Migratoria

giugno 24, 2014

Mood: disordinato
Reading: Bruce Chatwin, Invasioni nomadi, in Che ci faccio qui?
Listening to: Woodkid – The Great Escape
Watching: Sia – Chandelier (Official Video)
Eating: fragole
Drinking: caffè



Ci sono 2444 km tra me, la mattina specifica del 13 giugno, e me, la particolare sera del 17 giugno. Sono migrata in una notte da Rijswijk, a Rotterdam, a Gent, a Anversa, a Lille, a Londra – stop di due ore –, attraversando la Manica su un traghetto che ha costeggiando le Bianche Scogliere di Dover all’alba successiva, poi da Londra a Sheffield, a Wakefield, a Newcastle, a Edimburgo nelle prime ore della sera e indietro, tre giorni dopo, da Edimburgo a Newcastle, a Wakefield, a Sheffield, a Londra tutta una filata nel buio e da Londra a Lille, incapsulata in un autobus in un treno in un budello sotto le acque de La Manica, e poi a Anversa, a Gent, a Rotterdam, a Rijswijk, al calare del sole.

Ho portato sulle spalle il mio cosmo per 2444 km, la terra e il cielo, l’orizzonte e le sue stelle, ogni ciclo di vita, morte e rinascita. 2444 km non sono pochi. E in 2444 km sono uscita dalla vita e ci sono rientrata tante volte quante l’autobus che mi conduceva da una stazione all’altra, insieme a un carico scialbo di passeggeri più un essere umano a me caro, si è fermato ed è ripartito, di volta in volta ricompattando il mosaico di paesaggi e linee di fuga nello spazio sterile di un parcheggio già deputato a una successiva e immediata disintegrazione in nuovi paesaggi e linee di fuga, così per 2444 km.

È difficile in questa sede andare fino in fondo ai pensieri e alle emozioni del mio cosmo in quei giorni, sono complessi e riguardano troppi aspetti differenti della mia vita, ma si dà il caso che spostamenti simili a quello di cui sopra soddisfino per allegoria la mia necessità enterica di nuovi inizi: “la migrazione è di per sé un fatto rituale”, mi ricorda Chatwin, “una catarsi ʿreligiosaʾ, rivoluzionaria nel senso più stretto della parola in quanto l’atto di piantare e togliere il campo rappresenta ogni volta un nuovo inizio. Ciò spiega la violenza con cui un nomade reagisce quando qualcuno blocca le sue migrazioni. Per di più, se accettiamo la premessa che la religione sia una risposta all’inquietudine, allora il nomadismo deve soddisfare certe fondamentali aspirazioni umane che la stabilità non soddisfa.”
Il mio definiamolo nomadismo è nato, qualche anno fa, da un territorio troppo sterile perché potessi ipotizzare cosa fosse un sereno appagamento, il riguardo nei confronti di me stessa che è una cosa meno fine a se stessa di quanto possa sembrare. Per quel che mi riguarda, il movimento è metabolismo. Inizia di solito con un certo imbarazzo, se non proprio con la fame o con un’indigestione violenta. Di conseguenza, non posso far altro che spostarmi, pena la morte per astinenza subita o auto inflitta nel tentativo angoscioso di ritrovare la leggerezza. Mi lascio dietro qualcosa a ogni fermata e nuova partenza, è un dato di fatto che il movimento innesca le reazioni chimiche e fisiche di degradazione e trasformazione della materia e che allo stesso tempo, se non per concausa, sintetizza e libera nuove energie, alimentando lo spirito a nuove prospettive. Tutti i miei stati migliori li partorisco alla fine viaggiando, quando creo spazio espandendomi. C’è in questa formula qualcosa che tanto mi consola quanto mi eccita ed è nel cuneo tra queste due impressioni che respira la mia serenità.

Avrei potuto prendere un aereo: Amsterdam-Edimburgo, avendo fondamentalmente bisogno di essere a Edimburgo il 15 giugno in occasione della proiezione di Dreamer all’Edinburgh Short Film Festival. Ma avvertivo di più l’esigenza particolare di un passaggio intorno alla geografia delle mie emozioni e così ho rivendicato come miei 2444 km totali dentro un autobus. Credo volessi stremarmi, scivolarmi fino al limite delle mie sensazioni, abbandonata come sarei stata di fatto a un movimento organizzato e immutabile nell’alcova fastidiosa di una poltroncina strizzata tra cento altre.
Si aggiunga che allo stesso tempo io abbia avuto l’opportunità di segnare un percorso predisposto, di intaccarlo con decisione e questo perché i 2444 km che ho appena compiuto non sono stati per me un percorso a caso, piuttosto un sentiero che ha collegato alcuni dei luoghi e degli esseri umani che, in momenti molto diversi, sono stati tra i più fecondi e sui quali riverso un particolare attaccamento affettivo. Mi piacciono gli spazi del ritorno perché fanno luce sul presente e a loro volta si fanno illuminare da esso: in questo modo diventano la prova visibile dell’intreccio delle migliaia di vie del sentire e la vita si arricchisce all’istante col senso del cambiamento che è quando realizziamo di essere, esseri umani – materia emotiva – all’interno di un intrinseco processo evolutivo senza fine, processo evolutivo noi stessi, atto nobile di libertà spirituale.
Riconosco in questa visione dei fatti il mio impulso tenace a travalicare, forse anche a travalicarmi. Come se un giorno potessi salirmi in cima e da lì sopra stare a guardarmi,

mi sto guardando.


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Scotland, Edinburgh, Arthur’s seat, 16 June 2014,
tre mesi esatti dopo la prima scalata.

Sofia

Maggio 2, 2013

Mood: intorpidito
Listening to: Raphael Gualazzi – Reality and Fantasy
Eating: crostata di crema e marmellata rossa
Drinking: succo di mirtilli



Mi hanno riferito che a due giorni da quello previsto per il tuo arrivo, ti si è bloccato il cuore – dieci secondi senza battere – e che perciò sono venuti a prenderti di forza dal ventre dov’eri e ti hanno [r]incubata perché troppo piccola in un rettangolo di policarbonato trasparente, al di qua del quale tutti restrebbero seduti per ore a guardarti con lo sguardo di meraviglia come si osserva un trasformista, gli occhi si sono aperti, le rughe per lo sforzo si sono distese, il viso si è arrotondato, i capelli sono cresciuti, adesso assomiglia a sua madre, no a sua nonna paterna, no a suo cugino maggiore, adesso un po’ a tutti anche a me scusate che dormivo con le mani strette a pugni in testa come lei, gli occhi stanno cambiando colore, saranno azzurri, non azzurri, ad ogni modo.

