Processo di esitazione, [notturno]
luglio 2, 2013
Mood: appesentito
Listening to: Zoe Keating – Tetrishead
Eating: al di là di quello che potrei contenere
Drinking: poco
Holland, Rijswijk. 1 luglio 2013
Spazi a utero
Maggio 12, 2013
Mood: sovreccitato
Listening: David Bowie – How Does the Grass Grow
Watching: The Big Wedding di Justin Zackham [per la serie: il gusto del trash]
Eating: se non fossi troppo pigra per alzarmi dal letto adesso
Drinking: birra
Alcuni spazi hanno la forma di un utero.
Spazio [un tipo di] è il contenitore che viene a costituirsi tra due esseri umani quando si mettono a esplorarsi.
Due esseri umani che fanno l’amore sono uno spazio. Anche due esseri umani che si raccontano sono uno spazio.
Holland, Noordwijk aan Zee
Holland, Noordwijk aan Zee with Dominic

Holland, Noordwijk aan Zee with Dominic
Ho conosciuto Dominic a Milano quando pensavo non avesse più nulla da offrirmi, l’ultima sera prima di tras-locare verso l’Olanda. Io avevo un tetto e un lenzuolo, lui – tedesco in viaggio a Milano con le scarpe da trekking – un pacco di te alla fragola e una stecca di cioccolata fondente. Tutt’e due un “forte gusto per la boheme tira a campare” – così la definisce Perec.
Quello sera abbiamo passeggiato senza itinerari. Poi si è fatta notte ed è trascorsa fino all’alba a dirci tante cose l’un l’altro e a spiegarci cosa e come ci sentivamo tra un bicchiere di te e un pezzo di cioccolata, rannicchiati sotto lo stesso lenzuolo su un divano tanto piccolo che i piedi si toccavano. Ci siamo addormentati così, dopo un po’ che avevamo iniziato a biascicare e a chiudere gli occhi.
Ora che ci penso, non ero affatto intimidita, né provavo vergogna. L’intimità per me – a maggior ragione con un estraneo – ha spesso questo risvolto, ma quella sera non ci ho proprio pensato. Era naturale com’era.
Come in utero.
“Stand in on your two knees baby / tell me what do you need”
Maggio 6, 2013
Mood: sereno
Listening to: Hindi Zahra – Stand Up
Watching: Jessica Tremp’s
Eating: assai, troppo… rotolo.
Drinking: tea
Holland, Kijkduin
A-(f)fondo
ottobre 24, 2012
Mood: distratto
Reading: Pastoureau Michel and Simonnet Dominique, Il piccolo libro dei colori
Listening to: Electric Guest – Waves
Watching: Laura Guilda’s collection for MUUSEx VOGUE TALENTS Young Vision Award 2012 [let’s everybody vote, c’mon!]
Eating: senza freno
Drinking: caffè
Da bambina ero ossessionata dal timore di poter smettere di respirare da un momento all’altro per sbadataggine.
Mi tornava in mente, sempre all’improvviso in mezzo a un altro pensiero particolarmente immersivo, che prima di quel particolare momento epifanico io avevo considerato la sequenza inspirare, espirare ovvia, per il solo fatto di essere fisiologica, al punto da averla ignorata, dimenticata. Allora mi prendeva l’angoscia e iniziavo a spingere aria in petto e fuori dal petto, in petto e fuori dal petto, in petto e fuori dal petto,
a-(f)fondo,
fino a tranquillizzarmi.
Oggi credo che a ossessionarmi di più fosse l’idea di non ascoltarmi respirare.
Di non dare al respiro il giusto peso nella vita.
Ho domato tutti questi pensieri col passare degli anni, avendo cura di soffermarmi ogni giorno a esaminare il mio respiro, peso ritmo e densità. Salvo poi sviluppare la claustrofobia che in realtà è un disagio a cui do impropriamente questo nome: io, infatti, non è tanto l’assenza di spazio a stritolarmi, quanto quella di un flusso d’aria nello spazio da sentir passare a fior di pelle, sicché a me anche il contatto eccessivo dei tessuti può causare claustrofobia.
Poi qualche giorno fa, sono ripiombata all’improvviso nell’infanzia delle mie paure acuita dalla coscienza della loro maturità.
