Suon di #lutto

novembre 15, 2015

Mood: addolorato
Reading: aria fritta
Listening to: Brett Dennen – Ain’t No Reason
Watching: The Salt of the Earth by Wim Wenders
Eating: uova
Drinking: caffè

Troppo spesso negli ultimi anni ho assistito a lutti clamorosi a suon di ashtag e non serve un filosofo per capire che il sensazionale motiva l’opinione. Troppo più spesso il populismo.

Io risparmio il fiato e penso alla vita, alle bombe, al cielo che avvampa nella luce delle fiamme, ai cadaveri disseminati su tutto il Globo, alle anime in fuga dal Globo – dal Libano a Parigi, dalla Siria all’Iraq e poi ancora in Afghanistan, Pakistan, Nigeria, Ucraina, Gaza, Somalia, Yemen e Tanti Altri Ancora difficili da tenere a mente. È un’epoca di massacri orribili, la nostra: il Mondo intero sta andando in briciole. E il cuore mi salta all’aria ogni giorno più volte al giorno.

Basta essere uomini per vergognarsi di essere uomini. Certo, la vita continua perché la vita continua anche quando ne avvertiamo il peso per le troppe lacrime raccolte nelle tasche, persino quando con le tasche ossidate pronunciamo l’ulteriore chiamata alle armi. Ma a essere onesti per la prima volta mi sto chiedendo se davvero la vita valga tutta la pena che viene dal vivere. E, nell’infinito numero di storie da raccontare e già raccontate, non trovo una sola risposta soddisfacente.

Mood: inquieto
Reading: Khaled Hosseini, Il cacciatore di aquiloni
Listening to: Pink Floyd – Wish you were here
Watching: Lea, una fotografia di Carla Kogelman
Eating: piadina
Drinking: birra



Sottrai la compassione alla vita e resta la somma delle centinaia di esseri umani smembrati nell’ultima settimana, 298 sul velivolo civile MH17 diretto da Amsterdam a Kuala Lumpur, abbattuto «per errore» da un missile Buk sul confine ucraino-russo, oltre 600 uccisi e più di 4000 feriti palestinesi e circa 30 militari e 2 civili israeliani morti durante i bombardamenti israeliani nella Striscia di Gaza e, anche senza contare una per una le centinaia di vittime sconosciute dei conflitti «minori» quotidianamente in corso su tutto il Globo, il bilancio va da sé per le migliaia, migliaia! che mi ballano sulla testa senza tregua, mi sfondano il cranio BOOM madame, ecco il benservito per essere venuti al mondo. Non c’è da star comodi: questa tragedia l’abbiamo avuta in dote restando in vita, ciascuna di queste vite possibili senza più un risvolto ci appartiene e marca un lutto sulla nostra coscienza. Vorrei che tutti ne fossimo consapevoli, ecco cosa vorrei perché penso sarebbe un primo grande passo verso l’umanizzazione della nostra specie: il lutto è metabolismo, il momento in cui realizziamo di essere vivi e di dover provare a vivere meglio e noi siamo vivi per provare a vivere meglio. Che sia il meglio o il peggio a venire lo dovremo a noi stessi come comunità in ogni caso.

Mood: altalenante
Listening to: Jeff Buckley – Lover, You Should’ve Come Over
Watching: gli avanzi della cena
Playing: con la pioggia e le onde dell’oceano, bastarda euforia
Eating: biscotti alla cannella
Drinking: te



Tre detonazioni. Dritte nell’andamento compassato delle mie visioni da dormiveglia. Disserro gli occhi. La luce bianca del primo mattino mi crocifigge.


Bombardano.
Piovono uccelli.
Franano corpi.
Sta andando a fuoco tutto quanto.
Non resteranno che le porte.
Ho dimenticato quand’è scoppiata la guerra. Perché. Dove ho scavato il bunker.
Non sfuggirò alle fiamme per molto tempo ancora.
Mi crolla addosso una risata che non conosce né pietà, né gioia.

(Stacco)


‹‹Trentun dicembre del cazzo.››

Per Capodanno, lo stato olandese accorda il permesso di sparare botti, dalle sette del mattino dell’ultimo dell’anno alle sette del mattino del primo dell’anno successivo. È come concentrare la deflagrazione di tutta l’energia repressa e compressa lungo un anno in ventiquattr’ore. Non si può scialacquare un solo secondo.
Nella settimana prima del trentun dicembre, già si percepisce il fermento chimico di una disposizione scrupolosa in vista del grande fragore. Ovunque stormi umani, vari per età ed estrazione, ammonticchiano pire nelle tasche e ai bordi delle strade.