Potrebbero esserci molti motivi per i quali ti si è bloccato il cuore, per esempio
terrore di dover vivere
euforia di dover vivere
‘ché sempre da dove ci troviamo la vita sembra gigantesca, figurarsi dall’interno di un ventre quando bisogna poi spingersi fuori!

Qualcuno ti dirà che il battito del cuore è quello che ci tiene vivi e non ti avrà raccontato una bugia.
Io ti dico solo questo: a noi esseri umani – tutti e di ogni età –, spesso nel corso della vita succede anche che il cuore ci si blocchi per un certo momento di un certo giorno e che poi, così come si è bloccato, torni a battere. Cosa che può sembrarti un po’ inquietante adesso che hai solo due giorni, ma lascia che ti dimostri il contrario.
Quando il cuore ci si blocca per un certo momento di un certo giorno è perché in quel certo momento di quel certo giorno le emozioni di cui ogni giorno facciamo più conoscenza e che si accumulano nel cuore, a qualunque cosa siano simili – l’aria che si sposta tra un bacio a fior di labbra o il rifrangersi di una tempesta contro il torace –, si sono sciolte e si sono gonfiate fino a inondare e inabissare per un certo momento il cuore, del tutto sprovveduto di fronte a quell’evento unico e inatteso, improvviso.
Più l’emozione è profonda, e più a lungo il cuore trattiene il fiato prima di riemergere, è evidente no?

Certo, qualcuno potrebbe obiettare che è tanto meglio costruire dighe attorno al cuore e vivere ogni giorno svegliandosi alla solita ora, compiendo un certo numero di solite azioni – quali mangiare le solite cose, fare il solito lavoro, parlare delle solite cose con le solite persone – e andare a dormire alla solita ora con la certezza di essere vivi, dacché il cuore ha regolarmente battuto.
Ma prova a immaginare che a quel qualcuno si blocchi il cuore a un certo momento di un certo giorno e che poi capisca, tornando a sentirlo battere, di non essere morto – come avrebbe potuto sembrargli – ma per esempio innamorato. O furibondo. Estasiato. O angosciato. O tanto altro ancora. Dirà allora di aver vissuto.
E vivere non è uguale a essere vivo, converrai con me,

mi sfugge di dirti, come se te e io già potessimo discutere sui massimi sistemi perché a un certo punto di queste parole mi è venuto da chiedermi se non ti stessi raccontando cose che hai già assimilato due giorni fa,

quando ti si è bloccato il cuore e poi sei nata,
Sofia.

Queste parole, invece, sono io, Dorotea, tua cugina,
non potendo essere tra gli altri dietro l’incubatrice, ma volendo.


Bene-arrivata.

A-(f)fondo

ottobre 24, 2012

Mood: distratto
Reading: Pastoureau Michel and Simonnet Dominique, Il piccolo libro dei colori
Listening to: Electric Guest – Waves
Watching: Laura Guilda’s collection for MUUSEx VOGUE TALENTS Young Vision Award 2012 [let’s everybody vote, c’mon!]
Eating: senza freno
Drinking: caffè



Da bambina ero ossessionata dal timore di poter smettere di respirare da un momento all’altro per sbadataggine.
Mi tornava in mente, sempre all’improvviso in mezzo a un altro pensiero particolarmente immersivo, che prima di quel particolare momento epifanico io avevo considerato la sequenza inspirare, espirare ovvia, per il solo fatto di essere fisiologica, al punto da averla ignorata, dimenticata. Allora mi prendeva l’angoscia e iniziavo a spingere aria in petto e fuori dal petto, in petto e fuori dal petto, in petto e fuori dal petto,
a-(f)fondo,
fino a tranquillizzarmi.
Oggi credo che a ossessionarmi di più fosse l’idea di non ascoltarmi respirare.
Di non dare al respiro il giusto peso nella vita.

Ho domato tutti questi pensieri col passare degli anni, avendo cura di soffermarmi ogni giorno a esaminare il mio respiro, peso ritmo e densità. Salvo poi sviluppare la claustrofobia che in realtà è un disagio a cui do impropriamente questo nome: io, infatti, non è tanto l’assenza di spazio a stritolarmi, quanto quella di un flusso d’aria nello spazio da sentir passare a fior di pelle, sicché a me anche il contatto eccessivo dei tessuti può causare claustrofobia.

Poi qualche giorno fa, sono ripiombata all’improvviso nell’infanzia delle mie paure acuita dalla coscienza della loro maturità.
Andavo scalpicciando per Gorinchem, lungo la lieve china che, oltre il mulino De Hoop si affaccia sul canale dove stanno ormeggiati i barconi con i vasi verdeggianti sul pontile e i panni chiari stesi al vento da poppa a prua. Salivo, misurando l’angolo di pendenza del suolo e la consistenza della terra sotto la pianta dei piedi. Un passo dopo l’altro. E per ognuno, il fiato si accorciava, io mi appesantivo sempre un po’ di più.
Prima ancora di poggiare l’ultimo in cima, ho avvertito i polmoni gonfiarsi e irrigidirsi, uno scatto a freddo. C’era la luce spigolosa e l’aria aveva le lame, ho avuto paura che mi si spezzassero (tac) e mi sono ripiegata sullo stomaco, infine allora mi sto fermando (tic…
t-a…c)

Invece dal profondo è evaso un rantolo che ha fatto il rumore come di un tappo in sughero sbuffato senza preavviso dal collo di una bottiglia a causa della pressione. Aveva la maniera di un pianto e di un riso violenti con le ragioni da consumare su due piedi nell’intermezzo da capogiro tra un secondo e un altro,
poi basta. Mi ha lasciata lì, sfinita, con la sensazione di dover riprendere fiato e tanta aria.
Ho chiuso gli occhi e, come quando ero bambina, ho iniziato a spingere aria in petto e fuori dal petto, in petto e fuori dal petto, in petto e fuori dal petto,
a-(f)fondo,
fino a tranquillizzarmi.
Sono rimasta ancora a lungo ad ascoltarla con un piacere estremamente infantile mentre entrava e usciva, sbatacchiando tra la pelle e le ossa.

