Oggi, come di retaggio

marzo 8, 2013

Mood: nostalgico di qualcosa che ancora non ho perso
Reading: David Grossman, Caduto fuori dal tempo
Listening to: Susanne Sundfør – The Silicone Veil
Watching: Vita di Pi, di Ang Lee
Eating: pasta panna, limone e pinoli
Drinking: caffè




dorotea pace | Photography

Lago di Garda, 29 febbraio 2013. Da una macchina in corsa.

Eppure,
ce ne sarebbero di altri colori se smettessi – adesso, basta, smettila adesso! – di attingere al nero, quello enorme che tanto tempo fa ho sottomesso e ristretto in un puntino che poi talvolta si mette a pulsare all’improvviso, in mezzo alle viscere, come se pretendesse di espandersi e dominarmi ancora.

Che ha a che fare la mia vita di oggi con le angosce di retaggio?

Forse, l’insicurezza,
il senso di piccolezza ai crocevia,



non dirmelo, l’ho scritto davvero,
è accaduto davvero,
proprio io, proprio a me.

Mood: entusiasta
Reading: David Grossman, Caduto fuori dal tempo
Listening to: Pag – The lady is dead
Watching: il calendario degli eventi milanesi
Eating: pasta impegnata, difficile da digerire
Drinking: te



# mesi prima

“La luce, che è il campo di analisi di questa mia tesi, bisogna concepirla come qualcosa che inizia attraversando a gran velocità lo spazio fisico e il nostro sguardo e finisce negli interstizi della nostra ossatura emozionale e culturale, rimodellandola con sfumature di diversa intensità che conferiscono sempre un registro emotivo [variabile] a una [stessa] situazione o a uno [stesso] ambiente. Per esempio, il pezzetto di Milano che intravedo nella cornice della mia finestra al sesto piano di un palazzo di Viale Romolo, quest’oggi, mi fa sentire fiduciosa. La luce avvolge in un solo abbraccio arancione i nuovi edifici del quartiere Isola e le montagne all’orizzonte, ammorbidisce le ombre e esalta le cromie del paesaggio, neanche si direbbe che il termometro segna zero gradi. Ma ieri, quando su questo stesso pezzetto di Milano gravava una luce bianco lama e non c’era luminosità e non c’erano ombre e neanche un colore, ieri ero certa di non avere un solo motivo per sognare. Fotone, dopo fotone, ombra dopo luce e luce dopo ombra, le mie emozioni si eccitano e si architettano.”

[dall’Introduzione della mia tesi,
«Qualcosa intorno alla luce». Oscillazioni costitutive di uno sguardo]

# il giorno prima

Sempre a proposito di cose che ho scritto,
La luce è nel modo in cui la si utilizza attraverso il merdium”. Sì, ho scritto proprio così nella copia della mia tesi agli atti, pagina 55. Più che refuso, lo definirei lapsus. Froid mi stringerebbe la mano.
A ogni modo, scoprirlo il giorno prima della discussione ha su di me poteri analgesici.
Qui, a PaRecchia, ogni transito dalla condizione di studente a quella di disoccupato è stato benedetto da un casuale, ma molto concreto tuffo nella merda,
al primo, qualcuno si è inavvertitamente steso nel letame di un canneto per atteggiarsi a fotografo d’assalto,
al secondo, qualcun’altro ha vacillato sotto i colpi della dissenteria, al punto che «Diarrea?» è diventata la parola d’ordine per qualiasi movimento troppo sospetto sulla sedia, arrivando a sostituire il «Buongiorno».
In questo caso, il tuffo nella merda è molto meno fisico, ma è risaputo che si trova l’illuminazione là dove la si vuole riconoscere. Per me una buona parte è nel “merdium”.

# il giorno stesso, il 27 febbraio

«Sono soddisfatta» e «Sono felice»,
dovrei riuscire a dirlo, forse anche più e più volte, ma non vorrei che mai qualcosa cominciasse a sembrare superflua, fosse anche solo una porzione infinitesimale degli abbracci, dei chilometri affrontati dalle persone che amo per esserci – qualcuno persino a sorpresa –, delle emozioni, delle reazioni dentro e fuori la sala, degli entusiasmi, delle strette di mano estranee, delle personali rivincite dialettiche, del mio lavoro, della fatica che mi è costato
arrivare a dire «Sono soddisfatta» e «Sono felice»,
essere soddisfatta, essere felice.

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«Stappo lo spumante», invece,
l’ho detto più e più volte, da procedura. Me l’ero studiata, prevedendo di dover rispondere a necessarie domande sul futuro, dopo l’incoronazione con l’alloro.
Effettivamente, stappare lo spumante è senza dubbio il futuro più sicuro in cui un neolaureato possa avere fiducia. A breve termine, ma pur sempre futuro.

