Intro-[…]
ottobre 21, 2013
Mood: pacato
Reading: Bruno Schulz, Gli uccelli, in L’epoca geniale e altri racconti
Listening to: Laura Marling – Little Love Caster (Live on KEXP)
Watching: Screen Lovers di Eli Craven
Eating: cavatelli con funghi e carote
Drinking: caffè
Sono successe molte cose diverse nell’ultimo mese. Soprattutto mi sono sentita priva di senso, insoddisfatta e inadeguata alla tensione che ne è conseguita tra una docile nostalgia dell’annullamento e un dispotico anelito vitale.
Mi sono messa in cammino. Ho percorso un ritorno silenzioso dalla mia nuova condizione esistenziale alla terra in cui sono nata e alla casa in cui non ho mai avuto più di diciotto anni, a Milano e ai suoi flussi rapidi di ricambio, alla condizione esistenziale infine da cui sono partita, ma non proprio la stessa, piuttosto la condizione esistenziale visibilmente rinnovabile – pertanto già rinnovata in una qualche misura – da cui sono partita.
Il fatto, ho l’impressione nasca da dentro, da uno sforzo titanico eppure minimale all’apparenza di intro-spaziare e intro-ispezionare,
‘ché io sempre, tutte le cose migliori le colgo mentre sono in movimento e, andando, riconquisto la certezza di avere i piedi robusti quanto basta e anche più per poterle inseguire.
“Ma sì, adesso mi faccio trascinare dalla bufera attorno al distributore,
fintantoché non mi spuntano le ali.”
[Werner Herzog, Sentieri nel ghiaccio]
Italia, Puglia, Monopoli, 28 settembre 2013
Mia nonna quando sono andata a trovarla in cima a uno dei cinque colli del paesello, se non fosse stata solo una fotografia sul marmo di una lapide, mi avrebbe detto Datti da fare, Dorotea, come se mai fosse abbastanza.
Ottobre 2012, «E dopo?»
ottobre 27, 2012
Mood: sereneggiante
Reading: Paola Bressan, Il colore della luna
Listening to: Bonobo – Noctuary
Watching: Nuovomondo di Emanuele Crialese
Eating: latte e biscotti
Drinking: caffè
Questo ottobre 2012 è un mese inequivocabilmente degno di nota nella mia vita. Per la prima volta in ventitré anni, l’inizio di un nuovo anno accademico non mi ha trascinata di fronte a una qualche cattedra con congruo professorone in tale eccelsissima scienza – senza sottigliare sul fatto che quando ero al liceo dovevo rientrare in aula il primo lunedì di settembre, quando, a Sud dove sono cresciuta, tutto il resto dell’umanità se ne sta ancora abbarbicato sugli scogli per sfuggire alla bollitura a secco e mai nessun istituto si sognerebbe di aprire le porte di quella che sarà certamente una fornace, nessuno tranne il mio che era speciale e aveva anche le reti di sicurezza alle finestre.
Ritornando indietro di qualche riga, fino a prima dell’inciso, e riprendendo le fila del discorso, si tratta di una cosa che letteralmente deforma il tempo di ogni giorno per come ero abituata a viverlo e questo un po’ mi confonde, ma per lo più mi sconfinfera perché adesso, senza darmi alla nullafacenza, né sollazzarmi oltre misura, finalmente posso starmene con i muscoli di qualche centimetro più distesi e persino concedermi un diletto di tanto, in tanto.
Facendo i conti in rapidità, a oggi mi trovo a un esame, una tesi e una dissertazione di distanza dal mio brillante foglio di carta da incorniciare nello studio che mai avrò. A febbraio avrò azzerato anche questi numeri,
«E dopo?»
«Dopo arriverà», rispondo generalmente.
Ebbene, la mia potrebbe definirsi una crisi communis da laureando in merito alla quale non c’è bisogno di aggiungere alcunché. Effettivamente ci sono giorni che mai come adesso mi sono sentita tanto uguale a tutti gli altri.
In realtà io, se mi metto la testa alla rovescia, chiunque potrebbe vedere che non è vuota, ma che è frullata ininterrottamente da un gran numero di idee tutte di prima classe, desiderabili e persino attuabili, ma tutte intrugliate con un numero superiore di eventualità, cause e effetti precisabili da me, dagli altri, dalle situazioni, dal caso, cioè da tante cose che – chiunque converrà con me – variano di giorno, in giorno, e sulle quali non si può fare affidamento quando si tratta di prevederne gli esiti. Un matematico definirebbe questa condizione “sistema complesso”, se fosse più pignolo “sistema caotico”.
Del resto io, se mi metto a pensare al dopo, mi distraggo subito perché non voglio fare come chi se ne va lontano dal presente a causa di un’attrazione superiore per il futuro che, invece, io dico, si riempirà delle cose che saranno passate sicché adesso mi limito – se di limitazione si può parlare, senza farmi torto – a vivere al meglio che posso tutto quello che mi circonda, “sistema complesso” incluso.
Accordo però che, tra gli elementi che mi rimescolano il cervello, il più frequentemente a galla è esodo
1 // da me che, determinata come sono nell’inseguire quello che voglio e abituata a superare ogni momento di crisi, non ho voluto riconoscere di essermi ridotta con i nervi a pezzi nell’ultimo anno, errore mai tanto grande perché adesso l’unica cosa che mi va a fagiolo è stare appesa a testa in giù dal ramo di un albero mentre il mondo fa avanti e dietro e io lo interiorizzo per alimentare il mio genio ammutolito.
2 // da uno Stato che, miseria di offerta di lavoro a parte – a maggior ragione per eretiche come me che osano pensare di poter svolgere una professione di appannaggio maschile –, ma non del tutto, si arricchisce di “puttanieri, faccendieri e tragattini”, demolisce continuamente i diritti fondamentali dell’essere umano in virtù di una legge tutt’altro che laica, millanta un ideale di democrazia che non bacia la realtà tanto più perché è vuoto fin dalle origini dei concetti di cittadino e di popolo sicché tutti l’importante è il mio piatto di pasta due volte al dì, per quello si può scendere in piazza, fottere e ammazzare, ma del bene comune, dello Stato sociale – quei famosi – chissenefrega, e quali virtù, quali beni può trasmettere tutto questo al piccolo figlio – che forse mai avrò – quando dovrà insegnargli a stare al mondo, quale serenità a me che non mi ci riconosco e che me ne vergogno? Dicono che ho il dovere di essere arrabbiata e giuro, lo sono. Fino a qualche anno fa, sarei anche stata nelle schiere di chi resta a dare capocciate contro i muri, guadagnando infine [con tempi da olocene] piccole crepe interstiziali – tanta stima a riguardo –. Ma onestamente io, non che abbia mai affinato un forte sentimento di italianità e questo scombussola un po’ i fatti: oggi andrei via perché vedo mancare le condizioni per restare o forse semplicemente perché oggi sono geneticamente italiana più di qualche anno fa e voglio interessarmi di me soltanto e non dell’Italia.
Fra l’altro, prima o poi, dovrà arrivare il momento in cui fare per davvero i conti con la mia irrequietezza che tanto mi spinge a vagabondare, tanto mi tormenta – talvolta morbosamente – con la ricerca delle radici.
La Germania, quella che ho visto
ottobre 10, 2012
Mood: affaticato
Reading: Ercole Visconti, Parole illuminanti
Listening to: The Lumineers – Ho Hey
Watching: Anna Ådén Photography
Playing: con le immagini
Eating: pastina al brodino, sinonimo di influenza
Drinking: brodino
Mercoledì mattina mi sono svegliata in pantofole. Fuori c’era la caligine accecante d’inizio ottobre a Milano – una peculiarità –. Ho trascinato il cervello stigio fino al primo caffè della giornata, cercando di persuaderlo a propositi di natura più operativa, ma già millantando vie di fuga di maggiore interesse, mostre, eventi, convegni.
