Soffio

luglio 16, 2014

Mood: mite in superficie
Listening to: Radiodervish – In fondo ai tuoi occhi
Watching: le previsioni del tempo
Eating: panzerotti
Drinking: birra




(c) dorotea pace

Italy, Province of Bari, 15 July 2014. Soffio.

Forse è sciocco, ma Sofia, a guardarla, mi dimostra come ogni cosa al mondo sia bellezza perché bellezza è tutto ciò che la rende possibile e lei è microcosmo: quando mi respira in mezzo agli occhi e nella bocca, Sofia soffia come vento tra l’erba e il cielo, mi smuove avanti e indietro e mi riposa, soffia Soffio, continua a soffiare.

Fare spazio all’errore

Maggio 15, 2014

Mood: rilassato
Reading: Clément Chéroux, L’errore fotografico
Listening to: Cyndi Lauper – Girls Just Want To Have Fun
Watching: Mister Lies – False Astronomy (Official Video by Nick Torres)
Eating: bruschette
Drinking: acqua



Dacché ho memoria, il cancro che mi brucia i polmoni è la pressa di fare tutto a regola d’arte, rendere alla perfezione quello che riguarda il mio operato, in ogni caso e a ogni costo – generalmente una pressione disperata che mi occlude ventre e cervello, non mangio più, non dormo più, non parlo più nel caso in cui qualcosa possa ancora distrarmi dall’obiettivo che ho posto troppo al di là delle mie possibilità del momento. Più ci tengo più mi ostino.
Chiunque non capisca, provi a immaginarsi bambino, cosa possa significare sognare di fare la parrucchiera o il poliziotto, per dire, e ritrovarsi, un giorno, con l’ambizione straniera, sicuramente di qualcun altro, di fare lo scienziato perché parrucchiera o poliziotto non si conforma al tuo cervello, sciocco che non sei altro, tu devi fare lo scienziato e oggi è il giorno buono per diventarlo!, momento catartico a cominciare dal quale cento lire dopo dopo cento lire fino a quarantamila lire cadono tintinnando nel salvadanaio destinato all’acquisto del primo microscopio di una lunga e splendida carriera a venire, microscopio però che al momento tutto ciò che ingigantisce è un marasma lancinante incastrato tra l’orgoglio e l’umiliazione e compattato dalla percezione di una certa fatalità, io devo fare grandi cose.
E questo è voler essere perfetti. Infinitamente pesante.

Mi domando se non posso, invece, provare a essermi grata così – con gli esiti costruttivi di oggi e già nell’aria i passi e i traguardi superiori di domani, felice per il meglio di me che di volta in volta do, piuttosto che angosciata dall’idea di non aver saputo fare di meglio. Mi domando anche se non posso provare a accettare l’idea particolarmente spinosa che potrebbe capitarmi di sbagliare alla grande, è capitato e in via teorica so anche che non è necessario che non capiti. Anzi, dovrei non solo farmi una ragione del fatto che sbaglio, ma anche – dalla posizione in cui mi trovo – fare spazio all’errore, praticarlo metodologicamente, sarebbe istruttivo: voglio dire, eccomi che sbaglio, ecco che mi dico d’accordo e non mi aggrappo più con le unghie e coi denti all’onta tutta personale di un presupposto fallimento prodotto dall’illimitatezza della mia insufficienza, ma ci passo attraverso, lo esploro, ne comprendo la natura e allo stesso tempo metto a nudo, corroboro la maniera in cui riesco al meglio nelle cose che faccio, empatizzo tutto, metabolizzo e lascio andare, rilascio, mi libero e respiro, respiro,
respiro.
Respiro come progressiva assimilazione di un’evidenza che troppo spesso metto in dubbio: quanto più a fondo respiro, tanto più mi stabilisco in me stessa e mi alleggerisco da quello che non è essenziale alla mia crescita, creo spazio, mare cielo e valli, quanto più mi stabilisco in me stessa e mi alleggerisco da quello che non è essenziale alla mia crescita, tanto meglio riesco nelle cose che faccio.