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# i giorni dopo

In verità, a proposito del futuro a lungo termine, non è che ci sia mai stato anche soltanto il sentore del famigerato nulla post-laurea. Qualche ora dopo aver stappato lo spumante [ma nella testa, da molto prima], mi sono immersa tra le rifiniture degli ultimi due video sui quali ho lavorato negli ultimi mesi – tra i due c’è anche quello col quale mi sono laureata, ebbene sì –, una decina di altri progetti nel cassetto, millemila lettere motivazionali in giro per il mondo, un paio di lavoretti spettacolanti e qualche incontro di autopromozione dove conoscere quello o quell’altro, la ricerca di quattro o cinque impieghi saltuari e salutari [possibilmente collaterali, se non proprio sconnessi], un trasloco con meta ballerina, centinaia di itinerari lungo l’Italia e l’Europa, qualche progetto oltreoceano, dozzine di idee, di sogni e bisogni, stimoli, cose che voglio fare, ascoltare, vedere, imparare, sbucano da ovunque, tutte disparate e tutte entusiasmanti, si accalcano contro le pareti del cervello senza mai darmi un momento di pausa, tant’è che il dek del mio Mac non ha smesso di essere afflitto dai post-it colorati e dai calendari!
Ebbene,
qui la questione non è cercare qualcosa da fare nel futuro prossimo, è piuttosto focalizzare un certo numero di priorità.
E io che sono per natura affetta da processi di metabolismo molto lenti, quasi certamente, al momento, più di qualsiasi altra cosa necessito di tempo per vivermi in profondità il presente.

Milano sotto la neve

dicembre 17, 2012

Mood: fiducioso
Listening to: Soley – Pretty face
Watching: Cosmopolis di David Cronenberg
Eating: aria fredda
Drinking: te miele e camomilla



Ho imparato a non confondere mai i luoghi come li percepisco per i luoghi così come sono perché so benissimo che, quando circolano attraverso le mie emozioni, diventano sempre posti vaghi. Questo è un presupposto fondamentale.


dorotea_pace_photography
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Ecco, per la prima volta, Milano non mi sembra un esilio.
Di solito sì.
Milano sotto la neve.
Provo invece un estremo senso di levità e mi emoziono per un sacco di cose al punto che potrei piangere su ognuna di loro. Spesso sono macerie. Per esempio, mi chiedo, guardandole, esattamente cosa c’è di così orrendo nelle rovine se sono state necessarie a rendere possibile quanto di più bello ho conquistato dopo aver perso tutto quello che avevo prima di perdere tutto?
Milano sotto la neve.
Le macerie uno strato sotto i miei piedi.
Io al di sopra, che passo. Piano.

Si capisce, ho incrociato tutto quello che avevo prima di perdere tutto e, per la prima volta, l’idea di non poterlo avere mai più non è stata desolante. Tutt’altro. Mi ha consolata.

Ottobre 2012, «E dopo?»

ottobre 27, 2012

Mood: sereneggiante
Reading: Paola Bressan, Il colore della luna
Listening to: Bonobo – Noctuary
Watching: Nuovomondo di Emanuele Crialese
Eating: latte e biscotti
Drinking: caffè



Questo ottobre 2012 è un mese inequivocabilmente degno di nota nella mia vita. Per la prima volta in ventitré anni, l’inizio di un nuovo anno accademico non mi ha trascinata di fronte a una qualche cattedra con congruo professorone in tale eccelsissima scienza – senza sottigliare sul fatto che quando ero al liceo dovevo rientrare in aula il primo lunedì di settembre, quando, a Sud dove sono cresciuta, tutto il resto dell’umanità se ne sta ancora abbarbicato sugli scogli per sfuggire alla bollitura a secco e mai nessun istituto si sognerebbe di aprire le porte di quella che sarà certamente una fornace, nessuno tranne il mio che era speciale e aveva anche le reti di sicurezza alle finestre.
Ritornando indietro di qualche riga, fino a prima dell’inciso, e riprendendo le fila del discorso, si tratta di una cosa che letteralmente deforma il tempo di ogni giorno per come ero abituata a viverlo e questo un po’ mi confonde, ma per lo più mi sconfinfera perché adesso, senza darmi alla nullafacenza, né sollazzarmi oltre misura, finalmente posso starmene con i muscoli di qualche centimetro più distesi e persino concedermi un diletto di tanto, in tanto.
Facendo i conti in rapidità, a oggi mi trovo a un esame, una tesi e una dissertazione di distanza dal mio brillante foglio di carta da incorniciare nello studio che mai avrò. A febbraio avrò azzerato anche questi numeri,

«E dopo?»
«Dopo arriverà», rispondo generalmente.