Le prime scosse vomitano fontane di fuoco che si sollevano sibilando e si sfilacciano sfrigolando a intervalli insufficienti nel cielo. Lo penetrano e lo accendono in blu, rosso e dorato, senza armistizio interporre. Col passare del giorno, si intensificano. I sibili sfrecciano, non contengono lo scoppio che straborda secco. Il cuore sbalza di continuo, è impossibile domarlo per abitudine. Sembra che l’aria stessa stia esplodendo, che tutto possa sprofondare in un baratro bollente da un momento all’altro.
Al calare della notte, osservati dall’interno di un auto in corsa sull’autostrada, i cieli sopra gli abitati sono ormai chiazze fumose giallo marcio, annuvolate di viola, nel nero pesto. E’ desolante. La percezione, post-apocalittica. Soltanto all’orizzonte, i fuochi d’artificio, isolati dal rimbombare, sembrano una risata generosa.
Le città sprofondano nella luce acida dei neon e dei nuovi roghi, si trasformano nel campo di una guerriglia urbana. Ne attraverso un filare ingarbugliato, a notte fonda, passeggera di un furgoncino in transito con cautela. Incornicio impressioni visive nel telaio del finestrino chiuso. Sono barricata dietro una lastra di vetro come chi si tiene a distanza dalla strada bastarda, dove bande di ragazzetti occupano interi quartieri, avanzando un po’ a ogni nuovo scoppio e ammantando le vie con le cartucce ancora fumanti dei petardi esplosi. Il puzzo di zolfo è nauseante. Per quei corpicini, il teppismo contrattato a tempo limitato è eccitante. Confabulano, sbuffano fiato denso come tori. Non si stanno nella pelle. Sono deformarti delle basse propulsioni mentre accendono la miccia dei mortaretti e scappano dal fuoco che erutta. Sono macchie sfocate che accendonoescappano sbam. Si accaniscono contro le abitazioni, i giardini, le automobili. Talvolta contro se stessi. Sullo sfondo, il lamento di un’ambulanza si protrae fino a smembrarsi in una nuova deflagrazione. Fumo nero corpuscolare, in fondo alla via. Forse si è trattato di una camionetta dei pompieri. A ogni angolo, il fuoco scoppietta e risale, innalzando la temperatura di molti gradi. Le pire accatastate in precedenza si consumano, i bidoni della spazzatura rigettano lingue infiammate. Per lo stato olandese, i falò di capodanno sono illegali, ma la notte se ne frega della legge e le pattuglie della polizia sono poche per arrivare nei sobborghi. Pugni di ragazzi con i volti coperti dalle sciarpe si coagulano attorno alle fiamme e si sciolgono nell’alcool, fissano il niente con gli occhi taglienti e le mascelle serrate, si riversano contro le pareti. La pioggerella improvvisa uniforma gli scenari e li lava, li slava. Picchietta sull’asfalto, sollevando la polvere che evacua nell’aria olezzi, sudori e malumori. Dappertutto, stanotte non avverto che un’animalesca necessità di spurgo. Là fuori è scoppiato il conflitto. ‹‹Se riuscissi a provarne, avrei paura.›› bisbiglio. A dir il vero, protetta nel blindato, non sono più a mio agio. Abbasso il finestrino.

Per un momento, l’impressione della guerra mi risulta familiare come gli eventi quotidiani della vita. Mi procura una sorta di incontenibile piacere lercio e infame. Ho voglia di scendere per bagnarmi nello zolfo e affogare nel guizzo di una lingua infuocata. Questa consapevolezza mi attorciglia lo stomaco e me lo appallottola.
Non sfuggirò alle fiamme per molto tempo ancora.
Un petardo esplode all’improvviso sotto gli pneumatici del furgoncino di cui sono passeggera. Lo scoppio è violento. Lo scheletro intero palpita e riverbera il boato per tutto il corpo, ‹‹Non è successo niente››, ‹‹Sto bene››. Dentro si susseguono piccole esplosioni mirate alle giunture. La carcassa vacilla. Crepita. Si affloscia su se stessa. Si sgretola. In fondo all’anima, non ne resta che farina. Guardo la strada fumante. Forse ho voglia di piangere liberazione, ma non posso, ho estirpato le lacrime dalle cavità oculari.
Io ho dimenticato quand’è scoppiata la guerra. Perché. Dove ho scavato il bunker.
Ma adesso sta andando a fuoco tutto quanto.
Non resteranno che le porte.
E tutto da ricostruire. Tutto di cui aver cura.