Un’ora dopo ero in partenza per la Germania. Ho agguantato in volata la proposta di un passaggio in macchina direzione Mainz. Stava nell’aria da qualche giorno. Si sarebbe trattato di una toccata e fuga da due giorni in mezzo a sedici ore di autostrada.
Con me c’erano Arianna, Carlo l’amico di Arianna, Fabio il padre di Carlo che a Mainz lo aspettavano ragioni di lavoro. Quando abbiamo impilato i trolley nel bagagliaio della Ford e ci siamo avviati, la giornata era diventata assai calda. Il cappotto sarebbe servito solo qualche ora dopo.
Lungo le autostrade lombarde che portano fuori da Milano, il cielo si riempie sempre poco a poco di azzurro, come se la velocità dei mille viaggi intrecciati per ogni dove gli strappasse di dosso polveri e foschie. Alla frontiera con Svizzera, si è fatto largo anche il verde, cascando dalle montagne insieme all’acqua dei ghiacciai, prima smunto, poi acceso e macchiettato d’autunno giallo e rosso.
Abbiamo superato il confine da Chiasso, procedendo per Lugano e Bellinzona, un percorso già fatto quattro anni fa, in un’occasione molto diversa della quale non ricordavo nient’altro oltre la sensazione di un violento esilio emotivo, riverberato dalle barriere metalliche autostradali. Da sud a nord, lungo l’autostrada del San Gottardo, il paesaggio svizzero è fatto da mucche e laghi nella regione italiana, da distese di patate e lama nella zona tedesca. Le montagne accompagnano tutto il percorso attraverso la Svizzera, ma la loro altezza digrada, passando dall’una, all’altra, fino a sfumare nella verdeggiante pianura tedesca del Reno ai piedi della zona montuosa del Mittelgebirge, sempre uguale a se stessa fino a Mainz. Osservando, sulle linee fisiche dell’ambiente, si sovrapponevano nella mia mente tratti di rincorse [verso cosa?] impedite sul finire [o iniziare] da una ritorsione indietro, indentro. La radio passava “la meteo” e Una lacrima sul viso.
Dalle pagine che stavo leggendo.
“[…] gli aborigeni non potevano immaginare il territorio come un pezzo di terra circondato da frontiere, ma piuttosto come un reticolato di «vie» o «percorsi».
«Tutte le nostre parole per “paese”» disse «sono le stesse che usiamo per “via”».
Il perché si spiega facilmente. Gran parte dell’outback australiano era costituito da aride distese di arbusti o da deserto sabbioso; là le precipitazioni erano sempre irregolari e a un anno di abbondanza potevano seguire sette anni di carestia. In un paesaggio simile, muoversi voleva dire sopravvivere, mentre rimanere nello stesso posto voleva dire suicidarsi. Il «paese natale» di un uomo era definito «il posto in cui non devo chiedere». Però, sentirsi «a casa» in quel paese dipendeva dalla possibilità di lasciarlo. Ognuno sperava di avere almeno quattro «vie d’uscita» da seguire in tempo di crisi.”
Abbiamo raggiunto Mainz che era notte da un po’, le strade deserte come gran parte delle città nel Nord Europa in settimana dopo le otto di sera, le case tinteggiate di rosa e panna con intelaiatura a traliccio immobili con pochi occhi accesi nel buio.
Siamo andati per prima cosa in albergo dove Fabio aveva prenotato due stanze. Mi è bastato guardarlo in altezza e larghezza per sentirmi stretta, ristretta, costretta. Fino ad allora, l’ultima volta che mi ero infilata in un posto del genere risaliva a tre anni fa, a Nantes. Ciò che proprio non sopporto degli alberghi è l’idea di viaggio come di merce di consumo – una tra le tante in vetrina – sottesa a quella corporatura da incolonnamento di capsule stagne tutte identiche per un turismo di massa, reiterato senza la minima variazione in ogni parte del mondo. Sono uscita subito dopo aver posato i bagagli.
Agognavo la Germania da tanto tempo. Un giorno – ero ancora al liceo – una delle poche personalità di grande importanza nel mio percorso formativo raccontò alla classe di un viaggio a Berlino e de Il Secolo Breve di Hobsbawm. Ci disse, Berlino è una città ferita e questo è palpabile ancora oggi, dopo la guerra, dopo il muro, dopo tutta la storia tedesca, non c’è un solo angolo della città che conceda di ignorarlo. Sono certa che la mia attrazione per la Germania sia dipesa da questa osservazione.
Poi, due anni fa, di passaggio per andare a Rijswijk, scesi per la prima volta a Weeze, l’aereoporto di Düsseldorf. Lì, non appena fuori dall’aereo – lungo il percorso che, segnalato da strisce bianche e transenne di metallo, porta in colonna dalla pista d’atterraggio alla sala degli arrivi, nel buio freddo illuminato a crudo dai neon degli interni e dalle luci degli aereoplani – avvertii davvero il presentimento di qualcosa da approfondire al più presto, l’impatto immediato di un’onda frequenza emotiva molto, ma molto bassa contro il petto, qualcosa che mi fece stringere nelle braccia.
Credo di non aver mai più potuto prescindere dall’immagine della ferita di Berlino, neanche quest’ultima volta.
In due giorni in Germania, ho leccato piombo sotto la lingua.
Mi sono mossa tra Francoforte e Mainz senza studiare gli itinerari per lasciar lavorare le impressioni. Ho prestato molto ascolto con orecchio mite. Al respiro sommesso che si annida nei casermoni di periferia con i filari di finestrelle frantumate. Alle stazioni sconfinate con le decine di binari interrotti e vagoni inutilizzati. All’allineamento massiccio dei tralicci dell’alta tensione che intelaiano sul cielo centinaia di cavi di ferro carichi di uccelli neri, tutto immerso in un grigiore fumoso, impiastricciato da aloni di lampioni alogeni. Alla vicinanza fragorosa tra i palazzi nuovi, gli edifici storici e le strutture ricostruite, dove mi è parso di poter toccare ancora gli sconfinati spazi vuoti e le macerie lasciate dalla seconda guerra mondiale.
Ho dato fiducia all’udito più che a ogni altro senso perché in Germania il silenzio fa impressione. È materico, ha profondità spaziale, si prende tutto quello che c’è intorno, diventa tutto quello che c’è intorno, spazi urbani, sale da cafè, carrozze del treno, volto occhi grandi di una donna di mezza età che sorride con discrezione. Avrei voluto avere con me un registratore, prima ancora che una macchina fotografica. Sarebbe stato uno strumento più discreto, più adeguato per raccontare quello che ho visto.
In Germania, c’è qualcosa che chiede, impone di essere compreso, con un’intensità che non ritrovo in nessun altro luogo dove sono stata fin’ora. A primo impatto, le sue sono maniere da penetrazione che non comportano la grazia della compenetrazione. Mi sono sentita presa da un disagio bastardo e un’inquietudine febbrile – mi sono mossa con le spalle contro i muri – e da multipli processi di congestione – mi sono messa sulle spalle il cappotto.
A posteriori, sono ritornata più e più volte in Germania con la memoria, cercando di scandagliare e razionalizzare le percezioni sfuggenti, ma animose che mi si sono stipate dentro. Ho vagliato gli appunti fitti, ho richiamato l’aria tedesca nelle orecchie e nei polmoni. Ne ho discusso più e più volte con persone diverse. Ci ho camminato su. Le idee migliori mi arrivano chiacchierandone – e muovendomi.
Può darsi che due soli giorni non siano sufficienti per parlare con coscienza di un luogo. Questa idea mi sta ossessionando, a maggior ragione perché in Germania, per la prima volta mi sono sorpresa a domandarmi quali fossero i rapporti di forza in atto nel mio sguardo: per certo ho risentito del condizionamento culturale dovuto a ciò che la storia mi ha raccontato della Germania, ma ho anche avvertito subito la sensazione di un luogo con un’identità storica e culturale così circostante e così densa da sbattermela in petto nel giro di pochi secondi, senza preamboli e edulcoranti, che è l’atteggiamento di ciò che ha consapevolezza di sé e del proprio valore.