Ebbene, la mia potrebbe definirsi una crisi communis da laureando in merito alla quale non c’è bisogno di aggiungere alcunché. Effettivamente ci sono giorni che mai come adesso mi sono sentita tanto uguale a tutti gli altri.
In realtà io, se mi metto la testa alla rovescia, chiunque potrebbe vedere che non è vuota, ma che è frullata ininterrottamente da un gran numero di idee tutte di prima classe, desiderabili e persino attuabili, ma tutte intrugliate con un numero superiore di eventualità, cause e effetti precisabili da me, dagli altri, dalle situazioni, dal caso, cioè da tante cose che – chiunque converrà con me – variano di giorno, in giorno, e sulle quali non si può fare affidamento quando si tratta di prevederne gli esiti. Un matematico definirebbe questa condizione “sistema complesso”, se fosse più pignolo “sistema caotico”.
Del resto io, se mi metto a pensare al dopo, mi distraggo subito perché non voglio fare come chi se ne va lontano dal presente a causa di un’attrazione superiore per il futuro che, invece, io dico, si riempirà delle cose che saranno passate sicché adesso mi limito – se di limitazione si può parlare, senza farmi torto – a vivere al meglio che posso tutto quello che mi circonda, “sistema complesso” incluso.


Accordo però che, tra gli elementi che mi rimescolano il cervello, il più frequentemente a galla è esodo

1 // da me che, determinata come sono nell’inseguire quello che voglio e abituata a superare ogni momento di crisi, non ho voluto riconoscere di essermi ridotta con i nervi a pezzi nell’ultimo anno, errore mai tanto grande perché adesso l’unica cosa che mi va a fagiolo è stare appesa a testa in giù dal ramo di un albero mentre il mondo fa avanti e dietro e io lo interiorizzo per alimentare il mio genio ammutolito.

2 // da uno Stato che, miseria di offerta di lavoro a parte – a maggior ragione per eretiche come me che osano pensare di poter svolgere una professione di appannaggio maschile –, ma non del tutto, si arricchisce di “puttanieri, faccendieri e tragattini”, demolisce continuamente i diritti fondamentali dell’essere umano in virtù di una legge tutt’altro che laica, millanta un ideale di democrazia che non bacia la realtà tanto più perché è vuoto fin dalle origini dei concetti di cittadino e di popolo sicché tutti l’importante è il mio piatto di pasta due volte al dì, per quello si può scendere in piazza, fottere e ammazzare, ma del bene comune, dello Stato sociale – quei famosi – chissenefrega, e quali virtù, quali beni può trasmettere tutto questo al piccolo figlio – che forse mai avrò – quando dovrà insegnargli a stare al mondo, quale serenità a me che non mi ci riconosco e che me ne vergogno? Dicono che ho il dovere di essere arrabbiata e giuro, lo sono. Fino a qualche anno fa, sarei anche stata nelle schiere di chi resta a dare capocciate contro i muri, guadagnando infine [con tempi da olocene] piccole crepe interstiziali – tanta stima a riguardo –. Ma onestamente io, non che abbia mai affinato un forte sentimento di italianità e questo scombussola un po’ i fatti: oggi andrei via perché vedo mancare le condizioni per restare o forse semplicemente perché oggi sono geneticamente italiana più di qualche anno fa e voglio interessarmi di me soltanto e non dell’Italia.

Fra l’altro, prima o poi, dovrà arrivare il momento in cui fare per davvero i conti con la mia irrequietezza che tanto mi spinge a vagabondare, tanto mi tormenta – talvolta morbosamente – con la ricerca delle radici.

Mood: inquieto
Reading: Ercole Visconti, Parole illuminanti
Listening to (but also watching): Smammas
Watching: True Romance – Citizen!
Eating: pane e nutella
Drinking: latte (oggi sono in ritardo)



Oggi, nove ottobre duemiladodici, sembrerebbe che tu non sia mai passato nella mia vita.

Non fosse che hai dimenticato nel cassetto del comò accanto al letto un paio di calzini sformati coi talloni consunti,
che io sto usando per abbracciare il piede malato, quello sul quale ieri sono rovinata, il sinistro,

fatto assai brigante, sfacciato, infame,
mi ragguaglia su quanto [mi] manchi [e sarebbe meglio di no] oggi che proprio sembrerebbe tu non sia mai passato nella mia vita [la stessa che, a volte, costringo in esilio da te per istinto di autoconservazione],

su quel che tu (eri), io (ero) e tu e io (eravamo), ]
mentre quel che siamo è un paio di calzini sformati coi talloni consunti dimenticati [ .

Firma il mio amore problematico problematizzato

Mood: teso
Reading: stupide carte di metodologia di design, ma che frega a me?
Listening and watching: l’arrivo del temporale
Eating: poco
Drinking: tea chai



Mi sono strappata di dosso l’universo che mi ero appiccicata alle ossa, ago e filo,

ho scoperto in stadio avanzato un buco nero emozionale,
– roba da strozza-fiato lacrime a singhiozzo –
l’ho srotolato nel vento.

