Inguacchio filosofico
marzo 16, 2016
Mood: azzurro
Reading: plus1gmt, il nome della cosa
Listening to: fip fm
Watching: Removed by Eric Pickersgill
Eating: frutta e mandorle
Drinking: caffè
Ne l’Eremita a Parigi – che non ho letto integralmente, confesso – Calvino scrive: “Tutto può cambiare, ma non la lingua che ci portiamo dentro, anzi che ci contiene dentro di sé come un mondo più esclusivo e definitivo del ventre materno.”
In Olanda la gente di tutto il mondo va e viene – in pochi si resta. Per questo parliamo l’inglese, chi meglio chi peggio e ognuno col proprio accento – per carità, l’importante è farsi capire. Dopotutto perché, esattamente, varrebbe la pena di imparare l’olandese se già sappiamo, prima ancora di arrivare, che presto o tardi ce ne andremo? Pare che l’olandese sia parlato da appena 23 milioni di esseri umani al mondo. Uno sputo rispetto alla popolazione mondiale – 7 miliardi secondo le stime più recenti. Per di più, l’olandese è un pastrocchio senza spina dorsale, poco meno che una lingua rimaneggiata attorno ai tavolacci dei pub, un delirio di eccezioni. Tanto meglio l’inglese che così diventa in Olanda la lingua universale della provvisorietà.
Da due anni mi esprimo in inglese: parlo in inglese, leggo in inglese, scrivo in inglese, da un anno, a volte, non sempre sogno persino in inglese e sono in grado di identificare la nazionalità delle persone attorno a me da come parlano l’inglese. Ciò nonostante il mio inglese continua a essere inesatto e se posto di fronte alle mie emozioni, raramente è in grado di rappresentarne la complessità. A volte cerco per giorni una parola specifica all’altezza di quello che sto provando, ma quanto più la cerco, tanto più ho la sensazione che questa parola non esista: ogni lingua riceve forma e spessore, nonché gratificazioni e limitazioni dall’ambiente specifico in cui si è sviluppata. Senza andare troppo nel dettaglio, il fatto che io abbia affinato le mie emozioni nell’italiano ha anche a che fare con un certo modo di relazionarsi al mondo e di raccontarlo.
Del mio rapporto intellettuale con l’italiano ho fatto un cavallo di battaglia. Ne esalto l’attitudine a rendere visive e sonore le più sottili sfumature del pensiero e dell’immaginazione, la pienezza dei significati e le loro iperboli evocative. Di tanto in tanto desidero di tornare per sempre in Italia soltanto per poter parlare l’italiano a più non posso, ma purtroppo tutto il resto lascia a desiderare in Italia per cui non se ne fa mai nulla. Più di una volta, invece, ho dichiarato senza ripensamenti che mai e poi mai scriverei in inglese per puro piacere: io sono affascinata dall’idea di impastare e rimpastare il linguaggio, di lavorare di cesello tanto quanto è necessario a raggiungere il cuore di una storia e a circoscriverlo con la maggiore precisione possibile. Nulla che si lasci avvicinare senza una certa padronanza linguistica.
Detto ciò, non si creda che il mio italiano sia passato illeso attraverso questi tre anni in Olanda. Ci ha rimesso la quotidianità e di conseguenza ha perso scioltezza e ricercatezza, si è appiattito su un formulario anonimo e generico. Di recente sentirmi parlare in italiano mi procura un fastidio senza eguali. E questa circostanza, esacerbata da un inglese lacunoso e privo di picchi espressivi, mi sprofonda del disagio più assoluto.
Per me è essenziale riuscire a esprimermi con esattezza. Mi sembra che i miei sentimenti siano ottusi e che la mia interiorità si assottigli quando le mie capacità espressive si rivelano insoddisfacenti. Vivo a stretto contatto con una certa urgenza di indagare e raccontare il mondo attorno a me dall’interno delle emozioni che lo scuotono e dell’alto delle sue manifestazioni fantasiose. La scrittura in particolare è per me uno strumento interessantissimo per mezzo del quale cristallizzare la comprensione profonda di un momento. Ma dacché non sono esattamente a mio agio con nessuna delle lingue che conosco, mi sembra di aver perso forza conoscitiva e visionarità. Nei momenti di peggiore frustrazione ho l’impressione che sulla superficie del mondo si aprano molteplici zone di inconsistenza e io vagolo per giorni dall’una all’altra, incapace di contrapporre loro l’unica arma efficiente, il linguaggio…
“Quando in alto il cielo ed in basso la terra non avevano ancora ricevuto il loro nome, niente esisteva….”