Ci sono persone pronte ad acclamare alle vergogne tedesche – dimenticando per altro cose di alto pregio a caso come l’arte e la filosofia che in buona parte sono germogliate in quelle terre –. Per quel che mi riguarda, da tempo sono matura abbastanza per non indulgere in coppie di concetti ossimorici come “buono” e “cattivo” o “bello” e “brutto” che aspirano tutto il senso più profondo di una problematica.
L’identità storica e culturale tedesca è un fatto e ho l’impressione – se soltanto di impressione per ora posso parlare – che lo sia nel “buono” e nel “cattivo”, nel “bello” e nel “brutto”, soprattutto nell’interstizio tra i due, dentro la ferita lasciata dagli ultimi decenni. La Germania che io ho visto è quella che, nel “buono” e nel “cattivo”, nel “bello” e nel “brutto”, sta tutta quanta raccolta, stretta come un pugno. Quella che, nel “buono” e nel “cattivo”, nel “bello” e nel “brutto”, emana solennità e austerità, mestizia e dignità senza precedenti. Soprattutto pudicizia.
(Oltre che quella della birra a litro, delle uova strapazzate e del formaggio – a colazione –, della kartoffeln, della flummkuchen, del bretzel, della soup di pomodoro,
e dei viaggiatori irlandesi dagli occhi azzurri come il mare e i denti storti come le sue onde)
Necrologio allegro sul treno Milano-Bari
gennaio 23, 2012
Mood: sfiancato
Listening to: Imaginaerium, il nuovo cd dei Nightwish che a riascoltare le loro sinfonie mi sembra di tornare diciottenne
Reading: Necrologio allegro sul treno Milano-Bari a polmoni pieni per amore
Watching: il suo volto il suo corpo
Playing: a recitare la mia parte
Eating: stuzzichini pugliesi e spaghetti di mais aglio olio peperoncino
Drinking: caffè
Qualsiasi altra immagine è bianco nero ancora troppo mio.
Oggi, quando mancavano tre ore all’ultimo treno Milano-Bari, mia nonna è morta.
Oggi, ha squillato il telefono e mia nonna era morta aveva già respirato l’ultimo respiro e si è fatto silenzio come quando si fa silenzio perché a tutti sbatte fortissimo il cuore e io ho pensato che anche mia nonna era scaduta come l’amore la marmellata la tachipirina solo che mia nonna scaduta è come l’amore la marmellata la tachipirina scaduti tutti assieme e io le gambe si sono messe a tremare fortissimo i pensieri a pensare e le mani a raccattare due magliette e un pantalone da buttare nello zaino e già ero sull’ultimo treno Milano-Bari.
Io mi tremano ancora fortissimo le gambe.
Io i miei pensieri soltanto io li penso.
Io le mani mi sanguinano e i pensieri pure, tengo vive le immagini.
Tipo quando io a settembre scorso mia nonna sono andata a salutarla e lei era in ospedale dove tutto è triste e puzza di cloroformio e non ci si diverte neanche un po’ e aveva nella pancia un dirigibile per la cirrosi non le riusciva più di portare la dentiera smozzicava le parole tra le labbra aggrinzite gli occhi le si riversavano all’improvviso immensi sulla faccia tanto deformata perché continuava a trascinarsi dietro un male dietro l’altro e poi un altro ancora e quando mi ha vista ha riso tutta con gli occhi e mi ha abbracciata mi ha chiamata ‹‹Dorotea!›› mi chiesto di me dei miei progetti del mio futuro mi ha detto ‹‹Fammi due fotografie!›› e io lo stupore e l’emozione mi hanno scossa sfondato il cuore e le ho chiesto ‹‹Davvero?›› e lei mi ha detto ‹‹Sì›› e allora io l’ho raccontata una settimana centinaia di fotografie tutto il tempo a disposizione e per poterlo fare io m’è toccato accettare di essere promiscua con la sua sofferenza quella di una vita non solo di un male che uccide e piangerne ogni giorno per tutto il giorno e poi una sera mia nonna mi ha attirata a sé e mi ha detto roca ‹‹Io sono stata tanto felice.›› e io mi è sembrato assurdo, siamo in ospedale dove tutto è triste e puzza di cloroformio e non ci si diverte neanche un po’ e tu hai nella pancia un dirigibile per la cirrosi non ti riesce più di portare la dentiera smozzichi le parole tra le labbra aggrinzite gli occhi ti si riversano all’improvviso immensi sulla faccia tanto deformata perché continui a trascinarti dietro un male dietro l’altro e poi un altro ancora hai passato la vita a coltivare l’ostiporosi nella terra e non hai conosciuto il mondo hai smesso di uscire anche solo per una passeggiata da troppi anni quando avresti voluto conoscere il mondo e sei stata tanto felice che significa? che ‹‹Nella vita bisogna anche saper soffrire, Dorotea.›› tipo quando a settembre ha detto a mia madre con serena lucidità da paura ‹‹Figlia mia, tu devi pensare alla vita tua, vai in Olanda, hai una famiglia, la tua famiglia è lì. Io ormai sono cotta. Starò bene.›› e ci ha fatte piangere in due e mia madre l’ha convinta a partire ma per morire ha aspettato di vederla tornare poterla abbracciare ancora perciò ieri sera dopo averla abbracciata all’improvviso si è lasciata andare, ha sofferto molto mi dicono perché aveva arpionato la vita l’aveva tenuta stretta stretta l’aveva domata coi suoi desideri io allora mi viene da arrabbiarmi avrebbe potuto aspettare anche me che volevo salutarla e ricevere in cambio una risposta una settimana in più sarebbe bastata dopo che non ci vedevamo negli occhi da settembre ma io mi è toccato essere egoista e lei mi ha spinta in un viaggio lungo e pieno di compromessi senza poterli volerli pensare che io il mio sospetto è che lei l’abbia fatto per ricordarmi di buttarmi in un viaggio lungo e pieno di compromessi senza poterli volerli pensare per aver cura della mia vita saper soffrire ed essere tanto felice la prossima volta e ho sorriso perché poi io mi è tornata in mente mia nonna quando incapace di camminare troppo a lungo si inerpicava su un albero per ramazzarlo all’alba del mio diciottesimo alla fine dei festeggiamenti, quando ballava una canzone da sottocassa in coppia con me che le dicevo ‹‹Nonna, ti infilo nel latex e ti porto a ballare a fare shopping a Milano!›› e lei rideva tutta con gli occhi e mi diceva ‹‹Magari!›› e tantissime altre cose perché io la strapazzavo e lei rideva tutta con gli occhi e le dicevo ‹‹Ti voglio bene.›› e lei mi diceva ‹‹Grazie!›› e io le dicevo ‹‹Ma nonna, io ti dico che ti voglio bene e tu mi dici che grazie?!›› e poi negli ultimi mesi al telefono mi diceva ‹‹Ti voglio bene, Dorotea.›› e io mi tremano ancora fortissimo le gambe io i miei pensieri soltanto io li penso io le mani mi sanguinano e i pensieri pure, tengo vive le immagini.
Io domani sono i funerali di mia nonna e ci saranno io da Milano mia madre ieri dall’Olanda mio padre mia sorella domattina dall’Olanda i miei zii le mie zie i miei cugini il prete e tante persone che devono andare alla chiesa dove c’è mia nonna che oggi è morta fare le condoglianze ricevere le condoglianze camminare piano dietro la macchina con mia nonna che oggi è morta fino al cimitero per certo ciascuno masticando un rimpianto autografato e c’è qualcosa che suona come il gelo come se mia nonna che è morta non ci fosse più e non mi piace non è così che deve andare perciò nel bel mezzo io credo balzerò sui banchi con una stronzata la farò grossa enorme gigantissima tipo come quando mia nonna la strapazzavo e lei rideva tutta con gli occhi perché lei rideva tutta con gli occhi e io sono convinta che mia nonna meriti un necrologio allegro e non banale tipo come quando una persona scade che è come l’amore la marmellata la tachipirina scaduti tutti assieme e tutti piangono e sono tristi e nessuno sospetta di poter essere felice allora io mi scappa da sorridere mentre tengo vive le immagini sull’ultimo treno Milano-Bari e non trattengo un applauso forte da crepare il gelo alla vita di mia nonna che oggi è morta perché forse ogni vita merita un applauso, falli ballare, nonna (anche se io quando guardo il paesaggio e le lucine correre nel finestrino dell’ultimo treno Milano-Bari un po’ da piangere mi viene).