Mood: salvo
Listening to: Modena City Rambelrs – Notturno Camden Lock
Watching and reading: Jonathan Safran Foer, Tree of codes [finalmente tra le mie mani]
Eating: purè
Drinking: acqua




foto_camden_web

e l’uomo che meditando di guadagnarci 25 pences, ha insistito invece per donarmela.

A-(f)fondo

ottobre 24, 2012

Mood: distratto
Reading: Pastoureau Michel and Simonnet Dominique, Il piccolo libro dei colori
Listening to: Electric Guest – Waves
Watching: Laura Guilda’s collection for MUUSEx VOGUE TALENTS Young Vision Award 2012 [let’s everybody vote, c’mon!]
Eating: senza freno
Drinking: caffè



Da bambina ero ossessionata dal timore di poter smettere di respirare da un momento all’altro per sbadataggine.
Mi tornava in mente, sempre all’improvviso in mezzo a un altro pensiero particolarmente immersivo, che prima di quel particolare momento epifanico io avevo considerato la sequenza inspirare, espirare ovvia, per il solo fatto di essere fisiologica, al punto da averla ignorata, dimenticata. Allora mi prendeva l’angoscia e iniziavo a spingere aria in petto e fuori dal petto, in petto e fuori dal petto, in petto e fuori dal petto,
a-(f)fondo,
fino a tranquillizzarmi.
Oggi credo che a ossessionarmi di più fosse l’idea di non ascoltarmi respirare.
Di non dare al respiro il giusto peso nella vita.

Ho domato tutti questi pensieri col passare degli anni, avendo cura di soffermarmi ogni giorno a esaminare il mio respiro, peso ritmo e densità. Salvo poi sviluppare la claustrofobia che in realtà è un disagio a cui do impropriamente questo nome: io, infatti, non è tanto l’assenza di spazio a stritolarmi, quanto quella di un flusso d’aria nello spazio da sentir passare a fior di pelle, sicché a me anche il contatto eccessivo dei tessuti può causare claustrofobia.

Poi qualche giorno fa, sono ripiombata all’improvviso nell’infanzia delle mie paure acuita dalla coscienza della loro maturità.
Andavo scalpicciando per Gorinchem, lungo la lieve china che, oltre il mulino De Hoop si affaccia sul canale dove stanno ormeggiati i barconi con i vasi verdeggianti sul pontile e i panni chiari stesi al vento da poppa a prua. Salivo, misurando l’angolo di pendenza del suolo e la consistenza della terra sotto la pianta dei piedi. Un passo dopo l’altro. E per ognuno, il fiato si accorciava, io mi appesantivo sempre un po’ di più.
Prima ancora di poggiare l’ultimo in cima, ho avvertito i polmoni gonfiarsi e irrigidirsi, uno scatto a freddo. C’era la luce spigolosa e l’aria aveva le lame, ho avuto paura che mi si spezzassero (tac) e mi sono ripiegata sullo stomaco, infine allora mi sto fermando (tic…
t-a…c)

Invece dal profondo è evaso un rantolo che ha fatto il rumore come di un tappo in sughero sbuffato senza preavviso dal collo di una bottiglia a causa della pressione. Aveva la maniera di un pianto e di un riso violenti con le ragioni da consumare su due piedi nell’intermezzo da capogiro tra un secondo e un altro,
poi basta. Mi ha lasciata lì, sfinita, con la sensazione di dover riprendere fiato e tanta aria.
Ho chiuso gli occhi e, come quando ero bambina, ho iniziato a spingere aria in petto e fuori dal petto, in petto e fuori dal petto, in petto e fuori dal petto,
a-(f)fondo,
fino a tranquillizzarmi.
Sono rimasta ancora a lungo ad ascoltarla con un piacere estremamente infantile mentre entrava e usciva, sbatacchiando tra la pelle e le ossa.