[Enûma Elish]
“Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu.”
[Genesi, I, 3]
Certo che così messa, questa faccenda ha tutto il sapore di un grosso inguacchio filosofico.
Adamo e Eva, una variazione
luglio 8, 2013
Mood: frastornato
Listening to: il vento che smuove le venezione alle finestre
Watching: le bruciature che mi ritrovo in faccia dopo aver cercato di curare certe ferite con un sedicente cicatrizzante
Eating: orecchiette e broccoli
Drinking: acqua e magnesio
Ecco un luogo al quale sono abituata: il suo fianco. Ogni volta che ci stendiamo vicini sembra di giacere l’uno dentro l’altra a tal punto le nostre forme, dando l’idea di venire l’una dall’altra, si ritrovano.
Così stanotte, malgrado sia arrivata da tanto lontano, dal centro di tutte le precauzioni per tenerci a distanza.
Per un lungo tempo non ho mai azzardato a rivederlo. Lui avrebbe cercato di riprendermi dentro il suo fianco, volendomi ma non amandomi. Io non sarei tornata libera, amandolo con limpida perseveranza e titanica fede. Ci saremmo avvitati per così dire nella gola spirituale del nostro sentimento fatta di carne e sangue, tra molte frane di malinconia e rodimenti d’infelicità comunque meglio di un’abiura irrevocabile. Come ci fossimo congeniti e seppur altrimenti necessari.
Se non altro, così piantati l’uno dentro l’altra, nessuno sarebbe mai più stato leggero.
Evasi un giorno.
Mi ha raggiunta a bruciapelo, come sempre. Ho l’impressione che lui studiasse e programmasse a tavolino il crollo delle mie difese, che si mettesse in un qualche modo sereno e concentrato a valutare i miei spostamenti e le possibilità di cedimento del sottosuolo, in attesa di disporre del giusto connubio di coincidenze per poter sparare un solo colpo di pistola che, producendo la minor vibrazione di preavviso possibile, mi colpisse e mi togliesse il fiato.
«È morto.»
Nella stanza bianco su bianco inferno al terzo piano dell’ospedale, ci sono troppe, ma troppe persone raccolte ai piedi del letto dove lui giace. Oscillano avanti e indietro perfettamente rigide sui talloni e emettono in gruppo un ronzio accordato in basso che penetra e crepa il sottofondo aderendo con puntualità a una lunga linea piatta.
Le ho percepite, non appena entrata nella stanza, tutte legate a lui una per una, ma tra loro tutte slegate: lo condividono in vario modo e sottoscrivono lo stesso lamento, ma si ignorano a vicenda, essendo messe una per una dentro campane di vetro, lui faceva così.
Decisa com’ero a vederlo al di là della loro barriera, le ho aperte a gruppi, superate, calpestate. La disperazione mi ha restituito una fiducia furiosa. Nessuno mi aveva parlato, detto «Sta per morire» prima di dirmi «È morto».
Ma se guardo al passato, a volte immaginavo che sarebbe finita proprio così.
Aveva iniziato, a un certo punto, a ubbidire a una qualche motivazione interiore che lo spingeva a consumare la strada a un’andatura impazzita e un po’ cieca, su una motocicletta sgangherata. Non si fermava mai, sembrava che l’unico brio gli arrivasse dal sibilo della velocità nelle orecchie, bruciava storie e persone. Di tanto in tanto qualcuno gli stringeva i fianchi dal sellino posteriore, poggiava il mento nell’incavo della sua spalla. In momenti di aderenza così teorizzava che la vita potesse assumere una direzione, era felice davvero, ma con nessuno di quei qualcuno durava più di un pugno di chilometri.