(Milano-Bari, treno, 22 gennaio 2012, notte)
Holland, Pass Through // Venti scatti più uno
gennaio 13, 2012
Mood: stravolto e galleggiante
Listening to: Ken Ikeda – Pictures
Reading: Aldo Nove, La vita oscena [si consiglia vivamente, sono brividi secchi]
Watching: me medesima che sembro un personaggio di Tim Burton
Playing: a spaccare il ghiaccio nel freezer
Eating: risotto col radicchio
Drinking: caffè
[Rijswijk. Delft. Kijkduin. Den Haag. Utrecht. Amsterdam.]
Manca una cosa soltanto.
[Sorella. Padre. Madre.]
E questo è quanto.
Giorni. In numero, venti.
Esisto // Notturno
dicembre 30, 2011
Mood: amorfo
Listening to: The xx – Basic Space
Playing: a fare i palloncini con metà bigbabol
Watching: a breve, una probabile nuova casa olandese
Eating: panino con philadelphia
Drinking: acqua
Rijswijk
Esisto.
Capirai se non ho più intenzione di darne spiegazioni.
Un giorno sostituirò la carne col vetro per poter guardare attraverso, nello spazio vivente tra le ossa. E non appenderò le tende.
La puttana sacra
dicembre 10, 2011
Mood: sereno
Reading: Bruce Chatwin, Che ci faccio qui?
Listening to: Robyn – Dancing On My Own
Watching: il cielo su Milano
Eating: risotto radicchio e panna, devo ancora digerirlo
Drinking: caffè
Ho il presentimento che passerà ancora molto tempo prima che il mio impulso migratorio possa dirsi concluso o, se non altro, meno pressante. Scrive Bruce Chatwin, il viaggiatore per eccellenza – grazie a Mariano per avermene parlato – che ‹‹tutti i grandi maestri hanno predicato che in origine l’Uomo “peregrinava per il deserto arido e infuocato di questo mondo” […] e che per riscoprire la sua umanità egli deve liberarsi dei legami e mettersi in cammino.›› Così io che ho ancora molti garbugli tra le sinapsi, non riesco ad accettare la sedentarietà senza essere inquieta e irrequieta, senza domandarmi Cosa ci faccio qui?, dal momento che il viaggio è la strategia con cui vivo e do (nuova) forma la confusione della mia mente. Perché, come scrive Kerouac, ‹‹A me piacciono troppe cose e io mi ritrovo sempre confuso e impegolato a correre da una stella cadente all’altra finché non precipito. Questa è la notte e quel che ti combina. Non avevo niente da offrire a nessuno eccetto la mia stessa confusione.››
Così, approfittando del ponte milanese Sant’Ambrogio-Otto dicembre, ho calciato con forza tutto il lavoro in un angolo e sono volata a Roma.
Negli ultimi mesi sono stata nella capitale più di una volta, in primo luogo per godere del calore di un’amicizia che mi accompagna dalla pre-adolescenza, malgrado la distanza. Va da sé quanto questo possa essere sufficiente alle volte.
Ma, derivando di viale in vicolo senza parole di troppo, Roma mi ha anche attratta per il suo essere.
Me ne stavo un giorno ai piedi del Pantheon e iniziava appena a farsi sera. Ammucchiavo nella cassa toracica i fusti possenti delle colonne e le gambe veloci dei passanti, l’epigrafe M.Agrippa L.F.Cos. Tertium.Fecit e le melodie di una chiatarra elettrica e di uno xilofono incrociate al brusio insistente degli avventori ai tavolini dei locali, i fori del timpano per i bronzi che non ci sono più e l’isteria delle macchine fotografiche, dei tablet e dei cellulari per fotografare anche il sampietrino più nascosto. Accatastavo tutto in soluzione di continuità, con una ritualità misterica e profana che mi infastidiva e mi rasserenava allo stesso tempo.
In un istante di estasi, ho afferrato la consapevolezza che Roma mi affascina proprio perché si ammanta del contrasto e della simbiosi tra la pietra viva dei secoli e l’ansia metropolitana di un giorno qualunque. Perché indossa una veste da puttana sacra.
Di età in età, Roma è impazzita di vita, ha bruciato senza tregua o negazione ed è esplosa come una fontana d’artificio. Le sue memorie hanno superato il tempo e affiorano tra le crepe dell’asfalto, monche e meravigliose da togliere il respiro, traspirano l’emozione, l’ambizione e l’illusione romantica e tipicamente umana dell’eternità. Eppure oggi, queste stesse memorie affogano in mezzo alla disattenzione e all’incuria urbanistica e turistica. Aggirando di pochissimo i luoghi comuni, Roma non dissimula la stanchezza e la corruzione che i secoli le hanno inflitto e languisce a gambe aperte, mostrando il sorriso sdentato e nostalgico di chi si imbelletta al mattino con la gloria del passato ed esce in strada reggendosi ad una stampella, senza più un sentimento soltanto di rivalsa.
È intimamente umana, Roma, il suo tracciato cardiaco assomiglia a quello dei miei pensieri. A volte, quando le inchiodo gli occhi addosso, mi sembra di essere allo specchio. Per questo mi attrae. Mi attrae a sé per le viscere e mi sbatte, centrifugando i pensieri e sparpagliandoli nel vento tanto rapidamente da lasciarmi su un marciapiedi, sfiancata per la lotta e svuotata all’improvviso come se avessi sudato veleno. Allora l’aria frizzante di pino torna a farsi spazio tra le carcasse dei muscoli e delle ossa ed è l’idillio della catarsi.
Per adesso, tre foto e basta. Concessioni tempistiche premettendo, ci sono buone probabilità che mi metta a lavorare più organicamente sul corpus di scatti romani che ho messo in saccoccia negli ultimi mesi. Perciò tengo tutto al caldo per un po’ ancora.
Emigrare, la prima regola del Fight Club
novembre 12, 2011
Mood: teso
Listening to: Crystal Castles – Crimewave
Watching: Pina, di Wim Wenders (per la prima volta in vita mia, dico da vedere in 3d)
Playing: a scaricare la tensione accumulata
Eating: patate bollite e taralli ridotti a farina dal viaggio Bari-Milano
Drinking: acqua
Quando ci racconta di come ruota la vita che (si spera) ci aspetta là fuori, una mia professoressa di regia snocciola le “Regole del Fight Club” che non sono propriamente quelle di Chuck Palahniuk, ma un riadattamento delle suddette al nostro habitat professionale. Forse è inutile specificare che non c’è una sola che non ti metta in bocca un sorriso cinico o amaro, ma a me la dicitura “Regole del Fight Club” piace proprio tanto perché ha intrinseco il valore della lotta e della resistenza sul ring dove l’idea stessa del futuro picchia più di una grandinata non preannunciata. Noi uomini siamo stati abituati male con tutti gli omogenizzati e le pappine pronte che ci hanno propinato da cuccioli. Le bestie invece imparano presto che la ciccia si conquista con le unghie e con i denti, pena la vita.
E quindi ieri in mezzo, in mezzo ai tornanti di un discorso, questa mia professoressa si è girata di scatto verso di me e mi ha concesso il privilegio di una bastonata ‹‹Tu vuoi fare il direttore della fotografia? Emigra.››
Ma cazzo, mi è venuto da obiettare, io voglio fare la direttrice della fotografia, non il direttore, possibile che non mi si riconosca mai il genere femminile?