Adesso ballonzolo nuda a mezz’aria, con uno scafandro gigantesco sulla testa tra milioni di possibilità accese tutt’attorno a fulcri bollenti di necessità in evasione da Sottocontrollo,

prima o poi doveva succedere

Ogni tanto ci sta,
ballonzolare a mezz’aria e niente di più,
è fuori questione una guerra a breve termine per la conquista di scampoli di suoli e materia stellare da addobbo,
ballonzolo a mezz’aria e niente di più,
mi serve per s-gravitare la testa,

Dai fogli di bordo, nodi della crisi

il giorno in cui la mia fantasia ha defezionato
il giorno in cui una bufera spazio temporale mi ha trascinata in un universo lontano (tantissimo) di cose ancora da scoprire
il giorni in cui i cavi comunicazionali con un paio di universi vicini (tantissimo) sono saltati
il giorno in cui ho riconosciuto di essere affetta da una forma gravissima di loco-patia
il giorno in cui ho scoperto che allora l’avvicinarsi della chiusura di un ciclo mi fa paura
i giorni in cui ho desiderato [e anche quelli in cui ho sfiorato]

prima o poi.

Mood: instabile
Reading: Jonathan Safran Foer, Ogni cosa è illuminata
Listening to: The Platters – Only You
Watching: il temporale
Playing: a ungermi di cortisone dopo che uno stuolo di zanzare ha fatto strage di me
Eating: melone
Drinking: acqua



“Questa sera vado a letto desideroso di frugare nel cestino della passione, fra i ricordi e i sogni. Voglio vedere cosa resta del mio vecchio cuore, quello con cui mi sono innomorato.”

[Mathias Malzieu, La meccanica del cuore]


Qualche pezzetto ne è rimasto sotto il cuscino insieme a tutte le cose preziose che ci nascondo fin da quando ero minuscola un pollice e credevo che nel torpore tutte le cose preziose nascoste sotto il cuscino parlassero ai miei sogni li persuadessero a non turbarmi e da allora negli anni il mucchietto è cresciuto ha assunto una morfologia assai consistente e dinoccolata al punto che quando ci appoggio sopra la testa devo farlo con leggerezza per non frantumare o riattizzare alcunché.
Quelle volte in cui succede che sono maldestra, i pezzetti del mio vecchio cuore si mettono a cigolare un sacco a perdere ruggine pieni come sono di condotti di sutura raffazzonati alla meglio più che di capillari ostruiti e rinsecchiti, a farmi male a piantarmi nel petto gli antichi lamenti d’amore di chi tanto amando tanto senza confini noti è rimasto in attesa di una meta che non era stata prevista e implora perdono per aver tollerato di essere ridotto a sussulti e stanchezza dopo aver barattato le corde per vociare un usuale impersonale – così sembrava – e per tradizione sereno ti amo, mi manchi, voglio baciarti con le congetture magnifiche di una nuova forma essenziale scolpita a tutto tondo da rare straordinarie e per tradizione tempestose emozioni, quindi tanto meglio se faccio attenzione.
Mai avrei pensato che a causa dell’infelicità un cuore potesse consumarsi per sempre perdendo un pezzo dietro l’altro e restare in briciole nella conca dell’anca destra senza far dolore prima o poi mi riesce di rimetterlo insieme pensavo, ma dopo tanto rigirarmi per tutto il mondo tra bonzi e stregoni non ho trovato un solo pezzo di ricambio per il mio vecchio cuore vecchia scuola finito fuori serie da qualche anno, nessuna diavoleria avrebbe potuto aggiustarlo.
Perciò ho raccolto qualche pezzetto tra i più grossi rimasti del mio vecchio cuore nella conca dell’anca destra e li ho nascosti sotto il cuscino, quel po’ che restava l’ho soffiato in polvere al vento che ne avesse un po’ d’amore. Nella cava ormai vuota del mio petto ho ficcato un cuore nuovo di fiamma conquistato dopo mille fatiche in fondo a un imbuto, ho allacciato per bene vene e arterie e l’ho azionato.
Il mio nuovo cuore è un prodigio, ha una capienza esagerata dentro un assetto ben saldo e compatto ma estremamente leggero e flessibile sicché mentre pulsa tutto euforico e impaziente i flussi e i deflussi della vita intera vanno avanti e dietro avantiedietro senza che mai la sacca si svuoti o si ingombri, entrano in circolo e con quale fierezza il mio nuovo cuore mi insegna che la vita intera si percepisce nella misura di quello che si decide di accogliere abbracciare incanalare tra possibilità e pesi in atto, con quanta diplomazia svolta malumori in buonumori, eppure
Io col mio nuovo cuore non mi sono ancora mai innamorata. Sembra quasi non ne abbia bisogno tanto è sicuro di se stesso e pago del suo connubio con la vita intera, il mio nuovo cuore si direbbe innamorato del modo in cui ama.
Allora ogni tanto prima di addormentarmi sollevo il cuscino sotto il quale nascondo tutte le cose preziose fin da quando ero minuscola un pollice e rovisto tra i pezzetti rimasti del mio vecchio cuore, del mondo che rappresentava che avevo dove stavo e che non esiste più, resto un po’ in ascolto dei cigolii come della nenia scordata di un carillon di quelli con la ballerina dagli arti sottili che si gira attorno in punta di piede per meccanica reiterazione senz’anima,
poi tutti i pezzetti rimasti del mio vecchio cuore li nascondo di nuovo sotto il cuscino tra le altre cose preziose e vado via per il mondo ‘ché c’è ancora tutto da fare e più che del mio vecchio cuore col quale mi sono innamorata, più che del mondo che rappresentava che avevo dove stavo e che non esiste più non voglio più, io ho bisogno di sentire le emozioni vivide ed espanse di quando sono innamorata. E io col mio nuovo cuore non mi sono ancora mai innamorata,

