Mood: contento
Reading: un’email dopo l’altra tra quelle per natura in arretrato nella mia casella di posta
Listening to: Anoushka Shankar (ft. Norah Jones) – Traces Of You
Watching: l’autunno alla finestra
Eating: toast
Drinking: frullato di banana




dorotea_pace

Italy, Otranto, Punta dell’Orci, 09 August 2014.
Me, in a picture taken by my dear friend Francesco during a trip to the South End of Italy.

Il 26 giugno scorso, all’imbarco C16 di Schipol già si parlava di mare, di pranzi e di santi Nicola, e per quel che mi riguarda nemmeno mi sentivo pronta a volare. Premesso uno scarso interesse di base per il polpo arricciato, mi domandavo se sarei mai ritornata in Olanda e questo perché mi era chiaro che volevo restare, ma in che modo e a fare cosa senza più un lavoro e senza grandi visioni?, domande del genere figuravano nella mia testa al pari di concetti quali il mistero della fede. Tutto quel che sapevo indugiava nella zona ristretta in un angolo della coscienza illuminato da una spia rossa a intermittenza soltanto: così come ho vissuto fin’ora non fa al caso mio perché non mi soddisfa, ma cosa fa al caso mio e cosa mi soddisfa? Che ci fosse una certa esigenza di ritirarmi a riflettere, era diventato quantomeno evidente e quell’imminente partenza contribuiva a ansimarmi negli occhi una certa impellenza.

Ho trascorso in Italia due mesi di grande precarietà emotiva e territoriale su più piccola scala, ma sempre tenacemente attaccata alla molla principale del mio confino: guardarmi dentro alla ricerca di un qualche sogno sfolgorante rimasto insabbiato nel grigiore confuso di mille visioni iperboliche in totale decadenza prima ancora di iniziare a delineare i famigerati traguardi.
Nonostante quel che potrebbe sembrare, la mia non è mai stata una ricerca rigida, né tanto meno ristretta al suo stesso fine. Per lo più mi sono data l’opportunità di vivere dando spazio a quel di cui sentivo il bisogno, ‘ché io mi chiarifico le idee sperimentando la vita per poi restare a guardare lì da dove mi trovo che effetto fa come con la massa del pane lasciata a lievitare nel forno. Anche se può sembrare difficile da credere, in due mesi, per combinazione, sono andate a succede tantissime cose belle. Se non fosse della mia vita che sto scrivendo, neanch’io crederei che l’Universo intero possa essersi messo a ruotare attorno a me per rendermi un giorno possibile e felice. Ma pare lo faccia, quando attirato dalla più dolce delle disposizioni.

Ho trattenuto il benessere, scandagliandone il fondo per scarnificarlo dalle paure di troppo, ho disgiunto la sfiducia dall’entusiasmo e a un certo punto ho capito di non essere più agitata, ma serena, ho guardato meglio, non si sa mai: ero proprio serena. E ho iniziato a vederci chiaro. Meglio del benessere c’è soltanto il benessere accompagnato dalla serenità perché la serenità ci dispone ad accogliere il benessere e a trattenerlo, a dedicargli tutto il tempo che serve, a maggior ragione quando ne siamo spaventati perché non si riflette nei valori comunemente accettati dalle persone attorno a noi. Con lo zaino gonfio delle mie nuove consapevolezze infangate di determinazione, sono rientrata in Olanda la notte del 28 agosto.

Mi chiedo se la vita non vale la fatica di costruirsi il proprio benessere. Voglio dire, non è stato uno scherzo il giorno in cui mi sono licenziata dall’azienda in cui lavoravo a contratto indeterminabile e sono rimasta disoccupata e con un pugno di spicci, ma con tanta voglia di costruirmi un futuro migliore, non è stato uno scherzo nemmeno il giorno in cui mi sono ritrovata all’improvviso con un amore strano accoccolato tra le braccia. Ma diversamente perché di preciso varrebbe la pena vivere?