Esperti del settore sono tutt’ora al lavoro per capire se lei pensasse di sconvolgermi con una rivelazione simile. Io sono una bestia.
Emigrare
È la prima regola del Fight Club. Nel fu Bel Paese le uova marciscono. Se si vuole che si schiudano e che i pennuti crescano e vivano, bisogna svolazzare verso lande più favorevoli.
Del resto, per quanto mi riguarda, non ho mai pensato di restare a vivere nel nido da cui sono sgusciata e mi è venuto spontaneo forzarne da subito i confini per elasticizzarli. Quando le traiettorie migratorie hanno iniziato ad essere le uniche immagini di me che riuscissi a proiettare tanto in là nel futuro, emigrare e vivere “oggi qui, domani lì, dopodomani ancora chissà”, fiutando soltanto l’umanità, era un sogno e l’aspettativa più elevata che potessi coltivare. Non ci ha messo molto a diventare la dinamica essenziale di tutta la mia vita, e-migrare, andare da un luogo ad un altro, ma anche da un’emozione ad un’altra, da uno status quo ad un’altro.
In certi momenti, ho pensato che sarebbe stato massimamente bello nascere su un aereo in volo, originaria di nessun posto in particolare e di tutti insieme. Ebbene, chi l’avrebbe mai detto, guarda il caso birichino!, tra qualche ora sarò concretamente e non solo emotivamente una persona inuncertoqualsenso di nessun posto in particolare. Anche la mia famiglia emigra ufficialmente, mamma e sorella raggiungono papà in Olanda. E qualcosa in me cambia.
Mi sarebbe piaciuto nascere su un aereo, ma sono nata a Sud, in provincia di Bari. Ho bruciato lì i primi diciott’anni della mia vita e, crescendo, ho sfumato la mia patologia e la mia essenza da e-migrante con l’amore e la sofferenza per il nido in cui sono nata. Un tempo sapevo che, per quanto potessi prendere, andare, partire, vivere altrove, di tanto in tanto e ad un certo punto non ben precisato avrei affrontato un viaggio di ritorno al mio vecchio Sud, inteso come luogo degli affetti, ma anche come puro confine geografico. Perché, al di là di qualsiasi poltiglia patetica, lì ci vivevano mamma, papà e sorella e anche il più volatile degli esseri umani, tra un viaggio e un altro torna indietro per baciare la propria famiglia natale.
Tra qualche ora però anche la mia famiglia emigra ufficialmente, si svuotano gli armadi, si stacca l’elettricità, si chiudono le imposte alle finestre della nostra casa e si fa silenzio o quasi perché la vita che ha percorso un luogo difficilmente si stacca dalle sue pareti. E allora faccio il conto delle ore che restano, dodici per approssimazione, e non so bene come districare il groviglio emotivo e celebrale che mi sta dentro, mi stringo nelle spalle perché è come se mi mancasse la terra sotto i piedi. E tra l’esaltazione e l’insicurezza, mi riesce persino di incazzarmi, non avevo previsto che il caso mi fottesse e svoltasse senza ritegno nella direzione delle mie vedute da vita sperimentale, enfatizzandole fino a privarle di quel po’ di nostalgia classicheggiante da ritorno che serbavo nel profondo. Ma soprattutto non avevo previsto che potesse svoltare investendo il mio sogno e l’aspettativa più elevata che potessi coltivare con la forza inderogabile di un’imposizione impartita addirittura a tutta la mia famiglia, ché, non fosse stato per la visita da parte di Madame Disoccupazione e Monsieur Come Cazzo Sbarchiamo il Lunario, mamma e papà sarebbero rimasti volentieri nel nido, e sorella avrebbe a buon diritto preferito rotte più libere ed indipendenti.
Ma bando ai piagnistei e benvenuti al Fight Club, miei amati Signori. Qui si combatte e, come vuole la settimana regola del Fight Club di Chuck Palahniuk, “i combattimenti durano per tutto il tempo necessario.”
Paradossi Cardio(a)ritmici
ottobre 7, 2011
Mood: stranamente ansiogeno
Reading: Salvador Dalì, La mia vita segreta
Listening to: la ventola del computer che si incazza e minaccia di andare in orbita
Watching: disordini
Eating: chissà quando se non mi sbrigo a cucinare qualcosa
Drinking: effettivamente necessiterei litri liquidi alcolici
Dopo più di due anni di totale assenza dalle scene sanitarie per la noia di sentir prima ricondotto ogni mio malessere fisico alla somatizzazione e per il cipiglio di sentirlo poi elevato senza ragioni sufficienti a grave male degenerativo, dopo più di due anni di totale assenza dalle scene sanitarie, dicevo, mi sono persuasa per forze di causa maggiore ad andare a far visita al mio medico curante che, effettivamente sorpreso, mi ha chiesto se non mi avesse per caso costretta mia madre. E, dopo i convenevoli di rito, ‹‹Come stai?››, ‹‹Alla grande!››, non iniziamo subito con la storia della somatizzazione, ‹‹Dove vivi?››, ‹‹A Milano.››, ‹‹In che zona?››, ‹‹Sui Navigli.››, ‹‹Mia figlia anche sta a Milano…››, eccetera eccetera, andiamo al dunque che c’ho da fare, gli ho raccontato che da quando un giorno di qualche mese fa sono caduta al suolo come una pera marcia dal suo pero in mezzo ad un gregge umano nel cesso pubblico di un multisala, continua costantemente a girarmi tutto intorno alla testa, poi improvvisamente e frequentemente la testa suddetta mi si svuota e mi affloscio, ma cosa assai peggio ed imbarazzante – che tanto di tenermi su mi riesce per il momento – mi sciolgo in un bagno di sudore, sospetto di soffrire di violenti cali di pressione, gli ho raccontato anche, subito, subito, che, non stia a chiedermelo, tutto questo mi succede per lo più in spazi chiusi o molto affollati, sono affetta da claustrofobia io e contemporaneamente dalla smania di tenerla sotto controllo, e frequentemente quando provo dolore e disgusto, ciò è strano, ché io ho una soglia di sopportazione del dolore molto, ma molto elevata, e che, neanche s’immagini di domandarmelo, ho una vita dai ritmi stressanti, dormo poco e male, lavoro tanto e vanto una tragedia shakespeariana per vita sentimentale, disastrata e priva di certezze, ora più che mai confusa, sicché neanche provi a tirarmi fuori la storia della somatizzazione, so da me, voglio solo controllarmi con degli esame del sangue, una cernita di valori, nero su bianco, me li prescriva, che tra le varie sono anche vegetariana e nell’ultimo periodo non mi sono alimentata da brava vegetariana, nonostante possa vantare un ciclo mestruale stabile, e non si sa mai.
Al che il mio medico curante mi ha puntato al cuore lo stetoscopio che è un aggeggio che mi affascina decisamente e massimamente, al punto che, dovessi possederne uno, rischierei la dipendenza da auscultazione delle mie viscere. ‹‹Sei agitata?›› mi ha domandato il mio medico curante, ‹‹No! Sto un pascià!››. Allora mi ha punzonato il dito con un altro aggeggio elettronico che schizzava bmp a caratteri squadrati gialli e non me lo ha tolto fino alla fine della visita, ‹‹Lo vedi?, questa è la tua frequenza cardiaca regolare››, 102,103,108, e mi ha notificato che normalmente il cuore di un adulto ha frequenza regolare di 80 battiti per minuto, da che ho dedotto che io non rientro nella famiglia “Normalmente”, dovremmo vedere, fare, controllare questa dinamica, in verità sono anni che ci provo, gli ho detto, ma nessuno sa dirmi niente ed io resto col cuore in gola vita natural durante.