Andavo scalpicciando per Gorinchem, lungo la lieve china che, oltre il mulino De Hoop si affaccia sul canale dove stanno ormeggiati i barconi con i vasi verdeggianti sul pontile e i panni chiari stesi al vento da poppa a prua. Salivo, misurando l’angolo di pendenza del suolo e la consistenza della terra sotto la pianta dei piedi. Un passo dopo l’altro. E per ognuno, il fiato si accorciava, io mi appesantivo sempre un po’ di più.
Prima ancora di poggiare l’ultimo in cima, ho avvertito i polmoni gonfiarsi e irrigidirsi, uno scatto a freddo. C’era la luce spigolosa e l’aria aveva le lame, ho avuto paura che mi si spezzassero (tac) e mi sono ripiegata sullo stomaco, infine allora mi sto fermando (tic…
t-a…c)
Invece dal profondo è evaso un rantolo che ha fatto il rumore come di un tappo in sughero sbuffato senza preavviso dal collo di una bottiglia a causa della pressione. Aveva la maniera di un pianto e di un riso violenti con le ragioni da consumare su due piedi nell’intermezzo da capogiro tra un secondo e un altro,
poi basta. Mi ha lasciata lì, sfinita, con la sensazione di dover riprendere fiato e tanta aria.
Ho chiuso gli occhi e, come quando ero bambina, ho iniziato a spingere aria in petto e fuori dal petto, in petto e fuori dal petto, in petto e fuori dal petto,
a-(f)fondo,
fino a tranquillizzarmi.
Sono rimasta ancora a lungo ad ascoltarla con un piacere estremamente infantile mentre entrava e usciva, sbatacchiando tra la pelle e le ossa.
Io però non è vero che l’ho capito solo in quel momento. Sapevo già da tempo di avere i polmoni ostruiti e di far fatica a respirare – cause a parte –.
Mi dicevo, soltanto finché non avrai raccolto le energie per espettorare tutto.
Ecco, adesso posso tornare a trarre forza dall’aria.
[De Hoop si traduce con “La Speranza”]
Autumn leaves
ottobre 22, 2012
Mood: rasserenato
Reading: Ercole Visconti, Parole illuminanti
Listening to: Paolo Nutini – Autumn leaves
Watching: oltre i veli di pioggia
Eating: troppo e a cena
Drinking: caffè
Olanda, Gorinchem, quando è autunno come non l’avevo mai visto e le foglie gialle che piovendo, modellano ai bordi della strada dune alte, ma cartapecorine, sembrano i miei pensieri, un giorno in cui passo tra loro e li sollevo nell’aria.
Lei in fotografia è mia sorella. Se ne andava per strada facendo un gran caos di foglie.
Holland, 8 am
ottobre 19, 2012
Mood: ansiogenato
Reading: Ercole Visconti, Parole illuminanti
Listening to: fringuellii e cinguettii
Watching: il sole, finalmente dopo giorni e giorni di pioggia
Playing: a dis-ansiogenarmi
Eating: involtini di melanzane
Drinking: latte e cioccolato, che domande?!
Holland, Rijswijk, 19 ottobre 2012, 8 am
È evidente che, negli ultimi giorni, sto esercitando le facoltà del silenzio più che quelle della parola. Allo stesso tempo, ho l’impressione di comunicare tante e tante cose.
Ma con buone probabilità si tratta soltanto di una mia impressione [non sarebbe la prima volta].
Finestre
ottobre 18, 2012
Mood: squilibrato
Reading: Ercole Visconti, Parole illuminanti
Listening to: il ticchettio dell’orologio della cucina, passi sul ballatoio, papà che dorme in camera da letto
Watching: Rune Guneriussen’s photography
Playing: a scontornare salamelle e caciottine in photoshop, alias le gioie del mio lavoro
Eating: torta al limone
Drinking: acqua
Holland, Rijswijk, my own home, 15 ottobre 2012
Holland, Utrecht, Eta‘s home, 17 ottobre 2012
Joseph Conrad si domandava come fare a spiegare a sua moglie che quando guardava fuori dalla finestra stava lavorando.
*
Io in questi ultimi giorni sto lavorando tantissimo.
Non faccio molto altro.
*
Nello specifico, le grandi finestre olandesi restano il trip per eccellenza.