Ecco, devo scrivere una cosa, l’ultima per adesso. Tutto questo vagheggiare ha un significato preciso ed è questo: nel corso degli ultimi due mesi, si è fatta calma piatta in questo spazio, ma tendendo l’orecchio nel silenzio dovreste riuscire a sentirlo respirare nudo e crudo, beato e soddisfatto delle storie che in realtà lo ricolmano intimamente già da molte settimane. Presto arriveranno le parole e le immagini a ricoprirlo e allora molto di quello che ho scritto in poche righe disorganiche diventerà chiaro. Ho idea di tornare a condividere quello che è mi successo, un affare di fondamentale importanza qui dentro.

Mood: insicuro
Reading: Bruce Chatwin, Che ci faccio qui?
Listening to: Give A Little Love – Noah And The Whale
Playing: facciamo che io sono il medico e io il paziente
Eating: pastiglie per l’infezione delle corde vocali
Drinking: sciroppo per la tosse



La difficoltà a elaborare concetti è tra le seccature più serie del momento.
Mi fa sentire come fossi in ristagno.
Del resto, non sono così certa di star qui a pensarmi e ripensarmi più di tanto.

Ho capito che per buona parte la mia vita di adesso è gestita dalla paura,
mi ha pietrificata,
mi sta metabolizzando,
paura dei giorni che verranno di quello che hanno da offrirmi di quello che saprò conquistare di quello che voglio, paura che i giorni che verranno si rifiutino o che io mi rifiuti, paura della paura,
succede a tutti credo, in quest’epoca precaria soprattutto.
In onestà, non pensavo sarebbe successo a me che Io quello che voglio ottengo, ma il punto è: adesso cosa voglio punto di domanda in cui ogni paura s’identifica.

Non va bene così. Dovrei essere felice, uno di questi giorni.
Se non altro, lasciare che l’entusiasmo e la curiosità – che pure ci sono, li avverto – si facciano un giro in mezzo alle paure e le alleggeriscano, con una risata perché no? So fin troppo bene che sono la prima responsabile del peso delle mie emozioni e che ogni circostanza muta consistenza passando da un punto di osservazione a un altro.
Ho il sospetto che mi sia venuta meno l’audacia.

Ecco, dovrei tornare a sperimentarmi a mobilitare proprio i punti di osservazione,
magari provare a fare così, provare a fare cosà,
come ballare da sola in camicia bianca sulle note di un canto di protesta latino americano, in punta di piedi e volteggi per le stanze di un appartamento romano tra quadri e colonne di libri e conchiglie giganti, mentre il vento entra dalla finestra e smuove le tende e i petali delle rose rosse sul balcone,

per esempio.

Perché non è affatto nella paura la parte migliore di me.

Mood: teso
Listening to: Crystal Castles – Crimewave
Watching: Pina, di Wim Wenders (per la prima volta in vita mia, dico da vedere in 3d)
Playing: a scaricare la tensione accumulata
Eating: patate bollite e taralli ridotti a farina dal viaggio Bari-Milano
Drinking: acqua



Quando ci racconta di come ruota la vita che (si spera) ci aspetta là fuori, una mia professoressa di regia snocciola le “Regole del Fight Club” che non sono propriamente quelle di Chuck Palahniuk, ma un riadattamento delle suddette al nostro habitat professionale. Forse è inutile specificare che non c’è una sola che non ti metta in bocca un sorriso cinico o amaro, ma a me la dicitura “Regole del Fight Club” piace proprio tanto perché ha intrinseco il valore della lotta e della resistenza sul ring dove l’idea stessa del futuro picchia più di una grandinata non preannunciata. Noi uomini siamo stati abituati male con tutti gli omogenizzati e le pappine pronte che ci hanno propinato da cuccioli. Le bestie invece imparano presto che la ciccia si conquista con le unghie e con i denti, pena la vita.

E quindi ieri in mezzo, in mezzo ai tornanti di un discorso, questa mia professoressa si è girata di scatto verso di me e mi ha concesso il privilegio di una bastonata ‹‹Tu vuoi fare il direttore della fotografia? Emigra.››
Ma cazzo, mi è venuto da obiettare, io voglio fare la direttrice della fotografia, non il direttore, possibile che non mi si riconosca mai il genere femminile?
Esperti del settore sono tutt’ora al lavoro per capire se lei pensasse di sconvolgermi con una rivelazione simile. Io sono una bestia.