Io però non è vero che l’ho capito solo in quel momento. Sapevo già da tempo di avere i polmoni ostruiti e di far fatica a respirare – cause a parte –.
Mi dicevo, soltanto finché non avrai raccolto le energie per espettorare tutto.

Ecco, adesso posso tornare a trarre forza dall’aria.
[De Hoop si traduce con “La Speranza”]

Memoriale

febbraio 22, 2012

Mood: rincoglionito
Reading: Desmond Morris, La scimmia nuda
Listening to: Coldplay – The scientist
Watching: la pila dei piatti da lavare che mi richiama suadente
Playing: VS il malanno fottuto
Eating: crackers con certosa
Drinking: teh

 

 

(Nonna a vent’anni circa, gli anni che io ho oggi circa.)

 

 

 

È buffo come gli esseri umani si arrabattino per trattenere nei giorni la presenza perduta di qualcuno qualcosa, qualcuno che faceva qualcosa qualcosa fatta da qualcuno capace di generare amore, così da avvertirne un po’ meno la mancanza. È buffo perché dopotutto quello che resta ad ardere nei giorni – tutti i giorni – è l’assenza. Così non fosse, non sarebbe necessario arrabattarsi per trattenere nei giorni la presenza perduta di qualcuno qualcosa, qualcuno che faceva qualcosa qualcosa fatta da qualcuno capace di generare amore.
Basterebbe

 

 

 

 

cosa non so, forse non c’è niente che possa bastare.
Qui si tratta di fare i conti con l’amore, come non so.

 

 

Io, per esempio, ho i cassetti pieni della vita in ritratto di mia nonna che non c’è più.

Io prima di venire in fiore

gennaio 29, 2012

Mood: stranito
Reading: Aldo Nove, Amore mio infinito
Listening to: i racconti della settimana di Yanna
Watching: Happy family di Gabriele Salvatores
Eating: mandarini
Drinking: acqua finalmente



Io gli stivali vecchi tre anni con cui ho calpestato tanti suoli da averne perso il conto li ho abbandonati nella spazzatura prima di partire di nuovo per Milano. Io mi è sembrato di guardarli guardarmi con malinconia tra le bucce e le carte unte nella spazzatura, ma ho distolto lo sguardo e ho indossato un paio di stivali nuovo fiamma. Io il sacco a pelo l’ho attaccato allo zaino e sono uscita dalla casa in cui sono nata con la sensazione di star partendo non soltanto per Milano, piuttosto per un viaggio molto lungo molto importante, di non avere più motivo per tornare per guardarmi indietro.
Io la terra in cui sono nata ormai sfugge nella cornice dei finestrini dell’ennesimo Frecciabianca Bari-Milano, si straccia per non sottomettersi alle distanze che aumentano di secondo in secondo in secondo insecondo insecondo insecondoinsecondo i n s e c o n d o
– tu-tum tu-tum tu-tum shhh tu-tum tu-tum tu-tum – ho scelto il treno per un saluto tutto stile e già si avvicina il crepuscolo, cieli con un volume così sono solo sulla terra in cui sono nata, di qua

Io questa volta per la prima volta andare via proprio non mi riesce col passo leggero

e non per le scosse del terremoto a Milano, non per l’idiosincrasia da ritorno qualunque a Milano.
Piuttosto per
Io in questa settimana veloce ho sentito il rumore sordo del mio cuore nel vuoto che è il vuoto lasciato da mia nonna che è morta, il vuoto che è la percezione di tutto lo spazio fisico che non occuperà mai più, di tutti gli oggetti che non sfiorerà mai più, perché l’hanno chiusa dentro una tomba dentro un loculo con una foto da diva anni quaranta su di un cielo con cirri e di lì non tornerà mai alla terra mai al ciclo vitale mai pioggia mai vento mai sulla mia pelle e lei mi manca tanto, a volte se si trattengono le lacrime troppo a lungo finisce che scoppia a testa, io mi scoppia la testa.
Io in questa settimana veloce a furia di sentire il rumore sordo del mio cuore nel vuoto che è il vuoto lasciato da mia nonna che è morta, il vuoto che è la percezione di tutto lo spazio fisico che mia nonna non occuperà mai più, di tutti gli oggetti che non sfiorerà mai più, ho finito per sentire anche il rumore sordo del mio cuore nel vuoto che è la percezione di tutto lo spazio fisico che io non occuperò mai più, di tutti gli oggetti che non sfiorerò mai più e che con questa partenza lascio nella terra in cui sono nata che ormai sfugge nella cornice dei finestrini dell’ennesimo Frecciabianca Bari-Milano.
Io questa volta
il divano, il tavolo della cucina, la libreria, gli album per le fotografie, la candela al sandalo, la tomba di mia nonna che è morta, il pianoforte, le strade di campagna, l’abbraccio di un amico, la stazione di Castellana Grotte, la stazione di Conversano, la stazione di Rutigliano, la stazione di Triggiano, il lungomare di Bari, (eccetera)
mi sono commossa
Io questa volta
i luoghi e gli oggetti che raccontano la storia di come io ero prima di conciliarmi con io come ero, prima di diventare donna, prima di diventare adulta, prima di diventare consapevole del mio peso e del mio spazio, prima di capire che l’amore non basta, prima che mia nonna che è morta morisse, prima di attaccare il sacco a pelo allo zaino, prima di imparare a lasciar andare e a lasciarmi andare, prima ancora di tanti eventi che hanno stravolto io come ero
Io questa volta volevo mi inghiottissero mi assimilassero nelle loro viscere per riempire il vuoto che è la percezione di tutto lo spazio fisico che io non occuperò mai più, di tutti gli oggetti che non sfiorerò mai più,
di tutte le emozioni che ho tanto amato, di tutte le emozioni che non

Io mi sembra molto assurdo non capisco cosa mi stia succedendo eppure è tutto molto chiaro e sta capitando adesso a me è capitato a chiunque di
cambiare vedere tutto cambiare, io come ero la vita come era come avrei voluto che fosse
non avere più motivo per tornare per guardarsi indietro
– l’horror vacui –

