Esisto // Notturno
dicembre 30, 2011
Mood: amorfo
Listening to: The xx – Basic Space
Playing: a fare i palloncini con metà bigbabol
Watching: a breve, una probabile nuova casa olandese
Eating: panino con philadelphia
Drinking: acqua
Rijswijk
Esisto.
Capirai se non ho più intenzione di darne spiegazioni.
Un giorno sostituirò la carne col vetro per poter guardare attraverso, nello spazio vivente tra le ossa. E non appenderò le tende.
Tutto d’un fiato
giugno 30, 2011
Mood: silenzioso
Reading: Anna Marchesini, Il terrazzino dei gerani timidi
Listening to: Jovanotti – Il più grande spettacolo dopo il Big Gang
Playing: ad immaginare come sarebbe se gli uomini avessero la coda e tutte le emozioni non fossero più controllabili
La pioggia ha lavato via l’afa, improvvisa e decisa come solo in estate sa essere e com’è bella l’aria fuori, stasera!, fresca e leggera, soffia e sfiora la pelle quasi fosse un respiro, quasi fosse una carezza e se avessi un terrazzino, mi raccoglierei in un angolo e mi lascerei vezzeggiare e adulare e contemplare e se avessi una bicicletta mi slancerei nel vento e gli permetterei di percorrermi e sconvolgermi, sarebbe come fare l’amore, come l’unico modo per non sentirmi nel posto sbagliato, negata, impaurita, col cuore serrato tra i denti e pochi sogni e tante condanne perché mi uccido di domande che non hanno risposta, perché mi sono smarrita e ho scelto di andare avanti, andare lontano, convincermi che si vive anche senza ciò che si crede indispensabile, ma di nascosto piango acido e sangue e per non dimostrarlo, per non fare marcia indietro, coltivo silenzi e perturbazioni a bassa frequenza che si comprimono e si espandono nello stomaco, seguiti dall’ansia di non riuscire ad infrangerli e di non chiedere aiuto, allora di tanto in tanto, mentre vado via mi volto per guardarmi indietro, c’è nessuno che mi tenda la mano, mi freni, mi chiami?, ‹‹potresti salvarmi, restando vicino››, ma nessuno, davvero non c’è nessuno, tutt’attorno si fa sempre più vuoto, terra bruciata, devo andare ancora avanti, questo ha il sapore di una verità sputata in faccia e l’ansia di non chiedere aiuto diventa l’ansia di non trovare sostegno, che poi perché mai aspettarsi qualcosa?, sono così dannatamente radicata nei miei affetti da diventarne cieca, non voler riconoscere che sono solo un momento in attesa di qualcosa di meglio, una bambolina di porcellana in una vita a comparti stagni, quant’è umiliante!, eppure un tempo conoscevo l’orgoglio, mi riempiva, mi caricava nel profondo, com’è difficile invece la tristezza di oggi, non ha la grinta della rabbia, né la forza del dolore, è spenta piuttosto e pallida, emaciata, anoressica, puttana, ha il volto della morte, ho sbagliato una volta ancora, chi sono io?, defibrillatore, prego, tante sberle in faccia!
Idiosincrasie Interinali ed Itineranti dell’Era della Confusione
giugno 19, 2011
Mood: distratto e alla ricerca di concentrazione, i miei esami la esigerebbero
Reading: quisquiglie filosofiche sul significante flottante e sul cybercorpo, che al momento recepisco mooooolto sommariamente
Listening to: Yanna ed un suo compagno di corso che parlano di Duchamp nella camera a fianco e i motori che mi rombano direttamente nel cervello, piuttosto che in strada
Watching: la pila di materiale che devo ancora affrontare per l’esame di mercoledì, qualche lume mi dia sostegno
Eating: caffè
Drinking: caffè
Postilla a piè pagina. Disorientati tra le idiosincrasie interinali ed itineranti dell’Era della Confusione, prendiamo forma nei vuoti che combattiamo, a passo di marcia o a passo di danza. E combattiamo per non rinunciare mai alla contemplazione di un essere del mondo e della vita che ci permetta di vivere distanti anni luce anche solo dai confini dello Stato del Terrore e della Futilità.