Io però non è vero che l’ho capito solo in quel momento. Sapevo già da tempo di avere i polmoni ostruiti e di far fatica a respirare – cause a parte –.
Mi dicevo, soltanto finché non avrai raccolto le energie per espettorare tutto.

Ecco, adesso posso tornare a trarre forza dall’aria.
[De Hoop si traduce con “La Speranza”]

Illuminazioni d’epoca

ottobre 2, 2012

Mood: lento
Reading: Bruce Chatwin, Le vie dei canti
Listening to: Bon Iver – Skinny Love
Watching: appunti di viaggio sparsi
Eating: pizza melanzane zucchine e gorgonzola, qui si va sul leggero
Drinking: acqua



Gli ultimi giorni di vita vissuta rivelano che il primo colpo al cuore arriva quando si realizza che avere sei anni è tutta un’altra storia e che con quasi vent’anni in più non si può (ri)ottenerla malgrado impegno, trattative celebrali e esperienze fantasmagoriche [parlare con un porcellino d’India le Barbie e i Puffi, brindare con il succo di frutta su una stella in mezzo a un tappeto, ricevere massaggi olio Johnson e cartoni animati nello stesso momento, uscire la sera in pigiama con un grande orso di pelo, bere latte e Nesquik prima di andare a letto, leggere abbecedari illustrati e libelli di matematica basilare, raccontare delle rane nello stomaco e restare ad ascoltare, definire il numero di armadi necessari per dormirci distesa, svegliarsi alle ottoemezza con una carezza nel mezzo di sogni dolenti per colorare fiori su carta igienica] perché anche quei quasi vent’anni in più sono tutta un’altra storia di certo non meno degna di nota [parlare di sesso stendendo la massa per i panzerotti, avvertire l’istinto di maternità, entrare in un carcere penitenziario]

Mood: in basso a destra
Listening: le campane ogni quarto d’ora
Waching: Pollo alle prugne di Marjane Satrapi e Vincent Paronnaud
Eating: verdura mista
Drinking: caffè



Credo che a colpirmi di più sia stato il suo tentativo di sorpassare gli schiamazzi dei compagni di giochi per dirmi che a lei sbagliare serviva per imparare.


dorotea pace | photography



‹‹Per esempio, io una volta se non mi fossi bruciata con la cosa per fare il caffè…››


(proprio col congiuntivo, probabilmente anche questo avrebbe dovuto colpirmi, è evidente che mia procugina sa come far colpo.)

Sweet disposition

febbraio 14, 2012

Mood: facilmente irritabile, sintomo da stress communis e troppo caffè
Listening to: Temper Trap – Sweet Disposition ogni parola è come la provo
Watching: le espressioni di disperazione di Lou mentre assembliamo senza troppa convinzione uno degli esami più dissanguanti della nostra storia accademica non a caso rinominato Apocalissimo, ore 4 a.m.
Playing: a mantenere un atteggiamento consono alla civiltà
Eating: pizza con patatine e maionese, mi faccio ufficialmente schifo
Drinking: troppo caffè per l’appunto



Pocoyo al mattino i Pancakes L’ombelico del mondo a sera le fragole nello zucchero le storie di notte gli abbracci, li difendo vergini negli occhi che è come guardarci dentro indietro e scoprire che

– un giorno dopo il dolore talvolta le smanie di recisione
dopo le cose brutte che sono arrivate –

Pocoyo al mattino i Pancakes, L’ombelico del mondo a sera le fragole nello zucchero le storie di notte gli abbracci sono come se fossero la mia seconda infanzia che è quella parola che quando la pronunci tutti pensano a una cosa tanto bella difficile tronfia di sogni e illusioni lontana dal presente nel quale è smarrita sradicata sterile, una pastura di sensazioni e emozioni che quando le ricordi puntini puntini puntini di
s o  s   p    e     n      s       i         o          n          e
sospiro