Io la morte di mia nonna che è morta mi ha reso poetessa
E venne col crepuscolo il cremisi
in fiore

ho scritto perché guardando mia nonna che è morta tutta disarticolata dalla vita ho pensato che io anche voglio morire tutta torta e bruciata dalla vita, non composta come fossi rimasta ferma in poltrona, come avessi consumato il mio tempo prendendo un treno un aereo un passaggio perché e dopo averne persi già altri due altri tre, ho pensato che io anche è giunta l’ora di chiudere dentro una tomba dentro un loculo io come ero e venire in fiore è un giorno importante abbastanza per la mia vita, ma

Io prima di venire in fiore, prima di tutto l’ignoto che arriverà prolungando le radici in ogni direzione sotto la spinta del cuore che freme impazza si arrampica, io a volte la malinconia lascio che mi scavi e per una volta ancora mi affaccio sullo strapiombo di io come ero, di tutte le cose come erano e che di secondo in secondo in secondo insecondo insecondo insecondoinsecondo i n s e c o n d o diventano più lontane.


Io prima di venire in fiore.


(Bari-Milano, treno)




Mood: sfiancato
Listening to: Imaginaerium, il nuovo cd dei Nightwish che a riascoltare le loro sinfonie mi sembra di tornare diciottenne
Reading: Necrologio allegro sul treno Milano-Bari a polmoni pieni per amore
Watching: il suo volto il suo corpo
Playing: a recitare la mia parte
Eating: stuzzichini pugliesi e spaghetti di mais aglio olio peperoncino
Drinking: caffè






Qualsiasi altra immagine è bianco nero ancora troppo mio.



Oggi, quando mancavano tre ore all’ultimo treno Milano-Bari, mia nonna è morta.
Oggi, ha squillato il telefono e mia nonna era morta aveva già respirato l’ultimo respiro e si è fatto silenzio come quando si fa silenzio perché a tutti sbatte fortissimo il cuore e io ho pensato che anche mia nonna era scaduta come l’amore la marmellata la tachipirina solo che mia nonna scaduta è come l’amore la marmellata la tachipirina scaduti tutti assieme e io le gambe si sono messe a tremare fortissimo i pensieri a pensare e le mani a raccattare due magliette e un pantalone da buttare nello zaino e già ero sull’ultimo treno Milano-Bari.

Io mi tremano ancora fortissimo le gambe.
Io i miei pensieri soltanto io li penso.
Io le mani mi sanguinano e i pensieri pure, tengo vive le immagini.
Tipo quando io a settembre scorso mia nonna sono andata a salutarla e lei era in ospedale dove tutto è triste e puzza di cloroformio e non ci si diverte neanche un po’ e aveva nella pancia un dirigibile per la cirrosi non le riusciva più di portare la dentiera smozzicava le parole tra le labbra aggrinzite gli occhi le si riversavano all’improvviso immensi sulla faccia tanto deformata perché continuava a trascinarsi dietro un male dietro l’altro e poi un altro ancora e quando mi ha vista ha riso tutta con gli occhi e mi ha abbracciata mi ha chiamata ‹‹Dorotea!›› mi chiesto di me dei miei progetti del mio futuro mi ha detto ‹‹Fammi due fotografie!›› e io lo stupore e l’emozione mi hanno scossa sfondato il cuore e le ho chiesto ‹‹Davvero?›› e lei mi ha detto ‹‹Sì›› e allora io l’ho raccontata una settimana centinaia di fotografie tutto il tempo a disposizione e per poterlo fare io m’è toccato accettare di essere promiscua con la sua sofferenza quella di una vita non solo di un male che uccide e piangerne ogni giorno per tutto il giorno e poi una sera mia nonna mi ha attirata a sé e mi ha detto roca ‹‹Io sono stata tanto felice.›› e io mi è sembrato assurdo, siamo in ospedale dove tutto è triste e puzza di cloroformio e non ci si diverte neanche un po’ e tu hai nella pancia un dirigibile per la cirrosi non ti riesce più di portare la dentiera smozzichi le parole tra le labbra aggrinzite gli occhi ti si riversano all’improvviso immensi sulla faccia tanto deformata perché continui a trascinarti dietro un male dietro l’altro e poi un altro ancora hai passato la vita a coltivare l’ostiporosi nella terra e non hai conosciuto il mondo hai smesso di uscire anche solo per una passeggiata da troppi anni quando avresti voluto conoscere il mondo e sei stata tanto felice che significa? che ‹‹Nella vita bisogna anche saper soffrire, Dorotea.›› tipo quando a settembre ha detto a mia madre con serena lucidità da paura ‹‹Figlia mia, tu devi pensare alla vita tua, vai in Olanda, hai una famiglia, la tua famiglia è lì. Io ormai sono cotta. Starò bene.›› e ci ha fatte piangere in due e mia madre l’ha convinta a partire ma per morire ha aspettato di vederla tornare poterla abbracciare ancora perciò ieri sera dopo averla abbracciata all’improvviso si è lasciata andare, ha sofferto molto mi dicono perché aveva arpionato la vita l’aveva tenuta stretta stretta l’aveva domata coi suoi desideri io allora mi viene da arrabbiarmi avrebbe potuto aspettare anche me che volevo salutarla e ricevere in cambio una risposta una settimana in più sarebbe bastata dopo che non ci vedevamo negli occhi da settembre ma io mi è toccato essere egoista e lei mi ha spinta in un viaggio lungo e pieno di compromessi senza poterli volerli pensare che io il mio sospetto è che lei l’abbia fatto per ricordarmi di buttarmi in un viaggio lungo e pieno di compromessi senza poterli volerli pensare per aver cura della mia vita saper soffrire ed essere tanto felice la prossima volta e ho sorriso perché poi io mi è tornata in mente mia nonna quando incapace di camminare troppo a lungo si inerpicava su un albero per ramazzarlo all’alba del mio diciottesimo alla fine dei festeggiamenti, quando ballava una canzone da sottocassa in coppia con me che le dicevo ‹‹Nonna, ti infilo nel latex e ti porto a ballare a fare shopping a Milano!›› e lei rideva tutta con gli occhi e mi diceva ‹‹Magari!›› e tantissime altre cose perché io la strapazzavo e lei rideva tutta con gli occhi e le dicevo ‹‹Ti voglio bene.›› e lei mi diceva ‹‹Grazie!›› e io le dicevo ‹‹Ma nonna, io ti dico che ti voglio bene e tu mi dici che grazie?!›› e poi negli ultimi mesi al telefono mi diceva ‹‹Ti voglio bene, Dorotea.›› e io mi tremano ancora fortissimo le gambe io i miei pensieri soltanto io li penso io le mani mi sanguinano e i pensieri pure, tengo vive le immagini.