Storie del Vecchio Sud // Intanto Ri-generarsi
aprile 18, 2011
Mood: stabilmente instabile
Listening to: Gianluca Grignani – L’aiuola con Zulio a tutto volume sulla Vicenza-Milano
Playing: il gioco della felicità
Eating: Asiago
Drinking: acqua
Fuori dal centro abitato del paesello in cui sono nata, le strade sfuggono con naturalezza nell’aperta campagna, disconnesse e sempre più ristrette tra i muretti a secco diroccati che due macchine insieme spesso non ci si passa. La partitura del paesaggio muta gradualmente, il verde dei prati e delle fronde degli alberi si infiltra nel grigio fino a fagocitarlo, e così il viola del glicine abbarbicato tra i massi, il giallo e l’arancione delle macchie di margheritine ed il marrone del terreno arato di fresco, il rosa del fiore del pesco e il bianco di quello del ciliegio e l’argento delle foglie d’ulivo e l’azzurro del cielo terso con il tempo, si sa, muterà ancora tutto, aspetto e colori.
Da bambina, scorazzavo in questi campi a briglia sciolta, i miei nonni materni avevano costruito masso su masso una grande casa bianca in mezzo ad un oceano di terra e mio nonno ci urlava dietro perché a correre a piedi nudi gli rovinavamo il solco e a costruire le casette con le casse di plastica gli mettevamo tutto in disordine e da dire ce ne sarebbe sui nostri giochi invasati e sordi a qualsiasi minaccia.
Tornandoci, dopo mesi di vita milanese trascorsi a fissare senza amore palazzi più o meno elevati e vetrine e traffico, sulle prime mi sembra di non cogliere la realtà di quello che sto vedendo, ma che begli scenari in questo sogno ad occhi aperti, persino il cielo ha colore! Poi con il trascorrere dei minuti, il respiro dei campi, pulito e leggero, mi solletica la gola e si dà alla discesa verso il cuore, lo gonfia e lo incalza, lo rianima, c’è odore di terra, di petali infastiditi dal venticello, di acqua e di pietra, ci sono la terra, i petali infastiditi dal venticello, l’acqua e la pietra, mi emoziono timidamente.
Poi in fondo ad una discesa, incorniciata dalle fronde degli alberi, si schiude la visione sublime di dolci declivi verdi disseminati da piccoli agglomerati sbiancati nella luce piatta di metà pomeriggio, è un colpo all’anima, com’è possibile che esista ancora tanta bellezza? Il fatto è che la natura resiste anche se ferita, l’uomo con tutti i suoi conti in tasca non si sa per quanto.
L. abita due svolte in là, in una casa col porticato in legno, affacciato su un giardinetto sul quale lei stessa profonde amore, coltivando fiori e piante d’ogni genere che, crescendo, s’aggrovigliano tra loro, e sembra una piccola giungla. In uno studiolo ricavato da uno spazio di troppo, L. pratica la tradizione degli aggiustaossa, della pronoterapia e della riflessologia plantare. «I piedi parlano», mi ha detto ed ho sorriso io, io che ho sempre un po’ tanto creduto che la vita passi attraverso i piedi, il passo, il modo in cui la pianta si arpiona al suolo, la penetra, la scava, nei luoghi che segna, è questione di pesi, di ritmi, di umori. Io che da qualche mese stavo affrontando la vita con un passo zoppicante a causa di un paio di faccende emotive e, guarda caso, dell’alluce destro accartocciato su se stesso, senza particolari spiegazioni, «ossa accavallate in calcificazione con principio di alluce valgo, un calcio o un passo a vuoto», mi ha detto più tardi L. mentre, pian, piano, riportava tutto al posto giusto ed io sentivo il piede allungarsi e rilassarsi e sì, ora lo poggio di nuovo per terra e, a volerla dire tutta, la radiografia e l’ecografia del giorno dopo non sono state in grado di rilevare alcun tipo di malformazione e semplicemente perché non c’era più.