Oh, quanto mi piace pensare a quando le persone si (di)spiegano ancora e smettono di mancarsi si amano come sanno fare senza mezzi termini dopo il dolore talvolta le smanie di recisione dopo le cose brutte che sono arrivate, ma
– Ma? –
– Ma. –

E intanto che non è uguale a “in attesa”, senza distogliere lo sguardo senza chiudere gli occhi continuo con forza a sgusciare in avanti via da Pocoyo al mattino i Pancakes, L’ombelico del mondo a sera le fragole nello zucchero le storie di notte gli abbracci che sono come se fossero la mia seconda infanzia che è quella parola che quando la pronunci tutti pensano a una cosa tanto bella difficile tronfia di sogni e illusioni, ma lontana dal presente nel quale è smarrita sradicata sterile mentre
Io ho responsabilità e pure aspettative nei confronti della mia vita.


È davvero molto importante bello a modo suo,

Io che per (soprav)vivere non devo più necessariamente cesellare ogni giorno con la rabbia.


Dopo di che, smetto di scrivere stronzate confusionarie che dicono tutto e sembrano niente.



Quella in cima è la donna-pesce, l’ha disegnata Nicolò. Non gli ho chiesto il permesso per pubblicarlo, ma


Comunque la donna-pesce è un’entità con gli occhi spalancati.

Mood: stabilmente instabile
Listening to: Gianluca Grignani – L’aiuola con Zulio a tutto volume sulla Vicenza-Milano
Playing: il gioco della felicità
Eating: Asiago
Drinking: acqua






Fuori dal centro abitato del paesello in cui sono nata, le strade sfuggono con naturalezza nell’aperta campagna, disconnesse e sempre più ristrette tra i muretti a secco diroccati che due macchine insieme spesso non ci si passa. La partitura del paesaggio muta gradualmente, il verde dei prati e delle fronde degli alberi si infiltra nel grigio fino a fagocitarlo, e così il viola del glicine abbarbicato tra i massi, il giallo e l’arancione delle macchie di margheritine ed il marrone del terreno arato di fresco, il rosa del fiore del pesco e il bianco di quello del ciliegio e l’argento delle foglie d’ulivo e l’azzurro del cielo terso con il tempo, si sa, muterà ancora tutto, aspetto e colori.
Da bambina, scorazzavo in questi campi a briglia sciolta, i miei nonni materni avevano costruito masso su masso una grande casa bianca in mezzo ad un oceano di terra e mio nonno ci urlava dietro perché a correre a piedi nudi gli rovinavamo il solco e a costruire le casette con le casse di plastica gli mettevamo tutto in disordine e da dire ce ne sarebbe sui nostri giochi invasati e sordi a qualsiasi minaccia.
Tornandoci, dopo mesi di vita milanese trascorsi a fissare senza amore palazzi più o meno elevati e vetrine e traffico, sulle prime mi sembra di non cogliere la realtà di quello che sto vedendo, ma che begli scenari in questo sogno ad occhi aperti, persino il cielo ha colore! Poi con il trascorrere dei minuti, il respiro dei campi, pulito e leggero, mi solletica la gola e si dà alla discesa verso il cuore, lo gonfia e lo incalza, lo rianima, c’è odore di terra, di petali infastiditi dal venticello, di acqua e di pietra, ci sono la terra, i petali infastiditi dal venticello, l’acqua e la pietra, mi emoziono timidamente.
Poi in fondo ad una discesa, incorniciata dalle fronde degli alberi, si schiude la visione sublime di dolci declivi verdi disseminati da piccoli agglomerati sbiancati nella luce piatta di metà pomeriggio, è un colpo all’anima, com’è possibile che esista ancora tanta bellezza? Il fatto è che la natura resiste anche se ferita, l’uomo con tutti i suoi conti in tasca non si sa per quanto.