ho bisogno di pensare che posso ancora innamorarmi che a irrigidirmi non è la paura del mio vecchio cuore in polvere e pezzetti, quello con cui mi sono innamorata.
Che con tutti i flussi e i deflussi della vita intera che fa andare avanti e dietro avantiedietro entrare in circolo prima o poi il mio nuovo cuore, quello con cui non mi sono ancora mai innamorata, busserà al petto e mi dirà ci siamo innamorati.

[2 luglio, non a caso]



***

Comunque sulle pagine de La meccanica del cuore di Mathias Malzieu ho pianto senza risparmiare lacrime ‘ché tanto sulle lacrime la crisi mondiale non prevede tagli. L’ultimo libro che era riuscito a coinvolgermi a tal punto è stato Che tu sia per me il coltello di David Grossman. È successo quasi quattro anni fa ormai, avevo ancora il mio vecchio cuore. In verità, sulle pagine de La meccanica del cuore ho pianto senza risparmiare lacrime per la prima volta da quando ho il mio nuovo cuore.
Insomma, tanto per fare un po’ di vendita promozionale che in certi casi è doverosa.

Dyonisus è il gruppo di cui Mathias Malzieu è frontman e cantante solista. La mécanique du cœur è il disco con il quale mettono in musica l’immaginario del libro.

Io prima di venire in fiore

gennaio 29, 2012

Mood: stranito
Reading: Aldo Nove, Amore mio infinito
Listening to: i racconti della settimana di Yanna
Watching: Happy family di Gabriele Salvatores
Eating: mandarini
Drinking: acqua finalmente



Io gli stivali vecchi tre anni con cui ho calpestato tanti suoli da averne perso il conto li ho abbandonati nella spazzatura prima di partire di nuovo per Milano. Io mi è sembrato di guardarli guardarmi con malinconia tra le bucce e le carte unte nella spazzatura, ma ho distolto lo sguardo e ho indossato un paio di stivali nuovo fiamma. Io il sacco a pelo l’ho attaccato allo zaino e sono uscita dalla casa in cui sono nata con la sensazione di star partendo non soltanto per Milano, piuttosto per un viaggio molto lungo molto importante, di non avere più motivo per tornare per guardarmi indietro.
Io la terra in cui sono nata ormai sfugge nella cornice dei finestrini dell’ennesimo Frecciabianca Bari-Milano, si straccia per non sottomettersi alle distanze che aumentano di secondo in secondo in secondo insecondo insecondo insecondoinsecondo i n s e c o n d o
– tu-tum tu-tum tu-tum shhh tu-tum tu-tum tu-tum – ho scelto il treno per un saluto tutto stile e già si avvicina il crepuscolo, cieli con un volume così sono solo sulla terra in cui sono nata, di qua

Io questa volta per la prima volta andare via proprio non mi riesce col passo leggero