La gente del circondario spesso conosce L. come Anselma, in verità la gente del circondario conosce l’intera zona come “Àbbasce ad Anselm” (“Giù ad Anselma”). Anselma era un’istituzione in questioni di ossa a spasso da riportare a casa ed abitava appena qualche metro in là rispetto a L.
Da bambina, Anselma mi ha rimessa a posto centinaia di volte, ché io ero pazzerella ed una volta ruzzolavo giù da un albero, un’altra cadevo dalla bicicletta e mi incastravo nella raggiera della bicicletta, un’altra ancora perdevo l’orientamento mentre facevo una ruota dietro l’altra con una sola mano e finivo contro un muro, fatto sta che mi ritrovavo sempre con un piede, una caviglia, un braccio, qualche dito dis-locato. Aveva l’odore della terra, Anselma, ricurva su se stessa e nodosa come la radice di un ulivo secolare e scura e segnata come un suolo riarso dal sole. Aveva raccolto tutta la forza e l’energia nelle mani, scheletriche e lunghissime, e la si avvertiva fisicamente quando premeva a fondo tra i muscoli e le ossa, poi cranck, tessuti distesi, «È a posto», e in verità Anselma parlava un dialetto che mi era incomprensibile. Non ha mai imposto pagamenti in moneta, ricordo che a mio papà chiedeva pale da camino e non ho mai capito bene per quale motivo, comunque qualcosa a che fare con mio nonno. E il suo camino era nero, nerissimo, nero fuliggine, lo fissavo e mi ci perdevo mentre muscoli ed ossa si spostavano sotto le sue dita e stringevo le labbra tra i denti, ché fiatare il dolore lo reputavo infantile anche quand’ero una poppante
A volte mi sembra impossibile incontrare tutt’oggi per strada gente che ritenga Anselma ancora viva, non c’è più da così tanto tempo, ma se è vero che si vive agitati nella memoria, effettivamente Anselma è viva, altroché se è viva!
Il caso aveva voluto che Anselma e L. fossero l’una per l’altra suocera e nuora. Ma Anselma non ha insegnato nulla a L., lo si avverte nelle loro mani. Della terra, Anselma aveva anche l’asprezza e la rudezza, mentre nelle mani di L. non si incontra mai un gesto disattento o maldestro, mai nella sua voce un tono acuto o sbrigativo, «la dolcezza, non provoca dolore», mi ha detto, la dolcezza è la cura, l’ha imparato con i polletti e le galline e i conigli ed i vitelli quand’era bambina, prendendosene cura se erano inquieti, massaggiandoli e curandoli se si facevano male e loro continuavano a crescere e la riconoscevano, la amavano. Ad ascoltarne i racconti, il cuore incalza il sangue velocemente, «Ho un cuore anch’io, solo è diversamente abile», come posso aver pensato che mi si fosse essiccato?, era solo sopito, annichilito, corroso, mi emoziono timidamente.
Insomma, lo so, una serie di cosette degne di scetticismo e che la medicina ufficiale spara a vista come cialtroneria, ignoranza e via elencando e certamente di truffe ce n’è a palate in giro, ma quello che la pura razionalità non sa valutare è l’istintività animale di un corpo che si approccia ad un altro, carne, ossa e sangue, l’emotività di un contatto e la forza congenita in un sentimento. Dopotutto, quello che la medicina ufficiale non si spiegherà mai compitamente è il meccanismo psico-fisico dello stomaco, egguardacaso!