Io domani sono i funerali di mia nonna e ci saranno io da Milano mia madre ieri dall’Olanda mio padre mia sorella domattina dall’Olanda i miei zii le mie zie i miei cugini il prete e tante persone che devono andare alla chiesa dove c’è mia nonna che oggi è morta fare le condoglianze ricevere le condoglianze camminare piano dietro la macchina con mia nonna che oggi è morta fino al cimitero per certo ciascuno masticando un rimpianto autografato e c’è qualcosa che suona come il gelo come se mia nonna che è morta non ci fosse più e non mi piace non è così che deve andare perciò nel bel mezzo io credo balzerò sui banchi con una stronzata la farò grossa enorme gigantissima tipo come quando mia nonna la strapazzavo e lei rideva tutta con gli occhi perché lei rideva tutta con gli occhi e io sono convinta che mia nonna meriti un necrologio allegro e non banale tipo come quando una persona scade che è come l’amore la marmellata la tachipirina scaduti tutti assieme e tutti piangono e sono tristi e nessuno sospetta di poter essere felice allora io mi scappa da sorridere mentre tengo vive le immagini sull’ultimo treno Milano-Bari e non trattengo un applauso forte da crepare il gelo alla vita di mia nonna che oggi è morta perché forse ogni vita merita un applauso, falli ballare, nonna (anche se io quando guardo il paesaggio e le lucine correre nel finestrino dell’ultimo treno Milano-Bari un po’ da piangere mi viene).


(Milano-Bari, treno, 22 gennaio 2012, notte)




L’amore che resta

ottobre 15, 2011

Mood: combattivo
Listening to: il riflusso lento del sangue
Watching: la marea di indumenti che invade il mio letto in previsione del cambio stagionale del guardaroba
Playing: a ristabilire la mia vita a Milano, ché dopo la prima settimana i successi in questa direzione non sono stati eclatanti
Eating: il risotto agli spinaci preparato da Yanna
Drinking: caffè






L’amore che resta di Gus Van Sant io avevo realmente bisogno di vederlo. L’ho capito non appena ho visto quest’immagine.

Voglio dire, le sagome di Enoch ed Annabel legate in una sola sull’asfalto sono l’Amore che resta, quello che se ne frega di quanto gli uomini e le loro faccende siano per natura corruttibili ed effimeri. Gli uomini, per l’appunto. L’Amore non necessariamente.


"Amore, quando ti diranno
 che t'ho dimenticata, e anche se
 sarò io a dirlo,
 quando io te lo dirò,
 non credermi
 chi e come potrebbe
 reciderti dal mio petto,
 e chi raccoglierebbe
 il mio sangue
 quando verso di te m'andassi dissanguando?"

[Pablo Neruda, Lettera lungo la strada]
Mood: rintonito
Reading: Quando si perde l’occasione di tacere, un minuto di silenzio, no, di più, molto di più.
Listening to: Coldplay – Every Teardrop Is A Waterfall
Watching: le pareti troppo spoglie di questa casa
Playing: a cacciare insetti indesiderati ed indesiderabili
Eating: Tuc donatimi da Zulio prima di balzare sull’ennesimo treno, in alternativa acqua salata con la forchetta, ovvero la gioia di tornare a casa a Milano per una giornata appena, sapendo vuota tanto la dispensa, quanto il portafogli
Drinking: acqua naturale



Se di nuovo mi diletto a vagabondare senza mai predefinire con troppo anticipo il momento di uno spostamento, tirandomi dietro una valigia riempita senza criterio un pomeriggio d’inizio mese, all’improvviso e da allora mai svuotata in un armadio qualsiasi, foss’anche quello della mia casa materna, è a causa di una sensazione di disagio ed irrequietezza tanto violenta da diventare nausea fisica, che mi riconduce a star bene in tanti luoghi piuttosto che in uno solo, cogliendo di ognuno le visioni e gli umori, ma andando via prima di anche solo correre il rischio di vederlo sfiorire giorno dopo giorno, fors’anche di vederne schiudersi le gemme. Non solo. Ci sono una manciata di momenti ben localizzati nella mia vita ultima, a partire dai quali ogni risveglio ha iniziato ad agitarsi nell’urgenza spasmodica di vivere e vivere per intero, di circoscrivere in un angolo soffice del cuore tutto quanto fin’ora è stato ed ho amato e tutt’ora amo di più, ma che in un modo o nell’altro, per un motivo o per l’altro mi ha frenato il passo, mentre la vita mi passava sotto il naso più e più volte ed io la lasciavo andare. Circoscrivere in un angolo soffice, che non significa chiudere gli occhi e rinnegare un’importanza o cercare di dimenticare, non è nei miei tentativi, né mai sarebbe impresa possibile, piuttosto ridimensionare sullo sfondo eventi e figure in primissimo piano con cui ancora fatico a fare i conti, quindi portare dentro ed andare avanti, lasciando che il tempo muti lo sguardo ed il sentimento per poter esserci ancora, ma libera da ansie o aspettative folli, ho bisogno di ciò che amo, ma non voglio più aver bisogno di ciò che non posso avere così come lo vorrei, è pura insania. Prendo le distanze da tutto quanto fin’ora è stato ed ho amato e tutt’ora amo di più per curiosità e speranza e fiducia di ciò che ancora deve venire perché c’è sempre qualcosa che è ancora a venire, sempre qualcosa che ancora non s’è fatto e visto e ascoltato e assaggiato e toccato e odorato o semplicemente non a sufficienza, l’uomo che seduto per terra canta per sé soltanto e per la notte accompagnandosi con la chitarra, la malia del bucato appena steso ad asciugare e delle creme da corpo lungo le calli, l’immobilità di una mendicante nel tramestio dei turisti, la malinconia di un vaporetto a festa finita, certa musica in una terrazza sospesa sull’acqua come lingua languida, l’ebbrezza nella pioggia e nel vento forte che scompone la carne, il respiro della montagna, le cartografie luminose a valle quando cala la notte, la grappa al liquore, l’albero solitario negli ultimi accenni del tramonto, le vibrazioni dell’aria all’avvicinarsi della tempesta, la tazza di caffè bollente come un focolare, la coppa di un fiore che si scompone ansimante quando un’ape vi si immerge, la confidenzialità di certe discussioni, il rifugio con il camino acceso, i canti degli alpini che dal fronte vogliono volare dalla loro bella, la curiosità di un bambino nei confronti di una bambina che lo ignora, la crostata di more e mirtilli, il silenzio carico di emozioni prima del lancio di un parapendista e lo schiocco del vento che gonfia la tela, la vacca che allatta il suo vitello e lo protegge da sguardi indiscreti, il ragazzo che da me non vuole nient’altro che potermi aiutare con la valigia più grande di me all’uscita della metro, certe parole nella posta privata di feisbùck, nel dettaglio più insignificante, che sia per caso o per intenzione, ci può essere la comunione di più intimità, l’amore quel pluricitato, in verità l’amore è sempre laddove si è pronti a riconoscerlo. Quanto siamo banali, noi uomini, tutti bisognosi d’amore!, ci spingiamo a cercarlo per miglia e miglia perché ce lo immaginano immenso e brillante come una Via Lattea, l’amore, e non siamo capaci di renderci conto di quanto ci stia vicino, ché lui, l’amore voglio dire, sta nelle cose immensamente piccole di ogni giorno, e mentre così ciechi scalpitiamo e ci dimeniamo come tartarughe obese in un acquario troppo piccolo, ci inaridiamo, un pertugio di cuore oggi alla rabbia, uno domani al rancore, cesellati ed articolati ad arte attorno ad un tavolino mentale esclusivo. Ci inaridiamo per amore, noi uomini, grandissimi imbecilli che non siamo altro, capaci di scappare davanti all’amore! Eppure, ho l’impressione che tutto quello per cui vale la pena viversi questa vita sia proprio l’amore per quello che è perché non c’è viaggio più breve della vita per consumarlo in cantina.