*
[Forse] è arrivata la suggestione che mi mancava.
[Forseforse] l’idea.
*
Sono un po’ più felice.
Holland, Pass Through // Aprile 2012
aprile 14, 2012
Mood: in pena, causa grave malessere psicosomatico
Listening to: Gotye – Bronte (And your voice still / Echoes in the hallway of this house / But now / It’s the end)
Watching: La principessa e il ranocchio di Walt Disney Studios
Eating: aria
Drinking: caffè
[Sassenheim – Den Haag]
Ho rincorso
per giorni
(traiettorie opposte)
senza troppo spostarmi.
***
A parte questo, come si può notare, adesso faccio sfoggio di un nuovo logo molto profèscional. L’ha studiato per me Yannamia ‘ché lei è una gra(n)-fica io proprio no, tant’è che mi sono fatta indirizzare anche sul modo migliore di piazzarlo nelle fotografie, siamo alla frutta.
A me il mio nuovo logo molto profèscional piace parecchio, mi sembra appropriato a me medesima, richiama l’infinito le ho detto e lei mi ha detto che mica le faccio a caso le cose io!
Avere le scarpe al contrario
aprile 13, 2012
Mood: vegetativo post nottataccia
Reading: Nick Hornby, Non buttiamoci giù
Listening to: Mina Mazzini – Io sono il vento
Watching: la pioggia che si attacca alle finestre
Eating: caramelle Ricola LemonMint, l’assenza della cucina di mamma si fa sentire tanto più se il frigo è vuoto
Drinking: acqua
Quando ho lasciato l’Olanda per l’Italia passando per la Germania, ieri pomeriggio, provavo il solito sentimento misto di nostalgia ed euforia che mi assale a ogni nuova partenza. Succede così alle persone di tutto il mondo che dicono Casa non quando hanno un tetto sulla testa ma quando sentono i piedi stare saldi al terreno le scarpe adeguate e questo tipo alternativo di Casa – si capisce? – non ha problemi logistici burocratici legali può essere piazzata un po’ ovunque in mezzo a milamilioni di esseri umani, per esempio ho visto giustappunto ieri su un’autostrada olandese una casa di legno sopra un camioncino una casa di legno tutta pronta pareti porte e infissi per essere abitata dopo esser stata piazzata così mi ha detto papà e io ho pensato sono un po’ come quella casa pronta per essere abitata, ma molto più impalpabile, molto meno concreta e insomma succede così alle persone di tutto il mondo quelle come me succede che sentono la mancanza e il desiderio di tanti luoghi – si capisce? – emotivi più che geografici tutti quanti insieme e poi un po’ si sentono confusi, occorre sempre un grande sforzo per andare e un grande sforzo per restare.
Quando ho lasciato l’Olanda per l’Italia passando per la Germania, ieri pomeriggio, io mi stavo sforzando, ma tanto e non solo perché così succede alle persone di tutto il mondo quelle come me quando devono andare o restare, ma anche perché io provavo la sensazione scomodissima di avere le scarpe al contrario i lacci ingarbugliati le suole impiastricciate e di non sapere cosa non lo so, forse di non sapere cosa sapere perché nella vita c’è sempre bisogno di sapere qualcosa sennò ci si sente scomodi come mi stavo sentendo io. Adesso, a onor d’onestà, sono giorni forse un mese che mi sento molto scomoda tra un sorriso e un altro e vario da una condizione a un’altra opposta con estrema facilità, se c’è una cosa peggio di tutte le altre è quando non riesco a starmi dietro, vado troppo di corsa e mi viene il fiatone, mi si gonfia nella laringe un nonsochè come una poltiglia, dolore credo nero denso grave mi si gonfia nella laringe e non fa passare l’aria sicché per alleviare il fastidio io continuo a cacciarmi le mani in gola e a suonare forte le corde vocali pizzicarle sfregarle nella speranza di urlare come quando