Mentre aspetto il mio turno, me ne sto così a ricordare e a pensucchiare insieme, semplicemente appoggiata alla staccionata che divide il terrazzino dal giardino, «Sto fuori, mamma, fuori dal bunker». Bevo tutto nei sensi, il cielo ed il sole col suo ciclo lento verso il tramonto, il percorso dei raggi che colpiscono le piante e le fanno vibrare, le armonie degli uccelli quando al calar del sole tutt’attorno la vita si quieta nel fruscio delle fronde e l’abbaiare di un cane lontano, la vecchina ricurva ad estirpare l’erba nel campo di fronte con il fazzoletto bianco a ripararsi dal sole, i nani nel terreno e i nidi tra i rami, le girandole che gorgheggiano al vento, e appena cambio la prospettiva tutto cambia, le curve delle foglie ed ogni loro oscillazione, gli arabeschi tra le nervature, la forma di una nuvola all’orizzonte, scopro dettagli che non avevo notato prima, il giallo del limone nel verde, mi immergo nel ritmo, ne divento parte integrante, un gatto grosso e dagli occhi languidi si avvicina e si procaccia carezze tra le mie gambe.
Quanto sei bella, mia terra addolorata, mia terra abbandonata, pensavo di non poter provare più meraviglia di fronte al mondo, né curiosità, come se mi avesse detto tutto e tutto male, ma che errore, un altro, come posso averlo compiuto, quand’è che ho iniziato a fare il callo alla sterilità estetica ed affettiva, quand’è che ho spento la torcia e mi sono dimenticata della bellezza, ora ne faccio scorta, ché senza mi sento soffocare, sì, sto proprio soffocando di bruttezza e non trovo rimedio, è una fuga continua e mai nessuno che alza lo sguardo e sorride e bisognerebbe fermarsi di più a meravigliarsi e a lasciarsi andare e un attimo… dov’è la lotta quotidiana dentro di me, dove sono la rabbia e l’amore e le cicatrici, dove le incertezze e le risposte agli estremi, dove lo sporco nel sangue ed ogni malsano prospetto?, ma dico, sono serena, ma dico, sto sorridendo, ma dico, ci sono e per un momento non mi sto smembrando, dico di più, sto respirando cos’è questa storia? È coscienza e insieme rapimento, ragazza, non t’accorgi che in realtà ci sei ed insieme non ci sei?, sei in un’altra condizione, lasciati andare, ragazza, lasciati andare, resta sospesa ancora un po’. Che in verità, la storia è tutta qua.
Quanto tempo sprecato a correre, nell’ultimo anno, quanto tempo sprecato a non fermarmi mai, neanche per un secondo e a chiedermi «Hei, Do, come stai?», anche solo a fare qualcosa che mi faccia piacere. A Milano davvero corrono tutti e strepitano, persino le formiche ed io assieme a loro corro e per convenienza non mi domando mai come sto e faccio respiri profondi per non piangere, respiri profondi che si schiantano come piombo sullo stomaco e lo sfondano e corro senza sosta.
Tra tutte le leggi sociali, economiche e culturali di cui si è gravato per vivere, l’uomo sembra aver condannato a damnatio memoriae proprio le dinamiche della sospensione, ma a correre sempre, lo sai, si finisce per perdere di vista la strada, ragazza, ed insieme se stessi, e a non domandarsi se stai bene, se stai male o mezz’e mezzo, si finisce per ammalarsi. Fermati, non t’accorgi che sei senza fiato? Fermati a ripescarti.
Così, mentre aspetto il mio turno, tra una svolta dei sensi e l’altra, mi domando come sto, e basta mentirsi, ti sei ammalata, ragazza, ma ammalata seria, nel profondo e ti sei persa, ragazza. Se ti domandi chi sei, dove sei, cosa vuoi, se ti domandi «Perché?» non trovi risposta che nei giorni di qualcun’altro, nel tuo essere per qualcun’altro. Ma tu, chi sei tu, dove sei, cosa vuoi per te?, ché sì, puoi ben volere anche solo per te e svegliarti domani e scoprire che tutto è cambiato e semplicemente accettarlo. Ma poi dimmi, come puoi vivere se sei prigioniera? E tu vuoi vivere, cazzo se vuoi vivere!