Alla fine, è successo: si è staccato in curva dal sellino della sua motocicletta ed è stato trascinato dalla velocità per metri e metri. L’asfalto se l’è bruciato allo stesso modo in cui lui faceva con le storie e le persone – smangiucchiandole rapidamente –, gli ha scomposto le ossa, preso i denti e brandelli di carne, persino una mano e scoprendolo ho sentito la forza scivolarmi dalle ginocchia,
le sue mani, le sue meravigliose mani. Ho pensato a tutti i tentativi di scrivere un’ode alle sue mani senza mai trovare parole adeguate. Le ho riviste magre e nodose lungo la mia schiena, attorno a una matita, tra le pagine di un libro, sempre incapaci di toccare, ma solo di sfiorare, suggerire, accarezzare, nonostante la decisione e la forza espressa in ogni movimento. Ho ricordato di quando sembrava che potessero stringere l’aria, rendendola concreta e palpabile, modellare i sogni. Mi emozionavano le sue mani, mi sono innamorata di lui mentre massaggiando le mie tra le sue mani una notte mi ispirò i racconti più lucenti e rivolgendo i palmi contro i dorsi e i dorsi contro i palmi spaziò dalla terra al cielo. Adoravo le sue mani al punto che, entrando nella nostra storia, mi sembrava di dover provare vergogna delle mie, a causa del fatto che sono corte e grasse, con la pelle ruvida e arrossata acchiappata a ossicini contorti, prive di grazia per quanto cerchi di educarle, ma lui mi disse che trovava bello il modo in cui vibravano tra le sue.
Mi faceva così male che l’asfalto gli avesse preso persino una mano.
Rattrappirmi era quanto meno.
E mentre così mi ripiegavo su me stessa per attutire i crampi del dolore, tutte le persone raccolte ai piedi del letto dove lui giace mi sono sembrate sufficientemente lontane da essere di nuovo soli, lui e io come ai primordi.
Andiamo, mi scongiurava, producendo il richiamo con gli avanzi della sua esistenza.
Io l’ho guardato per un po’. Di fronte al suo corpo sfigurato ho sentito il mio di prepotenza: ogni tessuto, ogni muscolo, ogni osso, ogni cellula pulsava così tanto dall’interno verso l’esterno che sembrava dover strabordare per ogni angolo del creato. Tutto il mio corpo implorava di vivere. Ma come succede quando viene a mancare il fiato perché qualcun altro ha le mani attorno al collo e stringe, stringe forte,
Andiamo.
Così stanotte, malgrado sia arrivata da tanto lontano, dal centro di tutte le precauzioni per tenerci a distanza, mi sono rincantucciata con innocenza nel suo fianco ormai immobile, ritrovando l’aderenza di sempre.
Capisco allora che è una questione di pochi secondi prima di grondarci l’uno dentro l’altro dai piedi ai fianchi, già le caviglie si distinguono a fatica. Mi aggrappo al suo braccio monco e resto in attesa, non mi muoverò dal suo fianco.
Vorrei soltanto che i suoi occhi potessero guardarci da dietro le palpebre chiuse in un livido così come ci ammiro io.
Dalla Genesi a King Kong
settembre 3, 2010
Mood: distratto
Listening to: il traffico giù in strada
Drinking: caffè
Eating: yogurt alla fragola
Sniffing (in via eccezionale): l’odore del soffritto che si intrufola dalla finestra. Non è possibile che ovunque vada ci sia il vicino dal soffritto aggressivo!
“E Dio creò l’uomo a sua immagine;
a immagine di Dio lo creò:
maschio e femmina li creò.”
[Genesi, 27]
Ore tredicipuntoquarantotto, oggi, casa.
Per la decima volta da che mi sono messa al lavoro, mi alzo dal pc, dove sto disegnando, sempre in Illustrator, una donna in posizione fetale, e vado allo specchio, quello del corridoio, bronzo antico corroso.