una notte ho sognato mia nonna che è morta e nel mio sogno mia nonna che è morta era la prima ballerina di uno spettacolo del Mouline Rouge, stava tutta torta e rinsecchita dentro la sua bara che oscillava a metri d’altezza attaccata al soffitto per delle funi tese da un paio di ruzzulani e io lì a guardare che ne avessero cura non la sballottassero troppo facendola piroettare e poi all’improvviso i due ruzzulani hanno calato la bara con dentro mia nonna che è morta e lei ha vomitato un rivolo di sangue giù per una ruga e come se questo l’avesse rianimata come se tutto il sangue fosse tornato a gorgogliare mia nonna che è morta si è alzata mi ha guardata e giuro non faceva nessuna paura voleva rassicurarmi tranquillizzarmi offrirmi una possibilità e quando mi ha abbracciata io le sono caduta in mezzo alle braccia sono caduta in ginocchio di peso e ho iniziato a urlare che sembrava non avrei finito mai che sembrava che mi stessi liberando persino degli organi, urlavo e non avrei mai finito se non quando mi fossi svegliata,
così
pensavo e c’era la luce dorata ad avvolgere l’Erasmusbrug i palazzi vetrati del porto di Rotterdam in lontananza dall’autostrada che porta a Dordrecht Utrecht Havens e pochi chilometri dopo, svoltando per Gorinchem c’erano le nuvole viola pesto a imbrogliare i prati sconfinati le poche costruzioni l’intreccio delle strade e quasi non volevo crederci che già a un angolo dell’orizzonte c’era l’arcobaleno solido e spezzato in cima simile a un marshmallow e che soltanto dopo l’arcobaleno è arrivata la pioggia a chicchi grossi poi a aghi sottili e di nuovo a chicchi grossi verso Venlo Nijmegen Köln fin quando al confine con la Germania non è ricomparso il sole uno spicchio sanguigno di prepotenza che la terra stava inghiottendo per illuminarsi bruciare col fuoco da dentro prima della notte, sembrava che per tanti chilometri noi non avessimo fatto altro che inseguire lo spettacolo finale, in Olanda, un momento prima c’è il sole quello dopo la pioggia così mi ha detto papà e io ho pensato – si capisce? –
Holland, Pass Through // Venti scatti più uno
gennaio 13, 2012
Mood: stravolto e galleggiante
Listening to: Ken Ikeda – Pictures
Reading: Aldo Nove, La vita oscena [si consiglia vivamente, sono brividi secchi]
Watching: me medesima che sembro un personaggio di Tim Burton
Playing: a spaccare il ghiaccio nel freezer
Eating: risotto col radicchio
Drinking: caffè
[Rijswijk. Delft. Kijkduin. Den Haag. Utrecht. Amsterdam.]
Manca una cosa soltanto.
[Sorella. Padre. Madre.]
E questo è quanto.
Giorni. In numero, venti.
Esisto // Notturno
dicembre 30, 2011
Mood: amorfo
Listening to: The xx – Basic Space
Playing: a fare i palloncini con metà bigbabol
Watching: a breve, una probabile nuova casa olandese
Eating: panino con philadelphia
Drinking: acqua
Rijswijk
Esisto.
Capirai se non ho più intenzione di darne spiegazioni.
Un giorno sostituirò la carne col vetro per poter guardare attraverso, nello spazio vivente tra le ossa. E non appenderò le tende.
Amniotica // Un Autoritratto Provvisorio IV – Dicembre 2011
dicembre 27, 2011
Mood: taciturno nauseato
Reading: quello che Lou mi scrive in chat, facendomi ridere a orari improponibili
Listening to: Laura Pausini – Bastava (e sì, lo so che Laura Pausini è nella tripletta primordiale dei cantanti italiani che mi stanno sul culo, ma questa canzone è una storia a parte perché il testo è di Niccolò Aglierdi e lo sento molto mia in questi giorni dalle ri-considerazioni affettive. E sì, la canto pure. “Bastava fare a meno delle buone maniere”)
Watching: le vetrate illuminate dei palazzi di fronte
Playing: a ficcanasare nella vita degli altri con papà, grazie feisbùc!
Eating: tortelli in brodo
Drinking: te
‹‹Abbine cura, questa ferita sta andando in cheratosi.››
‹‹Che benedizione!›› Se continua a creparsi, questa volta è perché i nuovi albori premono per germogliare in un sangue purgato. E qualcuno già s’insinua e gorgheggia.