Non si invola all’improvviso la lotta quotidiana dentro di me, né la rabbia, né l’amore, né le cicatrici, neanche le incertezze e le risposte agli estremi e lo sporco nel sangue ed ogni malsano prospetto e dopodomani forse respirerò ancora pesante, tutte le risposte non sono in un pomeriggio, ma, mentre aspetto il mio turno, scivolo tra il rosso del tramonto che tinteggia i contorni degli alberi e gli angoli del porticato. Bisogna pur partire da qualche dove per trovare la cura per la propria malattia, e forse il sé è il dove più appropriato.
Intanto resto col naso all’insù e guardo le stelle, a vivere nell’inquinamento luminoso m’ero dimenticata che di notte nel cielo ci sono le stelle, grosse e luminose, infinite che non potrai mai contarle. Il fatto è che sulla strada del ritorno, per far spazio ad un’altra macchina, mia mamma ha valorosamente condotto la nostra anziana Fiat Tipo su un sasso ben acuminato e sbam!, la ruota non ha resistito e s’è squarciata e siamo rimaste bloccate in aperta e profonda campagna, io zoppa ed impossibilitata a fare sforzi, lei incapace di cambiare la ruota col ruotino. A breve arriverà V. il Corto che è un amico di mio papà ed è corto per davvero, ma è un brav’uomo e le ruote le sa cambiare, per di più fa il meccanico e alla sera va a ballare i balli di gruppo. Nessun problema, aspetteremo, nel mentre s’è fatta notte ed io guardo le stelle, disegno il Grande Carro ed il Piccolo e canto Mr. Mandarino, muovendomi solo dalle vita in su, e sono felice un po’, un bel po’ al punto tale che quando arriva V. il Corto gli darò un bacino sulla cocozza pelata, ci sta davvero.
Domani esondo.
***A distanza di due settimane abbondanti, ormai***
Note sull’Insonnia, L’Ennesima
febbraio 14, 2011
Mood: piombato andante
Reading: robe da esami, a ritmo da bradipo
Listening to: Sade e Bonobo
Watching: il caos di cui mi circondo e Pauline che svetta sul cavalletto
Eating: pata-pizza di Padre Pio (sono recidiva!)
Drinking: Coca-Cola (ogni tanto diserto anch’io)
Che senso ha questo cercarsi ad occhi chiusi nel buio, violenti come fiere che inseguono un umore, per tenersi stretti nel groviglio dei corpi, stremati dalla lotta e con la pelle arrossata, tra lenzuola disfatte?
E’ come fare l’amore…
«C’erano cose che volevo dirgli. Ma sapevo che gli avrebbero fatto male. Così le seppellii e lasciai che facessero del male a me. Misi la mano su di lui. Per me è sempre stato così importante toccarlo. E non ho mai saputo spiegarla. Toccatine da niente. Le mie dita contro la sua spalla. Quante centinaia di migliaia di dita che si sfiorano servono per fare l’amore?»
[Jonathan Safran Foer, Molto forte, incredibilmente vicino]
Stomaco
ottobre 3, 2010
Mood: in via di definizione
Reading: Manuale Nikon D90
Playing: con Pauline
Eating: yogurt fragola, lime e zucchero di canna
Drinking: acqua
Non aveva chiesto lei alla vita di prenderla a calci in culo. Ma che altro poteva fare se non ricambiarla?
Un souvenir per incontro. Lo riportava in brandelli di carne rammendata.
E lo custodiva nel baricentro, emozioni e reazioni, tutto convogliava lì, al caldo.
Avesse saputo poi come avrebbe ribollito, quali e quanti terremoti…
Di fatto, quel che restava era una grande faglia nello stomaco.
*Certe notti sono solo troppo lunghe, sfumano grigie nel giorno.
Un romantico a Milano
settembre 20, 2010
Mood: allucinato
Listening to: Meshell Ndegeocello – Beautiful
Eating: gelato cioccolato fondente e yogurt
Stanotte Milano indossa il rosso.
Sanguigno, carnale, violento.
Ha tutto l’aspetto di lupanare.
Voci acuminate, risate sguaiate e musica che s’accavalla, priva di ritmo, di armonia.