Ammetto che è stato un fiotto di rabbia a lacerarmi senza troppi preavvisi da tutto quanto fin’ora è stato ed ho amato e tutt’ora amo di più, ma nella mia rabbia c’era e rimane tutta la nenia disperata dell’amore vissuto e sognato e negato e semplice e articolato e delicato e violento e fraterno e passionale e via così.
Perciò in questa scarpinata sulla distanza, tocca fare i conti non solo col desiderio di allontanarmi ed allontanare da me per guadagnare terreno sulle possibilità della vita, ma anche col dolore che procura allontanarmi ed allontanare da me. Penso che sarebbe bello al massimo se ad accompagnarmi ci fossero solo la consapevolezza di una necessità propulsiva improrogabile e indiscutibile e la curiosità e la speranza, ma un passaggio così lineare tra i giorni non potrebbe mai essere il mio perché di me fanno parte il conflitto e la complicazione, motivo per cui mi affatico, trascinandomi dietro un nugolo recalcitrante di ossessioni che mi richiamano indietro, gli odori in primis, che sempre io avverto troppo saturi ed allego ad immagini e suoni e sensazioni, gli odori nel tempo, riconosciuti per strada e riscoperti intrappolati tra le pieghe dei vestiti e negli angoli delle case che appena s’inviano su per il naso arrivano dritti al cuore e lo intasano, spezzando il rosario di pietra incandescente che custodisco all’interno e rovesciandone tutti i grani sottopelle, tum tum tumtum tumtumtum, sbam!, il terrore puro e asfissiante, acquattato nei sogni di ogni notte e sempre più ingestibile, che qualcosa o qualcuno faccia male ancora a chi più amo, secondo l’interpretazione dei sogni dovrei lasciar che nel sonno succeda tutto il peggio, finanche la morte, perché questo significherebbe la capacità conquistata di accettare una rinascita reale, evidentemente io ne sono ancora nuda, di contro ogni volta che salgo in una macchina l’immagine costante di un incidente stradale, lontana da tutto e tutti e a mani vuote e senza voce perché non avrò saputo raccontarmi.
Senza voce.
Senza voce…

Rifletto su quanto la mia esuberanza possa essere anche una talentuosa apparenza in cui si inabissa una delicata propensione implosiva. Ho imparato da subito a non temere il silenzio, a camminarci attraverso, senza l’affanno di riempirlo oltremodo ed inutilmente di parole e musica. Nel silenzio sento la vita in espansione ed è una sensazione essenziale e quasi misterica, come se vivessi tante vite in una sola, io esisto, esito e voglio esistere sempre di più perché in me l’esistenza racchiude una potenza febbrile che non coincide con la felicità e la leggerezza che sento spesso mancarmi, ma che le contiene entrambe assieme al dolore, l’esistenza non manca di nulla.
Tuttavia, in questa conchiglia che raccoglie tutte le armonie, spesso il silenzio, incapace di aprirsi una sola bocca verso l’esterno e da quello farsi ascoltare quando dovrei parlare e urlare e cantare, implode in se stesso con un boato sordo e si travalica per divenire vuoto senz’aria. Allora per far stare in piedi la struttura, riempio il sacco come posso, come meglio mi riesce, suonando una partitura sempre più caotica ed intima. Ecco, a volte temo soltanto che, a lungo andare, la mia partitura diventi sempre meno accordabile a quella di qualcun’altro.
Per questo scrivo costantemente, è il mio tentativo di non nascondermi, tanto agli altri, quanto a me stessa perché di tanto in tanto torno a leggere e nello scarto tra chi ero e chi sono scopro un qualche cambiamento che poi è indice di un cammino perpetrato e questo, intendo la scoperta di compiere dei passi, anche se irregolari, in avanti quando invece mi sembrava che tutto fosse immobile, questo mi rende più forte.

Oggi avverto l’avanzata concretamente e quotidianamente nel mutare del corpo e dei pensieri, certamente è una tale rapidità a darmi tutte insieme le vertigini calde e gelide che tanto mi spossano. È una partita all’equilibrio tra i tempi e le emozioni ed i desideri che ho messo in movimento e ormai sono diventati inarrestabili, a meno di non ritrovare la loro adeguata dimensione. Che fare, allora, se non avanzare? Dopotutto il sentimento della vita ha in me lo stesso effetto incalzante che avrebbe un peperoncino infilato su per il deretano!