Non mi sono mai considerata una dai modi gentili con se stessa, tanto più nel dolore. Per questo mi piace pensare alla mitezza inaspettata con cui oggi affronto i pungoli tra cuore e cervello, quando penetro nel buio attraverso la gola della ferita più fresca e ne traggo chiarore da spargere fin nel movimento più minuto. In questo ritrovo bellezza. Non più nell’essere coperta di lividi, di rabbia e d’orgoglio.
Questo pomeriggio, in un parco a Rijswijk ho anche visto un uccello ignoto che sembrava una fenice. Una creatura spaventosa e attraente da perfetta sconosciuta.
Zalig Kerstfeast
dicembre 25, 2011
Mood: silenzioso
Listening to: detonazioni nel silenzio
Playing: a conquistare regali lanciando un dado, ché in Olanda pare i regali ce li si scambi così. Degno di nota è il mio nuovo Big Willie, the Hip Hop Dancing Rock Dick, eggià.
Eating: senza pretese
Drinking: caffè
Sto riflettendo sul fatto che la tavolata incerta sotto il peso delle pescagioni sfilettate e lo scatolame imbellettato in carta color flusso mestruale sono i presupposti rivelatori del Natale. Dubito mi stia sfuggendo qualcos’altro. Forse il Nessun dorma in tivvù?
La prima fortuna è che sono vegetariana e balzo a pié pari la minaccia delle palate di grasso fritto sul culo, confidando in una cenina alternativa di funghi e pane tostato, più torta glassata come unica nota dolente in chiusura.
La seconda fortuna è che nel mio scatolame imbellettato color flusso mestruale, mia sorella ha nascosto una take away cup coffee in porcellana a pois colorati per avere sempre con me il caffè caldo. Credo volesse conquistare il podio nel mio Olimpo.
Per tutto il resto c’è sempre il silenzio pudico di un’ordinaria notte in bianco alla fine della sbafata.
A dire il vero, aspettavo con impazienza il Natale per cibarmi di calore familiare. Poi ho scoperto di aver bisogno soltanto di restare chiusa a riccio.
Se stanotte nevicasse nel vento, sarebbe tanto bello.
Vorrei ritrovarmi nel bianco con la paura fottuta e la voglia bastarda di lordarlo e tinteggiarlo.
Comunque, in olandese, Buon Natale si dice Zalig Kerstfeast.
Io lo auguro, ché a dispetto del simil-cinismo, il venticinque di dicembre non ce l’ho sul groppone.
Emigrare, la prima regola del Fight Club
novembre 12, 2011
Mood: teso
Listening to: Crystal Castles – Crimewave
Watching: Pina, di Wim Wenders (per la prima volta in vita mia, dico da vedere in 3d)
Playing: a scaricare la tensione accumulata
Eating: patate bollite e taralli ridotti a farina dal viaggio Bari-Milano
Drinking: acqua
Quando ci racconta di come ruota la vita che (si spera) ci aspetta là fuori, una mia professoressa di regia snocciola le “Regole del Fight Club” che non sono propriamente quelle di Chuck Palahniuk, ma un riadattamento delle suddette al nostro habitat professionale. Forse è inutile specificare che non c’è una sola che non ti metta in bocca un sorriso cinico o amaro, ma a me la dicitura “Regole del Fight Club” piace proprio tanto perché ha intrinseco il valore della lotta e della resistenza sul ring dove l’idea stessa del futuro picchia più di una grandinata non preannunciata. Noi uomini siamo stati abituati male con tutti gli omogenizzati e le pappine pronte che ci hanno propinato da cuccioli. Le bestie invece imparano presto che la ciccia si conquista con le unghie e con i denti, pena la vita.
E quindi ieri in mezzo, in mezzo ai tornanti di un discorso, questa mia professoressa si è girata di scatto verso di me e mi ha concesso il privilegio di una bastonata ‹‹Tu vuoi fare il direttore della fotografia? Emigra.››
Ma cazzo, mi è venuto da obiettare, io voglio fare la direttrice della fotografia, non il direttore, possibile che non mi si riconosca mai il genere femminile?
Esperti del settore sono tutt’ora al lavoro per capire se lei pensasse di sconvolgermi con una rivelazione simile. Io sono una bestia.
Emigrare
È la prima regola del Fight Club. Nel fu Bel Paese le uova marciscono. Se si vuole che si schiudano e che i pennuti crescano e vivano, bisogna svolazzare verso lande più favorevoli.