Bottiglie vuote che rotolano tra i passi, clang clang e ubriachi che con la lingua ravanano il bicchiere fino all’ultima goccia, con un altro già pieno per le mani.
Sguardi nella scollatura, tra le gambe, famelici, volgari, “Ma hai visto quello come t’ha adocchiata”, “Succede dieci volte al giorno almeno”, disinteressato, e lo sporco sulla pelle brucia, richiama l’attenzione su di sé, “io esisto, ti sono appiccicato, non vado via”, ci si stringe in una sciarpa, ci si afferrano le scapole tra le mani, dolce illusione di un abbraccio protettivo.
Quei tipi che, senza amore, si toccano, si esplorano ad un angolo della strada.
Quello che poco più in là si tiene il membro stretto tra le mani e piscia, un rivolo gli fluisce tra i piedi, giù per il marciapiedi, e l’acqua torbida del Naviglio che scorre priva di riflessi.
L’orologio ha segnato il tempo.
“Com’è romantico camminare per di qui!”
Libere associazioni
settembre 15, 2010
Mood: stremato (sessione autunnale del piffero!)
Reading: tesine e tesine
Listening to: Elisa (ft. Giuliano) – Ti vorrei sollevare
Watching: il monitor e se continuo gli occhi appassiranno
Playing: a distrarmi
Eating: gelato choco-muffin 🙂
Drinking: acqua
“Il filo rosso che unisce gli artisti selezionati è quello delle live performance, in cui l’indagine artistica si ibrida con la tecnologia per rispondere ad istanze di natura filosofica, antropologica e scientifica, oltre che sociale. I termini di modulazione di quest’analisi… ”
Gli esami sono troppi.
E troppa poca è la voglia di stargli dietro. Il culo rifiuta la sedia. E la testa si perde in voli pindarici, è spostata, c’è un errore di parallasse.
Proprio non ce la faccio.
Voglio dire, l’abbronzatura sta abbandonando la pelle, l’ho notato ieri in doccia. Cioccolato e latte tornano ad uniformarsi e presto sarò nuovamente candida, meglio dire pallida. Sto bene a cianciare! Pallida lo sono già, emotivamente.
“Dalla più immediata indagine sul rapporto uomo-macchina con Epizoo di Marcel-lì Antunez Roca, nella cui performance il corpo viene messo a disposizione del computer interattivo e diventa oggetto di un gioco di massacro…”
Corpo. Un giorno gli chiederò scusa, non sono una buona compagna. Non lo sono complessivamente.
“… si passa all’ambito di una corporalità vissuta nella sfera dell’emotività e della percezione con Laser Sound Project di Edwin Van Der Heide.”
Famiglia. Famiglia? Solitudine. Psicoanaliticamente. Vi amo.
Milano, Casa. Quest’anno ci provo. Mi ci metto d’impegno. Se apparecchio per qualcuno in più oltre me sento già il cuore riscaldarsi.
“All’incrocio tra reale e virtuale, il concetto di corporalità incontra i temi della presenza e dell’assenza, della prossimità e della distanza e quello del controllo, con Can You See Me Now dei Blast Theory…”
Tu. Io. Noi? Voi. Loro. Non so. Chissà. Domani. Sarà. (Un giorno migliore?) Ho conosciuto uno. Grazioso. Non ci penso nemmeno. Vorrei davvero correre tra le tue braccia. Ma se te lo dico mi lasci? Shhh. Ond’evitare.
“… e diventa termine di passaggio per una serie di considerazioni sulla concezione contemporanea di identità con COME.TO.HEAVEN di Gazira Babely.”
Chi sono? Dove sono? Cosa faccio? Cosa voglio? Come fare?
Olanda. Dovrei, ma non voglio.
Non tengo dinero. Tocca sgobbare.
E i sogni, in quale cassetto? Ne ho tanti, alcuni neanche li conosco ancora. Non so se ci stanno. Forse son meglio due cassetti.