L. abita due svolte in là, in una casa col porticato in legno, affacciato su un giardinetto sul quale lei stessa profonde amore, coltivando fiori e piante d’ogni genere che, crescendo, s’aggrovigliano tra loro, e sembra una piccola giungla. In uno studiolo ricavato da uno spazio di troppo, L. pratica la tradizione degli aggiustaossa, della pronoterapia e della riflessologia plantare. «I piedi parlano», mi ha detto ed ho sorriso io, io che ho sempre un po’ tanto creduto che la vita passi attraverso i piedi, il passo, il modo in cui la pianta si arpiona al suolo, la penetra, la scava, nei luoghi che segna, è questione di pesi, di ritmi, di umori. Io che da qualche mese stavo affrontando la vita con un passo zoppicante a causa di un paio di faccende emotive e, guarda caso, dell’alluce destro accartocciato su se stesso, senza particolari spiegazioni, «ossa accavallate in calcificazione con principio di alluce valgo, un calcio o un passo a vuoto», mi ha detto più tardi L. mentre, pian, piano, riportava tutto al posto giusto ed io sentivo il piede allungarsi e rilassarsi e sì, ora lo poggio di nuovo per terra e, a volerla dire tutta, la radiografia e l’ecografia del giorno dopo non sono state in grado di rilevare alcun tipo di malformazione e semplicemente perché non c’era più.
La gente del circondario spesso conosce L. come Anselma, in verità la gente del circondario conosce l’intera zona come “Àbbasce ad Anselm” (“Giù ad Anselma”). Anselma era un’istituzione in questioni di ossa a spasso da riportare a casa ed abitava appena qualche metro in là rispetto a L.
Da bambina, Anselma mi ha rimessa a posto centinaia di volte, ché io ero pazzerella ed una volta ruzzolavo giù da un albero, un’altra cadevo dalla bicicletta e mi incastravo nella raggiera della bicicletta, un’altra ancora perdevo l’orientamento mentre facevo una ruota dietro l’altra con una sola mano e finivo contro un muro, fatto sta che mi ritrovavo sempre con un piede, una caviglia, un braccio, qualche dito dis-locato. Aveva l’odore della terra, Anselma, ricurva su se stessa e nodosa come la radice di un ulivo secolare e scura e segnata come un suolo riarso dal sole. Aveva raccolto tutta la forza e l’energia nelle mani, scheletriche e lunghissime, e la si avvertiva fisicamente quando premeva a fondo tra i muscoli e le ossa, poi cranck, tessuti distesi, «È a posto», e in verità Anselma parlava un dialetto che mi era incomprensibile. Non ha mai imposto pagamenti in moneta, ricordo che a mio papà chiedeva pale da camino e non ho mai capito bene per quale motivo, comunque qualcosa a che fare con mio nonno. E il suo camino era nero, nerissimo, nero fuliggine, lo fissavo e mi ci perdevo mentre muscoli ed ossa si spostavano sotto le sue dita e stringevo le labbra tra i denti, ché fiatare il dolore lo reputavo infantile anche quand’ero una poppante
A volte mi sembra impossibile incontrare tutt’oggi per strada gente che ritenga Anselma ancora viva, non c’è più da così tanto tempo, ma se è vero che si vive agitati nella memoria, effettivamente Anselma è viva, altroché se è viva!
Il caso aveva voluto che Anselma e L. fossero l’una per l’altra suocera e nuora. Ma Anselma non ha insegnato nulla a L., lo si avverte nelle loro mani. Della terra, Anselma aveva anche l’asprezza e la rudezza, mentre nelle mani di L. non si incontra mai un gesto disattento o maldestro, mai nella sua voce un tono acuto o sbrigativo, «la dolcezza, non provoca dolore», mi ha detto, la dolcezza è la cura, l’ha imparato con i polletti e le galline e i conigli ed i vitelli quand’era bambina, prendendosene cura se erano inquieti, massaggiandoli e curandoli se si facevano male e loro continuavano a crescere e la riconoscevano, la amavano. Ad ascoltarne i racconti, il cuore incalza il sangue velocemente, «Ho un cuore anch’io, solo è diversamente abile», come posso aver pensato che mi si fosse essiccato?, era solo sopito, annichilito, corroso, mi emoziono timidamente.
Insomma, lo so, una serie di cosette degne di scetticismo e che la medicina ufficiale spara a vista come cialtroneria, ignoranza e via elencando e certamente di truffe ce n’è a palate in giro, ma quello che la pura razionalità non sa valutare è l’istintività animale di un corpo che si approccia ad un altro, carne, ossa e sangue, l’emotività di un contatto e la forza congenita in un sentimento. Dopotutto, quello che la medicina ufficiale non si spiegherà mai compitamente è il meccanismo psico-fisico dello stomaco, egguardacaso!