‹‹Questo fatto che il tuo cuore è sempre in corsa con se stesso…›› ha esordito ad un certo punto il mio medico curante per dirmi che questo fatto è un problema da non sottovalutare nella diagnostica della problematica e per lanciarsi infine in una lunga spiega che accompagnava con una mano misurandomi la pressione, ‹‹Regolare››, con l’altra mimando il mio cuore come fosse una pompetta, ‹‹Lo vedi? Il cuore fa così››, solo che il mio, pulsando tanto rapidamente, ‹‹non ha il tempo sufficiente per pompare bene il sangue in tutto il tuo corpo e nemmeno per riempirsi a sufficienza di ossigeno››, sicché a me viene da mancare, negli atleti, dovrei saperlo, sono un battito cardiaco ed una respirazione regolari il passpartout per le migliori prestazioni!, e poi non dobbiamo svalutare le crisi di panico, che sarò anche brava a controllare, ma mica sempre!, ed il dolore che ‹‹mia cara, stende anche i più forti.››, ché c’è un comportamento fisico, m’ha spiegato, o qualcosa di simile, per cui il cuore rallenta all’improvviso il suo ritmo usuale, sicché il mio, che d’uso batte accelerato, non riconosce quella nuova aritmia ed a me ugualmente viene da mancare.
Ad ascoltare il mio medico curante, a me è venuto da sorridere, quasi da ridere, ché appena recepite queste parole, direi fin dalle prime ineluttabili, ‹‹Il tuo cuore è sempre in corsa con se stesso››, il mio cervello s’è messo in opera per definire e ridefinire strutture e sovrastrutture, sensi e sovrasensi scientifici ed emotivi, a me lo racconti che il mio cuore è sempre in corsa con se stesso?, a me proprio che sono condannata a sentirmelo ogni giorno nelle vene, ed esserne animata, incalzata, bruciata!
Mi riempio gli occhi di strade e stazioni, di esseri umani comuni, ma sopra le righe e di storie e racconti di gioie e dolori che sono tanto i miei, quanto i loro e di corolle di amori, do nuovi nomi alle cose ed al centro di questa ritmica incalzante mi si dispiega nello stomaco il sentimento stesso della vita, la sua complessità e la sua bellezza, come posso spiegarlo diversamente con le parole?, lo spazio sconfinato ed estremamente essenziale che interconnette me a quello che è fisicamente fuori da me, ma emotivamente già dentro di me. Il mondo mi colma e mi nutre ad ogni palpito ed io, che pulso tanto veloce, raccolgo più ossigeno nei polmoni, non meno, diffondo più sangue in vena, non meno!
Eppure.
Talvolta, tra una strada ed una stazione, mi coglie impreparata il ritmo del mio passo solitario, comincio ad andare oltre più adagio, meno spasmodicamente, mi appesantisco. Negli anni, ho sviluppato concezioni di vita che travalicano il senso comune, imbevute di platonismo, amore e casa prima di ogni altri sono diventati per me eteree ed incorruttibili parentesi di condivisione nel corso del viaggio. Eppure a dispetto di tutto ciò che di ascetico e di fuori le righe penso e faccio, “una qualunque” ci sono nata e ci sono rimasta anch’io, mi è toccato crescere prima di riuscire a raccontarmelo in serenità. È questa la mia umana contraddizione in cui si annida, guarda caso, il desiderio di un passo che si confonda col mio, un comunissimo desiderio di stabilità nel mio caso emotiva, più che propriamente geografica. ‹‹Beata te›› mi dicono quando racconto delle mie pratiche di nomadismo ‹‹Per tutto l’amore che non ho, anche per questo›› ho confessato l’ultima volta ad un’amica fidata, ché ora, per dirla pane al pane, vino al vino, sempre a dispetto di tutto il mio sistema filosofico plurinominato e non rinnegato sul movimento come condizione necessaria al sentire la vita per intero e complessa e sul sentire la vita per intero e complessa come condizione necessaria al nutrimento dell’anima, nei miei vagabondaggi convivono anche tutte le folgoranti possibilità del non essere legata a niente e nessuno in particolare come “una qualunque” e la speranza timida di un giorno diverso da questi in cui stringere tra le mani i miei sogni lontani da “una qualunque”, quelli su un buon motivo per cui smettere di andare oltre spasmodicamente in primis. Non che io non ne abbia mai riscontrato nessuno, anzi, in tutta onestà, ce n’è in particolare uno che mi assilla, ma, non nascondiamocelo, mai un “Baby, please don’t go” come quello che gorgheggia nelle radio a mezzanotte, che imbarazzo io che sogno ed aspetto una professione sentimentale così tanto banale, ma ebbene sì, talvolta l’aspetto. Voglio dire, i buoni motivi per cui smettere di andare oltre spasmodicamente, finanche quello in particolare che mi assilla, mi si sono affacciati al cuore eccome, ma sono stati miseramente sviliti e snaturati dalla consapevolezza di restare ancora una volta miei soltanto e di nessun’altro, iperglicemica monnezza non condivisa. Questo certe volte, ché certe volte altre invece andare oltre spasmodicamente si è rivelato per me più facile, meno compromettente e più opportuno che restare e soffrire ancora, intendo quando i buoni motivi per cui smettere di andare oltre spasmodicamente hanno iniziato a svilupparsi e sviluppandosi mi hanno fatto paura.
In buona sostanza, quando talvolta tra una strada ed una stazione, mi coglie impreparata la crisi da “una qualunque” ci sono nata e ci sono rimasta anch’io, mi sembra che la mia vita intera annaspi in un corollario di strade e stazioni ed esseri umani e storie e racconti e gioie e dolori ed amori interrotti o esauriti nel ciclo di un attimo, di cui non restano che le briciole come eroiche vestigia al limitare della strada di cui non m’è dato sapere se sarebbero diventati castelli semplicemente perché sono andata oltre spasmodicamente. Allora il mondo mi scivola via dagli occhi ad ogni palpito, strano, fino a poco prima erano colmi, o almeno così mi pareva, adesso invece mi sembrano disabitati, ed io che pulso tanto velocemente, raccolgo meno ossigeno nei polmoni, non di più, diffondo meno sangue in vena, non di più!
Per farla breve, paradosso cardio(a)ritmico migliore non avrei potuto fantasticarlo. A volte mi ritrovo a pensare che prima o poi dovrò smettere di essere in corsa con me stessa e di professare la vitalità e l’equilibrio della squilibratezza per allenarmi invece ad una qualche forma di regolarità più comunemente intesa. Ne gioverebbe anche la salute, pare. Ma che pretendo?, non sono nata per far l’atleta io! Pur volendo, non me ne sono stati forniti i connotati neanche biologicamente!
Intrografie
ottobre 6, 2011
Mood: vago
Reading: Yuri Herrera, La ballata del re di denari
Listening & Watching: Florence + The Machine – Shake It Out
Eating: Ringo Black
Drinking: acqua
Di Intrografie avevo già scritto. Del viaggio geografico ed emotivo che è alle sue fondamenta e delle mie dinamiche di interiorizzazione ed estetizzazione del reale esterno ho scritto ancora di più su questo spazio, nel corso di tutto un anno. Fondamentalmente Intrografie è il primo archivio parziale di storie, un libricino nero che ho rigorosamente voluto tascabile. Perché potesse stare dentro una giacca vicino al cuore come ci stavano i Canti di Catullo del mio professore di Letteratura Latina a Siena. Ed anche perché chiunque si ritrovi a guardarlo non lo liquidi in fretta, ma si soffermi ad analizzarlo per ricostruire i frammenti della storia nelle immagini con la stessa attenzione e lo stesso esercizio all’osservazione che richiede la possibilità di riscoprire e carpire i dettagli nel mondo reale per rintracciare i fili rossi dei propri racconti, chè io, ne sono convinta, ogni narrativa ed ogni visione non sono che il frutto del sentimento soggettivo del reale.
Insomma, ecco infine – alias, con le mie solite tempistiche dilatate – Intrografie. Meglio tardi che mai, oh!
Circonvoluzioni