“Sposta questo keyframe di un secondo. Più in qua, più in là, ma vaffanculo s’è sballato tutto.”
Nina dice che ci sono giorni in cui non succede niente. Poi ci sono quelli in cui succede tutto. Bello e brutto. Ecco. Appunto.
Oggi ho pensato che dovrei cambiare suoneria al cellulare.
Dicono sia depressiva.
Voglio essere propositiva. Ho imparato a piangere. Sto diventando forte, dico, sarà poi vero?
Ho le pile scariche, questo è certo.
Dai gas, dai gas! La vita è così. Più cerchi di definirla, più ti sfugge. Lei corre più veloce. Io ho il difetto di non arrendermi.
“Non posso ancora lanciare il render.”
Avrei bisogno di un viaggio. Bello lungo. In qualche posto lontano. Magari mediterraneo.
E’ troppo tempo che non mi nutro di bellezza, non provo meraviglia, non riposo.
Sono stanca.
Stanotte non dormirò. E’ per la zanzara. Continua a ronzarmi nell’orecchio. Mi dà fastidio. E poi faccio reazione allergica alle punture di zanzare.
Bubboni. Me ne spuntano fin nel cervello.
L’ho stordita. Al prossimo colpo l’ammazzo. Sono animalista e pure vegetariana, non farei male ad una mosca. A questa zanzara sì.
Metto su il caffè. Ne assumo in endovena.
Devo studiare. Dovrei. Poco male.
Ho un rigurgito di ansia.
Gli occhi s’intrippano, mi costringo a resistere. Sembro una fattona.
Notte bohemien.
Non intendo struccarmi. Al mio incontro con l’inferno voglio andarci ben conciata.
Corro a vomitare. Sarà che ho bevuto. Aria. E’ l’inquinamento. Air pollution.
Ne approfitto per fare pipì.
“La televisione è una tecnologia di trasmissione delle informazioni, una modalità di organizzazione, declinazione e distribuzione della comunicazione. La televisione ha cambiato il nostro modo di vivere a livello percettivo e neurofisiologico in quanto ha un forte impatto sul nostro processo di condivisione della realtà.”
Non sono disattenta. Non so come propormi.
Non devo propormi. Non è con me che intendi parlare. Più appropriato un estraneo per svuotare le palle.
Non siamo legati, non siamo legati, non siamo legati.
E’ un po’ come con le fate, Peter Pan la sapeva lunga! Basta crederci.
Ora siamo estranei.
Mi parli? Mi dici?
Ho bisogno.
Però. Qualcuno può domandarlo anche a me?
E’ passata una vita dall’ultima volta che un umano ha voluto sapere sestobenesestomale, che giro hanno preso cuore e testa.
Sono alla ricerca di un pozzo vuoto.
Devo svuotarmi le palle.
Due settimane al ciclo.
“Secondo la teorizzazione della scuola di Toronto, la tecnologia è un’estensione della sensorialità umana”
Rettifico.
Voglio dire, l’abbronzatura sta abbandonando la pelle, l’ho notato ieri in doccia. Cioccolato e latte tornano ad uniformarsi e presto sarò nuovamente candida, meglio dire pallida. Auspicabile. Sono fin troppo colorata, emotivamente.
*
Con la gentile concessione E dei miei appunti E di detti propri della mia quotidianità da studentessa.
Sono distante un po’. Causa studio, davvero!
Manca poco alla libertà!
Alla prossima stella in viaggio
agosto 11, 2010
Mood: vagamente produttivo
Listening to: Ligabue – Piccola Stella Senza Cielo
Playing: con Photoshop
Eating: crostata di frutta
Drinking: effettivamente ho sete
Ogni anno, cadono le stelle e con loro il mio mondo un po’ di più.
Scricchiola, si crepa, si sbilancia, frana su se stesso, si riassesta, dinoccolato.
Da qualche anno a questa parte esprimo sempre lo stesso desiderio.
Non va per niente bene.
E’ anche assai patetico.
Alla prossima stella in viaggio, chiederò un trapianto di cervello.