Mentre aspetto il mio turno, me ne sto così a ricordare e a pensucchiare insieme, semplicemente appoggiata alla staccionata che divide il terrazzino dal giardino, «Sto fuori, mamma, fuori dal bunker». Bevo tutto nei sensi, il cielo ed il sole col suo ciclo lento verso il tramonto, il percorso dei raggi che colpiscono le piante e le fanno vibrare, le armonie degli uccelli quando al calar del sole tutt’attorno la vita si quieta nel fruscio delle fronde e l’abbaiare di un cane lontano, la vecchina ricurva ad estirpare l’erba nel campo di fronte con il fazzoletto bianco a ripararsi dal sole, i nani nel terreno e i nidi tra i rami, le girandole che gorgheggiano al vento, e appena cambio la prospettiva tutto cambia, le curve delle foglie ed ogni loro oscillazione, gli arabeschi tra le nervature, la forma di una nuvola all’orizzonte, scopro dettagli che non avevo notato prima, il giallo del limone nel verde, mi immergo nel ritmo, ne divento parte integrante, un gatto grosso e dagli occhi languidi si avvicina e si procaccia carezze tra le mie gambe.
Quanto sei bella, mia terra addolorata, mia terra abbandonata, pensavo di non poter provare più meraviglia di fronte al mondo, né curiosità, come se mi avesse detto tutto e tutto male, ma che errore, un altro, come posso averlo compiuto, quand’è che ho iniziato a fare il callo alla sterilità estetica ed affettiva, quand’è che ho spento la torcia e mi sono dimenticata della bellezza, ora ne faccio scorta, ché senza mi sento soffocare, sì, sto proprio soffocando di bruttezza e non trovo rimedio, è una fuga continua e mai nessuno che alza lo sguardo e sorride e bisognerebbe fermarsi di più a meravigliarsi e a lasciarsi andare e un attimo… dov’è la lotta quotidiana dentro di me, dove sono la rabbia e l’amore e le cicatrici, dove le incertezze e le risposte agli estremi, dove lo sporco nel sangue ed ogni malsano prospetto?, ma dico, sono serena, ma dico, sto sorridendo, ma dico, ci sono e per un momento non mi sto smembrando, dico di più, sto respirando cos’è questa storia? È coscienza e insieme rapimento, ragazza, non t’accorgi che in realtà ci sei ed insieme non ci sei?, sei in un’altra condizione, lasciati andare, ragazza, lasciati andare, resta sospesa ancora un po’. Che in verità, la storia è tutta qua.

Quanto tempo sprecato a correre, nell’ultimo anno, quanto tempo sprecato a non fermarmi mai, neanche per un secondo e a chiedermi «Hei, Do, come stai?», anche solo a fare qualcosa che mi faccia piacere. A Milano davvero corrono tutti e strepitano, persino le formiche ed io assieme a loro corro e per convenienza non mi domando mai come sto e faccio respiri profondi per non piangere, respiri profondi che si schiantano come piombo sullo stomaco e lo sfondano e corro senza sosta.