Emigrare

È la prima regola del Fight Club. Nel fu Bel Paese le uova marciscono. Se si vuole che si schiudano e che i pennuti crescano e vivano, bisogna svolazzare verso lande più favorevoli.

Del resto, per quanto mi riguarda, non ho mai pensato di restare a vivere nel nido da cui sono sgusciata e mi è venuto spontaneo forzarne da subito i confini per elasticizzarli. Quando le traiettorie migratorie hanno iniziato ad essere le uniche immagini di me che riuscissi a proiettare tanto in là nel futuro, emigrare e vivere “oggi qui, domani lì, dopodomani ancora chissà”, fiutando soltanto l’umanità, era un sogno e l’aspettativa più elevata che potessi coltivare. Non ci ha messo molto a diventare la dinamica essenziale di tutta la mia vita, e-migrare, andare da un luogo ad un altro, ma anche da un’emozione ad un’altra, da uno status quo ad un’altro.

In certi momenti, ho pensato che sarebbe stato massimamente bello nascere su un aereo in volo, originaria di nessun posto in particolare e di tutti insieme. Ebbene, chi l’avrebbe mai detto, guarda il caso birichino!, tra qualche ora sarò concretamente e non solo emotivamente una persona inuncertoqualsenso di nessun posto in particolare. Anche la mia famiglia emigra ufficialmente, mamma e sorella raggiungono papà in Olanda. E qualcosa in me cambia.
Mi sarebbe piaciuto nascere su un aereo, ma sono nata a Sud, in provincia di Bari. Ho bruciato lì i primi diciott’anni della mia vita e, crescendo, ho sfumato la mia patologia e la mia essenza da e-migrante con l’amore e la sofferenza per il nido in cui sono nata. Un tempo sapevo che, per quanto potessi prendere, andare, partire, vivere altrove, di tanto in tanto e ad un certo punto non ben precisato avrei affrontato un viaggio di ritorno al mio vecchio Sud, inteso come luogo degli affetti, ma anche come puro confine geografico. Perché, al di là di qualsiasi poltiglia patetica, lì ci vivevano mamma, papà e sorella e anche il più volatile degli esseri umani, tra un viaggio e un altro torna indietro per baciare la propria famiglia natale.
Tra qualche ora però anche la mia famiglia emigra ufficialmente, si svuotano gli armadi, si stacca l’elettricità, si chiudono le imposte alle finestre della nostra casa e si fa silenzio o quasi perché la vita che ha percorso un luogo difficilmente si stacca dalle sue pareti. E allora faccio il conto delle ore che restano, dodici per approssimazione, e non so bene come districare il groviglio emotivo e celebrale che mi sta dentro, mi stringo nelle spalle perché è come se mi mancasse la terra sotto i piedi. E tra l’esaltazione e l’insicurezza, mi riesce persino di incazzarmi, non avevo previsto che il caso mi fottesse e svoltasse senza ritegno nella direzione delle mie vedute da vita sperimentale, enfatizzandole fino a privarle di quel po’ di nostalgia classicheggiante da ritorno che serbavo nel profondo. Ma soprattutto non avevo previsto che potesse svoltare investendo il mio sogno e l’aspettativa più elevata che potessi coltivare con la forza inderogabile di un’imposizione impartita addirittura a tutta la mia famiglia, ché, non fosse stato per la visita da parte di Madame Disoccupazione e Monsieur Come Cazzo Sbarchiamo il Lunario, mamma e papà sarebbero rimasti volentieri nel nido, e sorella avrebbe a buon diritto preferito rotte più libere ed indipendenti.

Ma bando ai piagnistei e benvenuti al Fight Club, miei amati Signori. Qui si combatte e, come vuole la settimana regola del Fight Club di Chuck Palahniuk, “i combattimenti durano per tutto il tempo necessario.”