Milano, Italia
Ventidue Febbraio Duemiladieci, ore diciannove e quarantatrè

Nantes, Francia
Quattordici Marzo Duemiladieci, ore diciannove e ventisette

Rijswijk, Olanda
Ventisei Dicembre Duemiladieci, ore quindici e otto

Monopoli, Italia
Tre Aprile Duemilaundici, ore diciotto e quaranta

Den Haag, Olanda
Ventisette Dicembre Duemiladieci, ore diciotto e quarantadue

Monopoli, Italia
Dieci Dicembre Duemiladieci, ore diciotto e uno

Nantes, Francia
Tredici Marzo Duemiladieci, ore undici e trentotto
Inter-mezzo

Venezia, Italia
Sedici Luglio Duemilaundici, ore quindici e cinquantotto

Milano, Italia
Tredici Febbraio Duemilaundici, ore quattordici e due

Castellana-Grotte, Italia
Nove Aprile Duemiladieci, ore sedici e cinquanta

Milano, Italia
Diciassette Marzo Duemilaundici, ore zero e cinquantotto
Derive

Como, Italia
Ventisei Marzo Duemilaundici, ore diciassette e quarantotto

Milano, Italia
Tredici Febbraio Duemilaundici, ore quattordici e due

Venezia, Italia
Sedici Luglio Duemilaundici, ore dodici e trentuno

Monte Grappa, Italia
Ventidue Luglio Duemilaundici, ore diciannove e cinquanta

Monte Grappa, Italia
Ventiquattro Luglio Duemilaundici, ore diciotto e trentatrè

Monopoli, Italia
Ventinove Luglio Duemilaundici, ore sedici e undici

Pietrapertosa, Italia
Ventisette Agosto Duemilaundici, ore sedici e quindici
Conclusioni provvisorie