Pare che l’efficienza di un organismo si valuti in riferimento alle forze che mette in campo per risollevarsi. Per certo, il mio ego non tollererebbe un rapporto negativo.

Pasquetta sulla 90

aprile 26, 2011

Mood: sereno
Listening to: Sade – Pearls
Playing: a rimettere in ordine la mia casa, i miei oggetti, il mio mondo fisico e metafisico per ritrovare il mio spazio e tornare a starci bene
Eating: effettivamente avrei una certa fame, ma sono pur sempre le 3.00 a.m.
Drinking: acqua fresca a gogò




Pasquetta sulla 90 non è il titolo del nuovo porno-film di Rocco Siffredi, ma la dinamica della mia Pasquetta e, per togliere ogni dubbio, la 90 in questo frangente non è una posizione del Kamasutra, ma la circolare destra di Milano.


Con la 90 oggi sono tornata dall’aereoporto di Linate, dove ho pranzato con mio papà di passaggio a Milano sul volo Bari-Amsterdam e mi sembrava una cosa strana, ma bella l’incontro si sfuggita in aereoporto, la vita in aereoporto, la gente che viene e la gente che va, i voli in partenza e quelli in arrivo e il mio papà e io insieme per un momento di pausa-racconto prima di riprendere ciascuno con la propria vita. Mi sono messa i tacchi per l’occasione, mi sono truccata e sistemata per bene i capelli e vestita con una maglia bella ed ampia e la borsa nuova e i pantaloni attillati un po’ anche perché lui pensasse che sua figlia si sta facendo una bella donna, non una ragazzina sciupata dalle cattive abitudini dure a morire. Abbiamo chiacchierato e lui non ha fatto domande, ma io ho parlato, gli ho raccontato di me e lui non ha detto niente, ma sono certa che mi ha ascoltata e allora gli ho fatto le coccole. Sulla 90 me la sorridevo al pensiero del mio papà ché, per la prima volta da quando sono andata via dal nido materno, non m’è parso di ritrovarlo invecchiato, anzi più bello, finalmente più sereno, meno schiacciato dalle preoccupazioni del vivere quotidiano.


Sempre sulla 90 ho prestato orecchio ad un vecchio che sbraitata contro Hitler e la bomba atomica e i milioni di morti provocati dalla guerra, ho visto di sfuggita i parchi pieni di gente e il sole uscire dalle nuvole e ritrarsi, ho condiviso con una strana bimbetta olivastra i cioccolatini che mi ha mandato la mamma insieme al papà, ho canticchiato Bella Ciao insieme a due ragazzotti ‘mbriaghi di vin rosso ché oggi era anche il Giorno della Liberazione, mica solo Pasquetta e immersa negli umori e nelle voci lanciati sulla strada ho pensato che, a conti fatti, stavo bene anche così, io in mezzo al mondo, senza nulla e nessuno aggiungere, io in mezzo agli altri, ferma ad osservare i dettagli, i libri tra le mani e lo spessore delle tasche rigonfie e le linee delle mani e il peso degli sguardi estranei, io senza pretese, affrancata dall’ingombro delle aspettative relazionali e delle abitudini affettive, libera di scivolare senza peso nella vita degli altri e trarre dalla matassa dell’esistente i fili invisibili di storie e legami e relazioni e annodarli tra di loro stabilendo distanza e vicinanza, libera di immaginare tutto dal principio ed ancora innamorarmi dell’ignoto.

Gap Generazionali

agosto 17, 2010

Mood: incredulo
Reading: Ovidio, Heroides
Listening to: pulsazioni
Watching: U2 – Live -With Or Without You :]
Playing: con il coraggio
Drinking: caffè e vino




Perché la guerra è rischiosa, mentre la cetra, la notte, l’amore danno piacere. E’ più sicuro stare distesi nel letto, tenere fra le braccia una donna, far vibrare sotto le dita le corde della lira tracia, che sostenere con le mani lo scudo e la lancia dalla punta aguzza, e in testa l’elmo che schiaccia i capelli.

[Ovidio, Heroides, Briseide ad Achille, III, vv. 116-120]


Accadeva mille e mille anni fa. Era la guerra di Troia.
Oggi, Briseide, il tuo Achille imbraccia senza fatica scudo, lancia ed elmo. Ma non sa fare bene l’amore. Né accarezzare un corpo che non sia il suo. Affatto.


Gap generazionali, dirai.

Tot noctibus absum
nec repetor. Cessas iraque lenta tua est.

[vv. 21-22]