Ultimamenteffettivamente

marzo 21, 2011

Mood: quieto
Listening to: Subsonica – Sul Sole



Ultimamenteffettivamente, mi trascino la stanchezza alle spalle, come un Tobia attaccato al guinzaglio, una palla alla catena, un rompicoglioni alle scatole, insomma, a buon intenditor.

Ultimamenteffettivamente, “stanca” è il solo termine che utilizzo per raccontarmi, vai poi a vedere tutto quello di cui sono stanca, di quella stanchezza che mi marca gli occhi in nero, liquidi e pesanti, mi vedo brutta nello specchio, bruttissima, è come assistere ad una disfatta, giorno per giorno e perché cazzo non riesco a sorridermi?, perché cazzo non riesco ad amarmi solo un po’ e strozzo il respiro ad ogni minima perturbazione del cuore?

Ultimamenteffettivamente, al di là del troppo-troppissimo lavoro, a maggior ragione con i giorni di riprese in arrivo, tanto per il booktrailer, quanto per il cortometraggio, il vero problema sono gli scompensi, mamma, se mi stai leggendo, tranquilla!, non quelli alimentari, forse anche onestamente, quelli emotivi ed affettivi piuttosto, che poi, se ci pensi un po’, è degna fame anche questa. Incastrato tra lo stomaco e la bocca, resta un nugolo di storie, parole, desideri e paure, tossisco, sputacchio, ma non mi libero. In verità mi sommergo di lavoro perché ogni tempo morto diventa un’allucinazione ingestibile, affogo nell’ansia se non riesco a riempirmi la giornata di impegni e se non corro all’impazzata fisicamente e psicologicamente, anche a vuoto, fino alla tachicardia. Il problema sostanziale è che mi racconto va tutto bene, procedi, non perdere tempo in inutili piagnistei, va tutto bene, va tutto bene, sorridi tutto il tempo, non c’è più dolore, ma questa è una carnevalata, forse la peggiore che abbia mai messo in scena perché non è che se uno ha imparato a stare bene non può più star male, e il dolore, quando torna, non si può metterlo da parte, bisogna masticarlo, una due, tre volte, tutte le volte che serve fino a metabolizzarlo e piangerlo via, altrimenti la sacchetta del veleno si gonfia e scoppia, contamina il sangue e non si fa presto ad uscirne.

Ultimamenteffettivamente, sono fin troppo consapevole della necessità e delle modalità di un giro di boa nella mia vita, ho persino stipulato dei patti secchi di clausole con la mia anima, ma allora perché non riesco a perseguirli? Hai troppa paura di perdere, dice mia sorella, e non ti accorgi che hai la vita davanti, che mentre tu aspetti c’è chi va avanti ed allora non solo avrò perso quel che non voglio perdere, ma avrò perso vita, ed io ho paura di perdere la vita, mi fa uscire di senno l’idea di tutta la sabbia che scivola nel collo della clessidra e spaccherei ogni specchio, ogni superficie che riflette il tempo scorrere, mi terrorizza letteralmente il tempo, che poi il tempo è un soffio, non sai mai quando si stanca di scorrere, magari è un attimo, e non riesco a smettere di pensare a quanti ragazzi sono morti in meno di una settimana, quello in Belfanti, neanche sapevo esistesse, ne ho sentito parlare per la prima volta mentre spariva sotto il telo bianco, e tutto quello che so è di come se n’è andato, poi due amici di un amico, una notte, ancora la strada, di loro non so assolutamente nulla, ma non è che devi per forza sapere qualcosa di qualcuno per provare dolore, e poi Freddy, com’è possibile?, Freddy? mi faceva il caffè tutti i giorni Freddy, talvolta più di un caffè, e non è che fossimo intimi Freddy ed io, anzi ci conoscevamo appena, ma insomma, un po’ sì, mi faceva il caffè, chiacchieravamo al bancone ed era pieno di vita lui, come è mai possibile che non ci sia più?

Ultimamenteffettivamente, mi mangio mani, unghie e vene, ad arrivarci, mi fanno nuovamente malissimo i denti, ho persino sognato di perderli uno dietro l’altro, clang, clang facevano, e di restare ad osservarli sconvolta, grandi, orrendi, distrutti dal rosicare. Qualche giorno fa, mi è stata proposta una spiegazione psicosomatica per il mangiarsi le mani e le unghie, non le vene però, Fondamentalmente tu sei un animale e, nella coscienza evolutiva, le unghie restano il tuo strumento d’aggressione, pensa ad una leonessa, ma anche solo ad una gatta. Nel momento in cui nutri una voglia folle di aggredire qualcuno, qualcosa, qualcuncosa, ma per un motivo o per l’altro o per entrambi, preferisci non farlo e restar buona e calma, riversi tutta la tua aggressione sul tuo strumento d’aggressione per evitare che aggredisca. Esticazzi se è vero!, ho esclamato, centro di controllo, mandi pure i soccorsi che quaggiù si soffoca. Temo di vomitare all’improvviso e tutto d’un botto, come un fuoco d’artificio di lava e lapilli. Nel 79 d.C., il Vesuvio ha eruttato l’anima della Terra, distruggendo Pompei ed Ercolano, mica robetta, e, a millenni di distanza, esiste forse qualcuno che nutra fiducia nel suo sonno?

Ci sono giorni in cui ho un po’ paura che le cose mi trascinino via, senza possibilità di appiglio, che non arrivi più il sorriso, che non scenda più una pioggia torrenziale sotto cui ballare, solo acqua sporca che lava via ogni colore.
Poi, una notte, all’incrocio di un volo dei nostri cuori, lontano dall’immondo, verso gli sconfinati spazi vergini degli amori innocenti, ho conosciuto l’Agathe di Baudelaire, e nei suoi occhi ho scovato la stessa malinconia burrascosa che c’è nei miei, le stesse domande e le stesse preghiere e mi sono sentita meno sola.

Portami via, vascello, involami, vagone!
Via, lontano da qui, dove il fango è di pianto!
È vero che a volte, Agata, gridi nell’afflizione:
dal rimorso, dal crimine, dall’affannoso schianto
portami via, vascello, involami, vagone?