e non per le scosse del terremoto a Milano, non per l’idiosincrasia da ritorno qualunque a Milano.
Piuttosto per
Io in questa settimana veloce ho sentito il rumore sordo del mio cuore nel vuoto che è il vuoto lasciato da mia nonna che è morta, il vuoto che è la percezione di tutto lo spazio fisico che non occuperà mai più, di tutti gli oggetti che non sfiorerà mai più, perché l’hanno chiusa dentro una tomba dentro un loculo con una foto da diva anni quaranta su di un cielo con cirri e di lì non tornerà mai alla terra mai al ciclo vitale mai pioggia mai vento mai sulla mia pelle e lei mi manca tanto, a volte se si trattengono le lacrime troppo a lungo finisce che scoppia a testa, io mi scoppia la testa.
Io in questa settimana veloce a furia di sentire il rumore sordo del mio cuore nel vuoto che è il vuoto lasciato da mia nonna che è morta, il vuoto che è la percezione di tutto lo spazio fisico che mia nonna non occuperà mai più, di tutti gli oggetti che non sfiorerà mai più, ho finito per sentire anche il rumore sordo del mio cuore nel vuoto che è la percezione di tutto lo spazio fisico che io non occuperò mai più, di tutti gli oggetti che non sfiorerò mai più e che con questa partenza lascio nella terra in cui sono nata che ormai sfugge nella cornice dei finestrini dell’ennesimo Frecciabianca Bari-Milano.
Io questa volta
il divano, il tavolo della cucina, la libreria, gli album per le fotografie, la candela al sandalo, la tomba di mia nonna che è morta, il pianoforte, le strade di campagna, l’abbraccio di un amico, la stazione di Castellana Grotte, la stazione di Conversano, la stazione di Rutigliano, la stazione di Triggiano, il lungomare di Bari, (eccetera)
mi sono commossa
Io questa volta
i luoghi e gli oggetti che raccontano la storia di come io ero prima di conciliarmi con io come ero, prima di diventare donna, prima di diventare adulta, prima di diventare consapevole del mio peso e del mio spazio, prima di capire che l’amore non basta, prima che mia nonna che è morta morisse, prima di attaccare il sacco a pelo allo zaino, prima di imparare a lasciar andare e a lasciarmi andare, prima ancora di tanti eventi che hanno stravolto io come ero
Io questa volta volevo mi inghiottissero mi assimilassero nelle loro viscere per riempire il vuoto che è la percezione di tutto lo spazio fisico che io non occuperò mai più, di tutti gli oggetti che non sfiorerò mai più,
di tutte le emozioni che ho tanto amato, di tutte le emozioni che non

Io mi sembra molto assurdo non capisco cosa mi stia succedendo eppure è tutto molto chiaro e sta capitando adesso a me è capitato a chiunque di
cambiare vedere tutto cambiare, io come ero la vita come era come avrei voluto che fosse
non avere più motivo per tornare per guardarsi indietro
– l’horror vacui –

Io la morte di mia nonna che è morta mi ha reso poetessa
E venne col crepuscolo il cremisi
in fiore

ho scritto perché guardando mia nonna che è morta tutta disarticolata dalla vita ho pensato che io anche voglio morire tutta torta e bruciata dalla vita, non composta come fossi rimasta ferma in poltrona, come avessi consumato il mio tempo prendendo un treno un aereo un passaggio perché e dopo averne persi già altri due altri tre, ho pensato che io anche è giunta l’ora di chiudere dentro una tomba dentro un loculo io come ero e venire in fiore è un giorno importante abbastanza per la mia vita, ma

Io prima di venire in fiore, prima di tutto l’ignoto che arriverà prolungando le radici in ogni direzione sotto la spinta del cuore che freme impazza si arrampica, io a volte la malinconia lascio che mi scavi e per una volta ancora mi affaccio sullo strapiombo di io come ero, di tutte le cose come erano e che di secondo in secondo in secondo insecondo insecondo insecondoinsecondo i n s e c o n d o diventano più lontane.


Io prima di venire in fiore.


(Bari-Milano, treno)




Mood: rintonito
Reading: Quando si perde l’occasione di tacere, un minuto di silenzio, no, di più, molto di più.
Listening to: Coldplay – Every Teardrop Is A Waterfall
Watching: le pareti troppo spoglie di questa casa
Playing: a cacciare insetti indesiderati ed indesiderabili
Eating: Tuc donatimi da Zulio prima di balzare sull’ennesimo treno, in alternativa acqua salata con la forchetta, ovvero la gioia di tornare a casa a Milano per una giornata appena, sapendo vuota tanto la dispensa, quanto il portafogli
Drinking: acqua naturale