Del resto, per quanto mi riguarda, non ho mai pensato di restare a vivere nel nido da cui sono sgusciata e mi è venuto spontaneo forzarne da subito i confini per elasticizzarli. Quando le traiettorie migratorie hanno iniziato ad essere le uniche immagini di me che riuscissi a proiettare tanto in là nel futuro, emigrare e vivere “oggi qui, domani lì, dopodomani ancora chissà”, fiutando soltanto l’umanità, era un sogno e l’aspettativa più elevata che potessi coltivare. Non ci ha messo molto a diventare la dinamica essenziale di tutta la mia vita, e-migrare, andare da un luogo ad un altro, ma anche da un’emozione ad un’altra, da uno status quo ad un’altro.
In certi momenti, ho pensato che sarebbe stato massimamente bello nascere su un aereo in volo, originaria di nessun posto in particolare e di tutti insieme. Ebbene, chi l’avrebbe mai detto, guarda il caso birichino!, tra qualche ora sarò concretamente e non solo emotivamente una persona inuncertoqualsenso di nessun posto in particolare. Anche la mia famiglia emigra ufficialmente, mamma e sorella raggiungono papà in Olanda. E qualcosa in me cambia.
Mi sarebbe piaciuto nascere su un aereo, ma sono nata a Sud, in provincia di Bari. Ho bruciato lì i primi diciott’anni della mia vita e, crescendo, ho sfumato la mia patologia e la mia essenza da e-migrante con l’amore e la sofferenza per il nido in cui sono nata. Un tempo sapevo che, per quanto potessi prendere, andare, partire, vivere altrove, di tanto in tanto e ad un certo punto non ben precisato avrei affrontato un viaggio di ritorno al mio vecchio Sud, inteso come luogo degli affetti, ma anche come puro confine geografico. Perché, al di là di qualsiasi poltiglia patetica, lì ci vivevano mamma, papà e sorella e anche il più volatile degli esseri umani, tra un viaggio e un altro torna indietro per baciare la propria famiglia natale.
Tra qualche ora però anche la mia famiglia emigra ufficialmente, si svuotano gli armadi, si stacca l’elettricità, si chiudono le imposte alle finestre della nostra casa e si fa silenzio o quasi perché la vita che ha percorso un luogo difficilmente si stacca dalle sue pareti. E allora faccio il conto delle ore che restano, dodici per approssimazione, e non so bene come districare il groviglio emotivo e celebrale che mi sta dentro, mi stringo nelle spalle perché è come se mi mancasse la terra sotto i piedi. E tra l’esaltazione e l’insicurezza, mi riesce persino di incazzarmi, non avevo previsto che il caso mi fottesse e svoltasse senza ritegno nella direzione delle mie vedute da vita sperimentale, enfatizzandole fino a privarle di quel po’ di nostalgia classicheggiante da ritorno che serbavo nel profondo. Ma soprattutto non avevo previsto che potesse svoltare investendo il mio sogno e l’aspettativa più elevata che potessi coltivare con la forza inderogabile di un’imposizione impartita addirittura a tutta la mia famiglia, ché, non fosse stato per la visita da parte di Madame Disoccupazione e Monsieur Come Cazzo Sbarchiamo il Lunario, mamma e papà sarebbero rimasti volentieri nel nido, e sorella avrebbe a buon diritto preferito rotte più libere ed indipendenti.
Ma bando ai piagnistei e benvenuti al Fight Club, miei amati Signori. Qui si combatte e, come vuole la settimana regola del Fight Club di Chuck Palahniuk, “i combattimenti durano per tutto il tempo necessario.”
Di valige e questioni ontologiche
dicembre 21, 2010
Mood: in rapido recupero (a te, grazie, perché ci sei)
Reading: Reif Larsen, Le mappe dei miei sogni
Listening to: Kings of Leon – Cold Desert
30 Seconds to Mars – This is War
Eating: ciò che avanza nel frigo e va consumato
Drinking: tanta, tanta acqua, ho abbondato col peperoncino
Casa. Trolley e/o valigia. Stradastradastrada. Aereoporto. Check-in, al bisogno. Imbarco. Aereo. Posto xx. Decollo. Atterraggio. Sbarco. Recupero bagagli, al bisogno. Stradastradastrada. Casa. Sempre trolley e/o valigia.