Tra tutte le leggi sociali, economiche e culturali di cui si è gravato per vivere, l’uomo sembra aver condannato a damnatio memoriae proprio le dinamiche della sospensione, ma a correre sempre, lo sai, si finisce per perdere di vista la strada, ragazza, ed insieme se stessi, e a non domandarsi se stai bene, se stai male o mezz’e mezzo, si finisce per ammalarsi. Fermati, non t’accorgi che sei senza fiato? Fermati a ripescarti.

Così, mentre aspetto il mio turno, tra una svolta dei sensi e l’altra, mi domando come sto, e basta mentirsi, ti sei ammalata, ragazza, ma ammalata seria, nel profondo e ti sei persa, ragazza. Se ti domandi chi sei, dove sei, cosa vuoi, se ti domandi «Perché?» non trovi risposta che nei giorni di qualcun’altro, nel tuo essere per qualcun’altro. Ma tu, chi sei tu, dove sei, cosa vuoi per te?, ché sì, puoi ben volere anche solo per te e svegliarti domani e scoprire che tutto è cambiato e semplicemente accettarlo. Ma poi dimmi, come puoi vivere se sei prigioniera? E tu vuoi vivere, cazzo se vuoi vivere!
Non si invola all’improvviso la lotta quotidiana dentro di me, né la rabbia, né l’amore, né le cicatrici, neanche le incertezze e le risposte agli estremi e lo sporco nel sangue ed ogni malsano prospetto e dopodomani forse respirerò ancora pesante, tutte le risposte non sono in un pomeriggio, ma, mentre aspetto il mio turno, scivolo tra il rosso del tramonto che tinteggia i contorni degli alberi e gli angoli del porticato. Bisogna pur partire da qualche dove per trovare la cura per la propria malattia, e forse il sé è il dove più appropriato.


Intanto resto col naso all’insù e guardo le stelle, a vivere nell’inquinamento luminoso m’ero dimenticata che di notte nel cielo ci sono le stelle, grosse e luminose, infinite che non potrai mai contarle. Il fatto è che sulla strada del ritorno, per far spazio ad un’altra macchina, mia mamma ha valorosamente condotto la nostra anziana Fiat Tipo su un sasso ben acuminato e sbam!, la ruota non ha resistito e s’è squarciata e siamo rimaste bloccate in aperta e profonda campagna, io zoppa ed impossibilitata a fare sforzi, lei incapace di cambiare la ruota col ruotino. A breve arriverà V. il Corto che è un amico di mio papà ed è corto per davvero, ma è un brav’uomo e le ruote le sa cambiare, per di più fa il meccanico e alla sera va a ballare i balli di gruppo. Nessun problema, aspetteremo, nel mentre s’è fatta notte ed io guardo le stelle, disegno il Grande Carro ed il Piccolo e canto Mr. Mandarino, muovendomi solo dalle vita in su, e sono felice un po’, un bel po’ al punto tale che quando arriva V. il Corto gli darò un bacino sulla cocozza pelata, ci sta davvero.

Domani esondo.


***A distanza di due settimane abbondanti, ormai***

Respiro

marzo 31, 2011

Mood: sereneggiante
Listening to: il ronzio del frigorifero e lo sfrecciare di qualche macchina nel silenzio notturno
Playing: il gioco della felicità
Eating: patate duchesse
Drinking: acqua



Dentro custodisco respiri.

Bolle d’ossigeno, acciuffate col retino, strada consumando, e liberate tra i muscoli e le ossa. Immuni al mondo là fuori, immuni al tempo, le mie bolle d’ossigeno serbano solo il sereno e l’armonia di un momento di completa empatia, riecheggiano la bellezza e lambiscono l’immenso.
Ché io sono una creatura piccina, ma la mia anima ha uno spazio sconfinato e per fortuna! perché incessantemente percepisce il mondo, e si percepisce nel mondo, con il mondo ed archivia ed estetizza.