Se di nuovo mi diletto a vagabondare senza mai predefinire con troppo anticipo il momento di uno spostamento, tirandomi dietro una valigia riempita senza criterio un pomeriggio d’inizio mese, all’improvviso e da allora mai svuotata in un armadio qualsiasi, foss’anche quello della mia casa materna, è a causa di una sensazione di disagio ed irrequietezza tanto violenta da diventare nausea fisica, che mi riconduce a star bene in tanti luoghi piuttosto che in uno solo, cogliendo di ognuno le visioni e gli umori, ma andando via prima di anche solo correre il rischio di vederlo sfiorire giorno dopo giorno, fors’anche di vederne schiudersi le gemme. Non solo. Ci sono una manciata di momenti ben localizzati nella mia vita ultima, a partire dai quali ogni risveglio ha iniziato ad agitarsi nell’urgenza spasmodica di vivere e vivere per intero, di circoscrivere in un angolo soffice del cuore tutto quanto fin’ora è stato ed ho amato e tutt’ora amo di più, ma che in un modo o nell’altro, per un motivo o per l’altro mi ha frenato il passo, mentre la vita mi passava sotto il naso più e più volte ed io la lasciavo andare. Circoscrivere in un angolo soffice, che non significa chiudere gli occhi e rinnegare un’importanza o cercare di dimenticare, non è nei miei tentativi, né mai sarebbe impresa possibile, piuttosto ridimensionare sullo sfondo eventi e figure in primissimo piano con cui ancora fatico a fare i conti, quindi portare dentro ed andare avanti, lasciando che il tempo muti lo sguardo ed il sentimento per poter esserci ancora, ma libera da ansie o aspettative folli, ho bisogno di ciò che amo, ma non voglio più aver bisogno di ciò che non posso avere così come lo vorrei, è pura insania. Prendo le distanze da tutto quanto fin’ora è stato ed ho amato e tutt’ora amo di più per curiosità e speranza e fiducia di ciò che ancora deve venire perché c’è sempre qualcosa che è ancora a venire, sempre qualcosa che ancora non s’è fatto e visto e ascoltato e assaggiato e toccato e odorato o semplicemente non a sufficienza, l’uomo che seduto per terra canta per sé soltanto e per la notte accompagnandosi con la chitarra, la malia del bucato appena steso ad asciugare e delle creme da corpo lungo le calli, l’immobilità di una mendicante nel tramestio dei turisti, la malinconia di un vaporetto a festa finita, certa musica in una terrazza sospesa sull’acqua come lingua languida, l’ebbrezza nella pioggia e nel vento forte che scompone la carne, il respiro della montagna, le cartografie luminose a valle quando cala la notte, la grappa al liquore, l’albero solitario negli ultimi accenni del tramonto, le vibrazioni dell’aria all’avvicinarsi della tempesta, la tazza di caffè bollente come un focolare, la coppa di un fiore che si scompone ansimante quando un’ape vi si immerge, la confidenzialità di certe discussioni, il rifugio con il camino acceso, i canti degli alpini che dal fronte vogliono volare dalla loro bella, la curiosità di un bambino nei confronti di una bambina che lo ignora, la crostata di more e mirtilli, il silenzio carico di emozioni prima del lancio di un parapendista e lo schiocco del vento che gonfia la tela, la vacca che allatta il suo vitello e lo protegge da sguardi indiscreti, il ragazzo che da me non vuole nient’altro che potermi aiutare con la valigia più grande di me all’uscita della metro, certe parole nella posta privata di feisbùck, nel dettaglio più insignificante, che sia per caso o per intenzione, ci può essere la comunione di più intimità, l’amore quel pluricitato, in verità l’amore è sempre laddove si è pronti a riconoscerlo. Quanto siamo banali, noi uomini, tutti bisognosi d’amore!, ci spingiamo a cercarlo per miglia e miglia perché ce lo immaginano immenso e brillante come una Via Lattea, l’amore, e non siamo capaci di renderci conto di quanto ci stia vicino, ché lui, l’amore voglio dire, sta nelle cose immensamente piccole di ogni giorno, e mentre così ciechi scalpitiamo e ci dimeniamo come tartarughe obese in un acquario troppo piccolo, ci inaridiamo, un pertugio di cuore oggi alla rabbia, uno domani al rancore, cesellati ed articolati ad arte attorno ad un tavolino mentale esclusivo. Ci inaridiamo per amore, noi uomini, grandissimi imbecilli che non siamo altro, capaci di scappare davanti all’amore! Eppure, ho l’impressione che tutto quello per cui vale la pena viversi questa vita sia proprio l’amore per quello che è perché non c’è viaggio più breve della vita per consumarlo in cantina.

Ammetto che è stato un fiotto di rabbia a lacerarmi senza troppi preavvisi da tutto quanto fin’ora è stato ed ho amato e tutt’ora amo di più, ma nella mia rabbia c’era e rimane tutta la nenia disperata dell’amore vissuto e sognato e negato e semplice e articolato e delicato e violento e fraterno e passionale e via così.
Perciò in questa scarpinata sulla distanza, tocca fare i conti non solo col desiderio di allontanarmi ed allontanare da me per guadagnare terreno sulle possibilità della vita, ma anche col dolore che procura allontanarmi ed allontanare da me. Penso che sarebbe bello al massimo se ad accompagnarmi ci fossero solo la consapevolezza di una necessità propulsiva improrogabile e indiscutibile e la curiosità e la speranza, ma un passaggio così lineare tra i giorni non potrebbe mai essere il mio perché di me fanno parte il conflitto e la complicazione, motivo per cui mi affatico, trascinandomi dietro un nugolo recalcitrante di ossessioni che mi richiamano indietro, gli odori in primis, che sempre io avverto troppo saturi ed allego ad immagini e suoni e sensazioni, gli odori nel tempo, riconosciuti per strada e riscoperti intrappolati tra le pieghe dei vestiti e negli angoli delle case che appena s’inviano su per il naso arrivano dritti al cuore e lo intasano, spezzando il rosario di pietra incandescente che custodisco all’interno e rovesciandone tutti i grani sottopelle, tum tum tumtum tumtumtum, sbam!, il terrore puro e asfissiante, acquattato nei sogni di ogni notte e sempre più ingestibile, che qualcosa o qualcuno faccia male ancora a chi più amo, secondo l’interpretazione dei sogni dovrei lasciar che nel sonno succeda tutto il peggio, finanche la morte, perché questo significherebbe la capacità conquistata di accettare una rinascita reale, evidentemente io ne sono ancora nuda, di contro ogni volta che salgo in una macchina l’immagine costante di un incidente stradale, lontana da tutto e tutti e a mani vuote e senza voce perché non avrò saputo raccontarmi.
Senza voce.
Senza voce…