Venezia, Italia
Sedici Luglio Duemilaundici, ore sedici e cinquantadue

Milano, Italia
Diciotto Febbraio Duemilaundici, ore quattordici e diciassette

Bassano del Grappa, Italia
Ventitrè Luglio Duemilaundici, ore quattordici e trentanove

Fasano, Italia
Quindici Agosto Duemilaundici, ore diciotto e trentotto
Annotazioni Sparse Strada Facendo, Ancora Di Vita
luglio 26, 2011
Mood: rintonito
Reading: Quando si perde l’occasione di tacere, un minuto di silenzio, no, di più, molto di più.
Listening to: Coldplay – Every Teardrop Is A Waterfall
Watching: le pareti troppo spoglie di questa casa
Playing: a cacciare insetti indesiderati ed indesiderabili
Eating: Tuc donatimi da Zulio prima di balzare sull’ennesimo treno, in alternativa acqua salata con la forchetta, ovvero la gioia di tornare a casa a Milano per una giornata appena, sapendo vuota tanto la dispensa, quanto il portafogli
Drinking: acqua naturale
Se di nuovo mi diletto a vagabondare senza mai predefinire con troppo anticipo il momento di uno spostamento, tirandomi dietro una valigia riempita senza criterio un pomeriggio d’inizio mese, all’improvviso e da allora mai svuotata in un armadio qualsiasi, foss’anche quello della mia casa materna, è a causa di una sensazione di disagio ed irrequietezza tanto violenta da diventare nausea fisica, che mi riconduce a star bene in tanti luoghi piuttosto che in uno solo, cogliendo di ognuno le visioni e gli umori, ma andando via prima di anche solo correre il rischio di vederlo sfiorire giorno dopo giorno, fors’anche di vederne schiudersi le gemme. Non solo. Ci sono una manciata di momenti ben localizzati nella mia vita ultima, a partire dai quali ogni risveglio ha iniziato ad agitarsi nell’urgenza spasmodica di vivere e vivere per intero, di circoscrivere in un angolo soffice del cuore tutto quanto fin’ora è stato ed ho amato e tutt’ora amo di più, ma che in un modo o nell’altro, per un motivo o per l’altro mi ha frenato il passo, mentre la vita mi passava sotto il naso più e più volte ed io la lasciavo andare. Circoscrivere in un angolo soffice, che non significa chiudere gli occhi e rinnegare un’importanza o cercare di dimenticare, non è nei miei tentativi, né mai sarebbe impresa possibile, piuttosto ridimensionare sullo sfondo eventi e figure in primissimo piano con cui ancora fatico a fare i conti, quindi portare dentro ed andare avanti, lasciando che il tempo muti lo sguardo ed il sentimento per poter esserci ancora, ma libera da ansie o aspettative folli, ho bisogno di ciò che amo, ma non voglio più aver bisogno di ciò che non posso avere così come lo vorrei, è pura insania. Prendo le distanze da tutto quanto fin’ora è stato ed ho amato e tutt’ora amo di più per curiosità e speranza e fiducia di ciò che ancora deve venire perché c’è sempre qualcosa che è ancora a venire, sempre qualcosa che ancora non s’è fatto e visto e ascoltato e assaggiato e toccato e odorato o semplicemente non a sufficienza, l’uomo che seduto per terra canta per sé soltanto e per la notte accompagnandosi con la chitarra, la malia del bucato appena steso ad asciugare e delle creme da corpo lungo le calli, l’immobilità di una mendicante nel tramestio dei turisti, la malinconia di un vaporetto a festa finita, certa musica in una terrazza sospesa sull’acqua come lingua languida, l’ebbrezza nella pioggia e nel vento forte che scompone la carne, il respiro della montagna, le cartografie luminose a valle quando cala la notte, la grappa al liquore, l’albero solitario negli ultimi accenni del tramonto, le vibrazioni dell’aria all’avvicinarsi della tempesta, la tazza di caffè bollente come un focolare, la coppa di un fiore che si scompone ansimante quando un’ape vi si immerge, la confidenzialità di certe discussioni, il rifugio con il camino acceso, i canti degli alpini che dal fronte vogliono volare dalla loro bella, la curiosità di un bambino nei confronti di una bambina che lo ignora, la crostata di more e mirtilli, il silenzio carico di emozioni prima del lancio di un parapendista e lo schiocco del vento che gonfia la tela, la vacca che allatta il suo vitello e lo protegge da sguardi indiscreti, il ragazzo che da me non vuole nient’altro che potermi aiutare con la valigia più grande di me all’uscita della metro, certe parole nella posta privata di feisbùck, nel dettaglio più insignificante, che sia per caso o per intenzione, ci può essere la comunione di più intimità, l’amore quel pluricitato, in verità l’amore è sempre laddove si è pronti a riconoscerlo. Quanto siamo banali, noi uomini, tutti bisognosi d’amore!, ci spingiamo a cercarlo per miglia e miglia perché ce lo immaginano immenso e brillante come una Via Lattea, l’amore, e non siamo capaci di renderci conto di quanto ci stia vicino, ché lui, l’amore voglio dire, sta nelle cose immensamente piccole di ogni giorno, e mentre così ciechi scalpitiamo e ci dimeniamo come tartarughe obese in un acquario troppo piccolo, ci inaridiamo, un pertugio di cuore oggi alla rabbia, uno domani al rancore, cesellati ed articolati ad arte attorno ad un tavolino mentale esclusivo. Ci inaridiamo per amore, noi uomini, grandissimi imbecilli che non siamo altro, capaci di scappare davanti all’amore! Eppure, ho l’impressione che tutto quello per cui vale la pena viversi questa vita sia proprio l’amore per quello che è perché non c’è viaggio più breve della vita per consumarlo in cantina.
Ammetto che è stato un fiotto di rabbia a lacerarmi senza troppi preavvisi da tutto quanto fin’ora è stato ed ho amato e tutt’ora amo di più, ma nella mia rabbia c’era e rimane tutta la nenia disperata dell’amore vissuto e sognato e negato e semplice e articolato e delicato e violento e fraterno e passionale e via così.
Perciò in questa scarpinata sulla distanza, tocca fare i conti non solo col desiderio di allontanarmi ed allontanare da me per guadagnare terreno sulle possibilità della vita, ma anche col dolore che procura allontanarmi ed allontanare da me. Penso che sarebbe bello al massimo se ad accompagnarmi ci fossero solo la consapevolezza di una necessità propulsiva improrogabile e indiscutibile e la curiosità e la speranza, ma un passaggio così lineare tra i giorni non potrebbe mai essere il mio perché di me fanno parte il conflitto e la complicazione, motivo per cui mi affatico, trascinandomi dietro un nugolo recalcitrante di ossessioni che mi richiamano indietro, gli odori in primis, che sempre io avverto troppo saturi ed allego ad immagini e suoni e sensazioni, gli odori nel tempo, riconosciuti per strada e riscoperti intrappolati tra le pieghe dei vestiti e negli angoli delle case che appena s’inviano su per il naso arrivano dritti al cuore e lo intasano, spezzando il rosario di pietra incandescente che custodisco all’interno e rovesciandone tutti i grani sottopelle, tum tum tumtum tumtumtum, sbam!, il terrore puro e asfissiante, acquattato nei sogni di ogni notte e sempre più ingestibile, che qualcosa o qualcuno faccia male ancora a chi più amo, secondo l’interpretazione dei sogni dovrei lasciar che nel sonno succeda tutto il peggio, finanche la morte, perché questo significherebbe la capacità conquistata di accettare una rinascita reale, evidentemente io ne sono ancora nuda, di contro ogni volta che salgo in una macchina l’immagine costante di un incidente stradale, lontana da tutto e tutti e a mani vuote e senza voce perché non avrò saputo raccontarmi.
Senza voce.
Senza voce…
Rifletto su quanto la mia esuberanza possa essere anche una talentuosa apparenza in cui si inabissa una delicata propensione implosiva. Ho imparato da subito a non temere il silenzio, a camminarci attraverso, senza l’affanno di riempirlo oltremodo ed inutilmente di parole e musica. Nel silenzio sento la vita in espansione ed è una sensazione essenziale e quasi misterica, come se vivessi tante vite in una sola, io esisto, esito e voglio esistere sempre di più perché in me l’esistenza racchiude una potenza febbrile che non coincide con la felicità e la leggerezza che sento spesso mancarmi, ma che le contiene entrambe assieme al dolore, l’esistenza non manca di nulla.
Tuttavia, in questa conchiglia che raccoglie tutte le armonie, spesso il silenzio, incapace di aprirsi una sola bocca verso l’esterno e da quello farsi ascoltare quando dovrei parlare e urlare e cantare, implode in se stesso con un boato sordo e si travalica per divenire vuoto senz’aria. Allora per far stare in piedi la struttura, riempio il sacco come posso, come meglio mi riesce, suonando una partitura sempre più caotica ed intima. Ecco, a volte temo soltanto che, a lungo andare, la mia partitura diventi sempre meno accordabile a quella di qualcun’altro.
Per questo scrivo costantemente, è il mio tentativo di non nascondermi, tanto agli altri, quanto a me stessa perché di tanto in tanto torno a leggere e nello scarto tra chi ero e chi sono scopro un qualche cambiamento che poi è indice di un cammino perpetrato e questo, intendo la scoperta di compiere dei passi, anche se irregolari, in avanti quando invece mi sembrava che tutto fosse immobile, questo mi rende più forte.
Oggi avverto l’avanzata concretamente e quotidianamente nel mutare del corpo e dei pensieri, certamente è una tale rapidità a darmi tutte insieme le vertigini calde e gelide che tanto mi spossano. È una partita all’equilibrio tra i tempi e le emozioni ed i desideri che ho messo in movimento e ormai sono diventati inarrestabili, a meno di non ritrovare la loro adeguata dimensione. Che fare, allora, se non avanzare? Dopotutto il sentimento della vita ha in me lo stesso effetto incalzante che avrebbe un peperoncino infilato su per il deretano!
Dalla Genesi a King Kong
settembre 3, 2010
Mood: distratto
Listening to: il traffico giù in strada
Drinking: caffè
Eating: yogurt alla fragola
Sniffing (in via eccezionale): l’odore del soffritto che si intrufola dalla finestra. Non è possibile che ovunque vada ci sia il vicino dal soffritto aggressivo!
“E Dio creò l’uomo a sua immagine;
a immagine di Dio lo creò:
maschio e femmina li creò.”
[Genesi, 27]
Ore tredicipuntoquarantotto, oggi, casa.
Per la decima volta da che mi sono messa al lavoro, mi alzo dal pc, dove sto disegnando, sempre in Illustrator, una donna in posizione fetale, e vado allo specchio, quello del corridoio, bronzo antico corroso.
Dalla cucina Yanna, all’anagrafe Arianna, amica di cuore fin dalle rispettive condizioni fetali, sgusciata al mondo dieci giorni prima della qui presente autrice, compagna di giochi e pizze nella prima infanzia, in congedo nel corso della seconda infanzia, poi di nuovo compagna d’avventura in adolescenza ed età attualmente neo-adulta, personal reggifrontone ufficiale nel decorso delle sbronze a vomito, mille e mille altre cose che non basta un libro per elencarle perché di vita insieme ne abbiamo ballata davvero tanta, ed ora anche coinquilina nel milanese, capace, lei tra tutti, di uscire dal cesso, esclamando con aria sognante, neanche avesse visto il principe azzurro, che profuma di nuovo e buono, je t’ador!, “non me lo posso perdereeeeee”, dicevo, Yanna mi guarda, sopracciglio alto, mentre mi posiziono di profilo, alzo il braccio destro sopra la testa, ascella in direzione naso tanto da sembrare che me la stia annusando, e piego la testa ora di qui ora di lì.
“Do’, ma che fai?”
Animazione. Devo capire l’inclinazione del corpo per poterlo disegnare.
Una mattina, qualche mese fa, scuola.
Sul grande-pannello bianco, il proiettore rimanda le immagini di alcuni loschi soggetti che fanno smorfie da gorilla davanti agli specchi, saltano da una parte all’altra della stanza come gorilla, urlano come gorilla e s’azzuffano…. come gorilla, sì, arguto chi ha indovinato e no, nessun premio in palio per tanta sottiletta sottigliezza intellettuale, talvolta la vita è amara!
Costoro sono gli animatori di King Kong, nel making of del film, impegnati a dar vita al terribile mostro peloso e ciccione, studiandone i movimenti plausibili ed ogni più piccola variazione nei muscoli, nei dettali del corpo, del volto.
Non nego che a primo impatto, l’alzata di sopracciglia è doverosa, ma, messa da parte la ridarella superficiale per i quattro uomo-scimmia e le riserve in merito allo stesso King Kong, quel che subentra è la fascinazione.
Tutto per dire che
Nella vita non ho molte certezze. Una di queste è che non farò mai l’animatrice per una serie di ovvie ragioni (chi non le conoscesse è rimandato qui) e perché sento che la mia avventura è un’altra, mi porta per il mondo, con al collo un obbiettivo per penetrarlo, direbbe lui, esprimendo tutta la tensione dell’esperienza.
Un’altra convinzione è che se un dio creatore è mai esistito, ogni cosa l’ha forgiata e l’ha dotata d’anima così, come gli animatori di King Kong, come faccio anch’io, seppur in proporzione micro-infinitesimale.
S’è specchiato, questo dio, s’è studiato, un po’ narcisisticamente, un po’ con odio. Ha imparato a conoscere il suo corpo, i suoi muscoli, le sue ossa, come si articolano sotto la pelle e a capirne la bellezza assoluta nell’imperfezione. Che strano marchingegno è il corpo, un’orologeria delicata: “Fragile, fare attenzione”. Sarà perché custodisce l’anima, non deve lasciarla scappare.
Ha anche osservato ogni più impercettibile variazione nel movimento, questo dio, perché nulla è statico, anche quando sembra esserlo. E allora il movimento è conditio sine qua no della vita, quel che non si muove è morto, lo riconosce anche un bambino. “Panta rei”, diceva Eraclito, che se avesse saputo quanto la gente moderna avrebbe abusato di questa idea in tutte le salse, come il prezzemolo, certamente si sarebbe garantito i diritti d’autore per tutta la discendenza. Forse a volte bisogna solo abbandonarsi al flusso e sentirsi andare, serenamente, e mettere in saccoccia quello che capita per le mani, senza affannarsi in cieche ricerche.
Probabilmente, questo dio, ha pastrocchiato con fango e polvere di ossa, non certo ha “smanettato” sul computer, che all’epoca mi sembra non esistesse, ma fango e polvere di ossa o computer, disegno sequenziale o modellazione, stop motion o rotoscope e chi più ne ha più ne metta, quel che resta è il concetto, quest’idea tanto romantica quanto forte.
No. Al momento nessuna anticipazione sul progetto a cui sto lavorando.
E’ ancora in fase embrionale. Lo sto cullando, al caldo.