Negli ultimi anni lo spostamento è diventato una costante della mia vita, talvolta percorro lunghe distanze anche più di una volta nel giro di una settimana, tutto d’un fiato o a tratti. Mi guardo nelle porte a scorrimento di un’aereoporto o di una stazione e riconosco in me la giovane viaggiatrice che ho sempre sognato di essere, con la valigia fatta all’ultimo secondo, povera di vestiti e carica di emozioni tutte stropicciate.
Domani parto per Amsterdam, raggiungo papà e mamma e sorella. Disastri meteorologici permettendo e ritardi secolari.
Intanto galleggio nel disordine che sempre comporta il tentativo di costringere la mia vita dentro una valigia in una sintesi striminzita e costantemente imperfetta, prima di lasciare un posto per un altro.
Mucchietti di vestiti, quelli da portare, quelli da lasciare e gli ultimi panni stesi ad asciugare per tutta la casa, sui mobili e sui termosifoni. Pile di libri e pile di fogli, quelli da portare, quelli da lasciare e penne e matite sparse sul suolo e tra le lenzuola. Collane di musica e canzoni, quelle da portare, quelle da lasciare e macchine fotografiche e rullini e schede di memoria e via così.
Di fronte alla valigia, il mio è un disordine tanto concreto quanto emotivo, ha molto a che fare con l’intimità, con chi sono e chi non sono, chi sono stata e chi non voglio più essere:
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Proprio per questo stavolta trovo particolarmente difficile fare la valigia. Niente a che vedere con le pelli di montone da farci entrare per affrontare l’inverno sui polder, chè tanto ho sviluppato una personale metodologia per far entrare in valigia il possibile e l’impossibile, all’occorrenza. Tutto a che vedere, invece, con l’ontologia.
Sì, è uno strano momento, lo avverto fisicamente, mi stringo i polsi, in vena mi scorre un’onda frequenza silenziosa, non dolorosa, non angosciante, ma sottile, penetrante.
Ho bisogno di far posare i pensieri.
A distanza di cinque anni, l’Olanda resta per me una meta emotivamente molto forte. Allora avevo sedici anni e la vita crepata da due. Per un mese, sono stata lontana da casa e da tutto quello che mi era familiare, ho vissuto in Olanda con mio zio, lavoricchiato in un suo piccolo alimentari con mia cugina, per lo più mi sono cercata disperatamente, dilaniata tra il desiderio di “fare strage di me” e quello di “restare in piedi e non avere paura”. Per questo sono stata lontana da casa e da tutto quello che mi era familiare e per questo sono andata in Olanda. Era la mia prima volta.
A distanza di cinque anni, ne ho percorsa di strada, tanta davvero e ho avuto coraggio, sono cresciuta. Non ho più tempo per vivere nel passato, piuttosto lo recupero per distendere le pieghe e perdonarmi finalmente, riconciliarmi con me stessa. Ho raggiunto la dose di stabilità sufficiente per presentarmi al faccia-a-faccia con la ragazzina che sono stata come la donna che sono oggi, dimostrarle che non abbiamo più nulla a che vedere l’una con l’altra ed allo stesso tempo tutto a che vedere. Sorriderle ed abbracciarla, e sollevarla, respirarle dentro aria pulita, rassicurarla, dirle di non passare la vita a morire dentro perché sa ridere forte da spaccare i cristalli, che arriverà il bello ed ancora il brutto, ma lei potrà essere debole, piangere e avere paura, essere umana perché anche in questo c’è coraggio e sarà più facile star bene. Ringraziarla per la donna che sono oggi. Non più un rewind, ma un flash forward.
Sì, è uno strano momento, lo avverto fisicamente, mi stringo i polsi, in vena mi scorre un’onda frequenza silenziosa, non dolorosa, non angosciante, ma sottile, penetrante.
In verità, è solo un po’ di tensione. E’ sufficiente non ingigantirla perché torni il sereno.
E’ ora di fare questa valigia e chiuderla.
La mia famiglia è già lì, mi sta aspettando. Io sola manco. Ed in verità, non vedo l’ora di stringere tutti in un abbraccio collettivo.