente che custodisco all’interno e rovesciandone tutti i grani sottopelle, tum tum tumtum tumtumtum, sbam!, il terrore puro e asfissiante, acquattato nei sogni di ogni notte e sempre più ingestibile, che qualcosa o qualcuno faccia male ancora a chi più amo, secondo l’interpretazione dei sogni dovrei lasciar che nel sonno succeda tutto il peggio, finanche la morte, perché questo significherebbe la capacità conquistata di accettare una rinascita reale, evidentemente io ne sono ancora nuda, di contro ogni volta che salgo in una macchina l’immagine costante di un incidente stradale, lontana da tutto e tutti e a mani vuote e senza voce perché non avrò saputo raccontarmi.
Senza voce.
Senza voce…
Rifletto su quanto la mia esuberanza possa essere anche una talentuosa apparenza in cui si inabissa una delicata propensione implosiva. Ho imparato da subito a non temere il silenzio, a camminarci attraverso, senza l’affanno di riempirlo oltremodo ed inutilmente di parole e musica. Nel silenzio sento la vita in espansione ed è una sensazione essenziale e quasi misterica, come se vivessi tante vite in una sola, io esisto, esito e voglio esistere sempre di più perché in me l’esistenza racchiude una potenza febbrile che non coincide con la felicità e la leggerezza che sento spesso mancarmi, ma che le contiene entrambe assieme al dolore, l’esistenza non manca di nulla.
Tuttavia, in questa conchiglia che raccoglie tutte le armonie, spesso il silenzio, incapace di aprirsi una sola bocca verso l’esterno e da quello farsi ascoltare quando dovrei parlare e urlare e cantare, implode in se stesso con un boato sordo e si travalica per divenire vuoto senz’aria. Allora per far stare in piedi la struttura, riempio il sacco come posso, come meglio mi riesce, suonando una partitura sempre più caotica ed intima. Ecco, a volte temo soltanto che, a lungo andare, la mia partitura diventi sempre meno accordabile a quella di qualcun’altro.
Per questo scrivo costantemente, è il mio tentativo di non nascondermi, tanto agli altri, quanto a me stessa perché di tanto in tanto torno a leggere e nello scarto tra chi ero e chi sono scopro un qualche cambiamento che poi è indice di un cammino perpetrato e questo, intendo la scoperta di compiere dei passi, anche se irregolari, in avanti quando invece mi sembrava che tutto fosse immobile, questo mi rende più forte.
Oggi avverto l’avanzata concretamente e quotidianamente nel mutare del corpo e dei pensieri, certamente è una tale rapidità a darmi tutte insieme le vertigini calde e gelide che tanto mi spossano. È una partita all’equilibrio tra i tempi e le emozioni ed i desideri che ho messo in movimento e ormai sono diventati inarrestabili, a meno di non ritrovare la loro adeguata dimensione. Che fare, allora, se non avanzare? Dopotutto il sentimento della vita ha in me lo stesso effetto incalzante che avrebbe un peperoncino infilato su per il deretano!