Così, nel mezzo di una disfunzione, mi guardo dentro e so dove andare a rifugiarmi, dove andare a respirare.




«Che posto è?»
«La mia terra, il mio mare.»

Ho scoperto questo lembo di terra pugliese quand’ero ancora bambina. La gente lo chiama Porto Ghiacciolo, per via delle correnti gelide che battono i fondali. A quel tempo, la spiaggia non era ancora stata colonizzata da un’orda di culotetteaddominali al rimorchio, ammassati in pochi centrimetri di sabbia, ma era frequentata dai soli pochi che ardivano attraversare i campi di pomidoro e scavalcare muretti a secco diroccati per distendersi al sole, e non c’era il bar e non c’era la musica e non c’erano le brandine, solo l’orizzonte sfumato tra il mare e il cielo e da un lato il castello con le palme in cima e dall’altro la casa segnata dalla salsedine di due anziane sorelle con le oche, i riflessi cangianti nel ritmo dei flutti e le pozze con i gamberetti, persino una vasca con le cozze, lo sciabordio del mare contro gli scogli e i fianchi delle barchette ormeggiate più al largo ed il vento tra gli spruzzi, il risucchio e il rigetto dell’acqua nella cavità sotto il castello e lo starnazzare delle oche che scendono a mare per la traversata quotidiana fino al castello.

Nel corso del tempo, in questo lembo di terra ho seminato ricordi ed emozioni forti tra i sassi e le conchiglie sul bagnasciuga e li ho intrecciati con la spuma delle onde.
Ho trascorso lunghe ore con il mio mare, a lasciarmi cullare la solitudine, a raccontargli di me e ad ascoltare di lui. Ho imparato a restare in silenzio, a respirare e ad osservare, ché il mare decisamente non lo conosci in fretta. Ho imparato a vivere la simbiosi tra la cadenza del mio respiro e la continua metamorfosi del suo, fino ad avvertirla rimbombarmi nella cassa toracica, ondata di rantoli cavernicoli, ora quieti, ora violenti. Ho imparato a lasciarmi andare e a scendere dalla superficie ai fondali, fino ad alienare la mia anima e il mio momento nel palpito incalzante del mare, sfogando le emozioni e consolando gli affanni.

Così, questo lembo di terra si è rivestito ai miei occhi di un’aura rituale. Oggi ci torno solo quando so che l’orda di culotetteaddominali al rimorchio è distante, ma venero questo lembo di terra, lo venero come liquido amniotico, lo venero quand’è silenzioso, quand’è mio, quando posso riprendere a dialogarci indisturbata e nutrire l’anima, quando mi ci immergo e torno a respirare e mi sento libera di andare ed immensa.


Domani, che poi è già oggi, torno a Sud per qualche giorno, devo risolvere alcuni problemi di salute e rilassarmi tra mia mamma e mia sorella.
Tornerò anche al mio mare, da giorni ormai ne sento il richiamo ancestrale.


Tra due ore suona la sveglia per andare in aereoporto. Magari non vado a letto e vedo l’alba. Adesso la sto aspettando con impazienza.

Distrattamente

marzo 26, 2011

Mood: viaggiatore
Listening to: la centrifuga della lavatrice, alias uno shuttle in partenza
Watching: la mia amata zuccheriera in frantumi, sigh!
Drinking: taaaanta acqua, sonodisidratatafacciolapipìgiallagialla






Distrattamente, la libertà a sprazzi.

Benedetti nanetti, benedetta innocenza sfacciata!


Oggi, il Lago di Como, in compagnia miei cugini, arrivati all’improvviso dall’Olanda a bordo di un furgoncino aziendale, con materasso annesso sul retro, yawel!