Le ho detto, Succede, non va sempre come si vorrebbe, piangi pure, Agathe, ma credimi, c’è spazio anche per noi, non disperare, non affannarti, forse il Paradiso è solo più lontano, per noi, forse dovremo cercarlo più a lungo, ma c’è spazio anche per noi. Lo sai che nella foresta tropicale, è l’assenza di luce che stimola la crescita? Lo sai che a un certo punto, la testa rimescola tutto e trova la luce nel buio e il sacro nel profano? La ricchezza, Agathe, è nella complessità e tu non sei un fondo di bottiglia vuota, non lo sei, Agathe, smettila di raccontarti stronzate. Ma li vedi i segni sul tuo volto?, li vedi, Agathe? Non è bruttezza, è la vita che ti si è aggrappata alla pelle, la vita, Agathe! Alza la testa, il mondo, le facce, i gesti, al rosso di un semaforo, emozionati, Agathe!, consolati, cattura il sole che ti illumina il colore degli occhi, stai in mezzo ai colori!
Che poi l’abbia detto per cullare anche me, si capisce.

Dopotutto, Oggi, è l’ultimo giorno!, canta Samuel nelle mie orecchie.

Dalla Genesi a King Kong

settembre 3, 2010

Mood: distratto
Listening to: il traffico giù in strada
Drinking: caffè
Eating: yogurt alla fragola
Sniffing (in via eccezionale): l’odore del soffritto che si intrufola dalla finestra. Non è possibile che ovunque vada ci sia il vicino dal soffritto aggressivo!



“E Dio creò l’uomo a sua immagine;
a immagine di Dio lo creò:
maschio e femmina li creò.”

[Genesi, 27]


Ore tredicipuntoquarantotto, oggi, casa.

Per la decima volta da che mi sono messa al lavoro, mi alzo dal pc, dove sto disegnando, sempre in Illustrator, una donna in posizione fetale, e vado allo specchio, quello del corridoio, bronzo antico corroso.
Dalla cucina Yanna, all’anagrafe Arianna, amica di cuore fin dalle rispettive condizioni fetali, sgusciata al mondo dieci giorni prima della qui presente autrice, compagna di giochi e pizze nella prima infanzia, in congedo nel corso della seconda infanzia, poi di nuovo compagna d’avventura in adolescenza ed età attualmente neo-adulta, personal reggifrontone ufficiale nel decorso delle sbronze a vomito, mille e mille altre cose che non basta un libro per elencarle perché di vita insieme ne abbiamo ballata davvero tanta, ed ora anche coinquilina nel milanese, capace, lei tra tutti, di uscire dal cesso, esclamando con aria sognante, neanche avesse visto il principe azzurro, che profuma di nuovo e buono, je t’ador!, “non me lo posso perdereeeeee”, dicevo, Yanna mi guarda, sopracciglio alto, mentre mi posiziono di profilo, alzo il braccio destro sopra la testa, ascella in direzione naso tanto da sembrare che me la stia annusando, e piego la testa ora di qui ora di lì.
“Do’, ma che fai?”
Animazione. Devo capire l’inclinazione del corpo per poterlo disegnare.

Una mattina, qualche mese fa, scuola.

Sul grande-pannello bianco, il proiettore rimanda le immagini di alcuni loschi soggetti che fanno smorfie da gorilla davanti agli specchi, saltano da una parte all’altra della stanza come gorilla, urlano come gorilla e s’azzuffano…. come gorilla, sì, arguto chi ha indovinato e no, nessun premio in palio per tanta sottiletta sottigliezza intellettuale, talvolta la vita è amara!
Costoro sono gli animatori di King Kong, nel making of del film, impegnati a dar vita al terribile mostro peloso e ciccione, studiandone i movimenti plausibili ed ogni più piccola variazione nei muscoli, nei dettali del corpo, del volto.
Non nego che a primo impatto, l’alzata di sopracciglia è doverosa, ma, messa da parte la ridarella superficiale per i quattro uomo-scimmia e le riserve in merito allo stesso King Kong, quel che subentra è la fascinazione.

Tutto per dire che

Nella vita non ho molte certezze. Una di queste è che non farò mai l’animatrice per una serie di ovvie ragioni (chi non le conoscesse è rimandato qui) e perché sento che la mia avventura è un’altra, mi porta per il mondo, con al collo un obbiettivo per penetrarlo, direbbe lui, esprimendo tutta la tensione dell’esperienza.
Un’altra convinzione è che se un dio creatore è mai esistito, ogni cosa l’ha forgiata e l’ha dotata d’anima così, come gli animatori di King Kong, come faccio anch’io, seppur in proporzione micro-infinitesimale.
S’è specchiato, questo dio, s’è studiato, un po’ narcisisticamente, un po’ con odio. Ha imparato a conoscere il suo corpo, i suoi muscoli, le sue ossa, come si articolano sotto la pelle e a capirne la bellezza assoluta nell’imperfezione. Che strano marchingegno è il corpo, un’orologeria delicata: “Fragile, fare attenzione”. Sarà perché custodisce l’anima, non deve lasciarla scappare.
Ha anche osservato ogni più impercettibile variazione nel movimento, questo dio, perché nulla è statico, anche quando sembra esserlo. E allora il movimento è conditio sine qua no della vita, quel che non si muove è morto, lo riconosce anche un bambino. “Panta rei”, diceva Eraclito, che se avesse saputo quanto la gente moderna avrebbe abusato di questa idea in tutte le salse, come il prezzemolo, certamente si sarebbe garantito i diritti d’autore per tutta la discendenza. Forse a volte bisogna solo abbandonarsi al flusso e sentirsi andare, serenamente, e mettere in saccoccia quello che capita per le mani, senza affannarsi in cieche ricerche.
Probabilmente, questo dio, ha pastrocchiato con fango e polvere di ossa, non certo ha “smanettato” sul computer, che all’epoca mi sembra non esistesse, ma fango e polvere di ossa o computer, disegno sequenziale o modellazione, stop motion o rotoscope e chi più ne ha più ne metta, quel che resta è il concetto, quest’idea tanto romantica quanto forte.








No. Al momento nessuna anticipazione sul progetto a cui sto lavorando.
E’ ancora in fase embrionale. Lo sto cullando, al caldo.