Dalla cucina Yanna, all’anagrafe Arianna, amica di cuore fin dalle rispettive condizioni fetali, sgusciata al mondo dieci giorni prima della qui presente autrice, compagna di giochi e pizze nella prima infanzia, in congedo nel corso della seconda infanzia, poi di nuovo compagna d’avventura in adolescenza ed età attualmente neo-adulta, personal reggifrontone ufficiale nel decorso delle sbronze a vomito, mille e mille altre cose che non basta un libro per elencarle perché di vita insieme ne abbiamo ballata davvero tanta, ed ora anche coinquilina nel milanese, capace, lei tra tutti, di uscire dal cesso, esclamando con aria sognante, neanche avesse visto il principe azzurro, che profuma di nuovo e buono, je t’ador!, “non me lo posso perdereeeeee”, dicevo, Yanna mi guarda, sopracciglio alto, mentre mi posiziono di profilo, alzo il braccio destro sopra la testa, ascella in direzione naso tanto da sembrare che me la stia annusando, e piego la testa ora di qui ora di lì.
“Do’, ma che fai?”
Animazione. Devo capire l’inclinazione del corpo per poterlo disegnare.
Una mattina, qualche mese fa, scuola.
Sul grande-pannello bianco, il proiettore rimanda le immagini di alcuni loschi soggetti che fanno smorfie da gorilla davanti agli specchi, saltano da una parte all’altra della stanza come gorilla, urlano come gorilla e s’azzuffano…. come gorilla, sì, arguto chi ha indovinato e no, nessun premio in palio per tanta sottiletta sottigliezza intellettuale, talvolta la vita è amara!
Costoro sono gli animatori di King Kong, nel making of del film, impegnati a dar vita al terribile mostro peloso e ciccione, studiandone i movimenti plausibili ed ogni più piccola variazione nei muscoli, nei dettali del corpo, del volto.
Non nego che a primo impatto, l’alzata di sopracciglia è doverosa, ma, messa da parte la ridarella superficiale per i quattro uomo-scimmia e le riserve in merito allo stesso King Kong, quel che subentra è la fascinazione.
Tutto per dire che
Nella vita non ho molte certezze. Una di queste è che non farò mai l’animatrice per una serie di ovvie ragioni (chi non le conoscesse è rimandato qui) e perché sento che la mia avventura è un’altra, mi porta per il mondo, con al collo un obbiettivo per penetrarlo, direbbe lui, esprimendo tutta la tensione dell’esperienza.
Un’altra convinzione è che se un dio creatore è mai esistito, ogni cosa l’ha forgiata e l’ha dotata d’anima così, come gli animatori di King Kong, come faccio anch’io, seppur in proporzione micro-infinitesimale.
S’è specchiato, questo dio, s’è studiato, un po’ narcisisticamente, un po’ con odio. Ha imparato a conoscere il suo corpo, i suoi muscoli, le sue ossa, come si articolano sotto la pelle e a capirne la bellezza assoluta nell’imperfezione. Che strano marchingegno è il corpo, un’orologeria delicata: “Fragile, fare attenzione”. Sarà perché custodisce l’anima, non deve lasciarla scappare.
Ha anche osservato ogni più impercettibile variazione nel movimento, questo dio, perché nulla è statico, anche quando sembra esserlo. E allora il movimento è conditio sine qua no della vita, quel che non si muove è morto, lo riconosce anche un bambino. “Panta rei”, diceva Eraclito, che se avesse saputo quanto la gente moderna avrebbe abusato di questa idea in tutte le salse, come il prezzemolo, certamente si sarebbe garantito i diritti d’autore per tutta la discendenza. Forse a volte bisogna solo abbandonarsi al flusso e sentirsi andare, serenamente, e mettere in saccoccia quello che capita per le mani, senza affannarsi in cieche ricerche.
Probabilmente, questo dio, ha pastrocchiato con fango e polvere di ossa, non certo ha “smanettato” sul computer, che all’epoca mi sembra non esistesse, ma fango e polvere di ossa o computer, disegno sequenziale o modellazione, stop motion o rotoscope e chi più ne ha più ne metta, quel che resta è il concetto, quest’idea tanto romantica quanto forte.
No. Al momento nessuna anticipazione sul progetto a cui sto lavorando.
E’ ancora in fase embrionale. Lo sto cullando, al caldo.