Rifletto su quanto la mia esuberanza possa essere anche una talentuosa apparenza in cui si inabissa una delicata propensione implosiva. Ho imparato da subito a non temere il silenzio, a camminarci attraverso, senza l’affanno di riempirlo oltremodo ed inutilmente di parole e musica. Nel silenzio sento la vita in espansione ed è una sensazione essenziale e quasi misterica, come se vivessi tante vite in una sola, io esisto, esito e voglio esistere sempre di più perché in me l’esistenza racchiude una potenza febbrile che non coincide con la felicità e la leggerezza che sento spesso mancarmi, ma che le contiene entrambe assieme al dolore, l’esistenza non manca di nulla.
Tuttavia, in questa conchiglia che raccoglie tutte le armonie, spesso il silenzio, incapace di aprirsi una sola bocca verso l’esterno e da quello farsi ascoltare quando dovrei parlare e urlare e cantare, implode in se stesso con un boato sordo e si travalica per divenire vuoto senz’aria. Allora per far stare in piedi la struttura, riempio il sacco come posso, come meglio mi riesce, suonando una partitura sempre più caotica ed intima. Ecco, a volte temo soltanto che, a lungo andare, la mia partitura diventi sempre meno accordabile a quella di qualcun’altro.
Per questo scrivo costantemente, è il mio tentativo di non nascondermi, tanto agli altri, quanto a me stessa perché di tanto in tanto torno a leggere e nello scarto tra chi ero e chi sono scopro un qualche cambiamento che poi è indice di un cammino perpetrato e questo, intendo la scoperta di compiere dei passi, anche se irregolari, in avanti quando invece mi sembrava che tutto fosse immobile, questo mi rende più forte.

Oggi avverto l’avanzata concretamente e quotidianamente nel mutare del corpo e dei pensieri, certamente è una tale rapidità a darmi tutte insieme le vertigini calde e gelide che tanto mi spossano. È una partita all’equilibrio tra i tempi e le emozioni ed i desideri che ho messo in movimento e ormai sono diventati inarrestabili, a meno di non ritrovare la loro adeguata dimensione. Che fare, allora, se non avanzare? Dopotutto il sentimento della vita ha in me lo stesso effetto incalzante che avrebbe un peperoncino infilato su per il deretano!

Mood: in rapido recupero (a te, grazie, perché ci sei)
Reading: Reif Larsen, Le mappe dei miei sogni
Listening to: Kings of Leon – Cold Desert
30 Seconds to Mars – This is War
Eating: ciò che avanza nel frigo e va consumato
Drinking: tanta, tanta acqua, ho abbondato col peperoncino



Casa. Trolley e/o valigia. Stradastradastrada. Aereoporto. Check-in, al bisogno. Imbarco. Aereo. Posto xx. Decollo. Atterraggio. Sbarco. Recupero bagagli, al bisogno. Stradastradastrada. Casa. Sempre trolley e/o valigia.
Negli ultimi anni lo spostamento è diventato una costante della mia vita, talvolta percorro lunghe distanze anche più di una volta nel giro di una settimana, tutto d’un fiato o a tratti. Mi guardo nelle porte a scorrimento di un’aereoporto o di una stazione e riconosco in me la giovane viaggiatrice che ho sempre sognato di essere, con la valigia fatta all’ultimo secondo, povera di vestiti e carica di emozioni tutte stropicciate.


Domani parto per Amsterdam, raggiungo papà e mamma e sorella. Disastri meteorologici permettendo e ritardi secolari.
Intanto galleggio nel disordine che sempre comporta il tentativo di costringere la mia vita dentro una valigia in una sintesi striminzita e costantemente imperfetta, prima di lasciare un posto per un altro.
Mucchietti di vestiti, quelli da portare, quelli da lasciare e gli ultimi panni stesi ad asciugare per tutta la casa, sui mobili e sui termosifoni. Pile di libri e pile di fogli, quelli da portare, quelli da lasciare e penne e matite sparse sul suolo e tra le lenzuola. Collane di musica e canzoni, quelle da portare, quelle da lasciare e macchine fotografiche e rullini e schede di memoria e via così.
Di fronte alla valigia, il mio è un disordine tanto concreto quanto emotivo, ha molto a che fare con l’intimità, con chi sono e chi non sono, chi sono stata e chi non voglio più essere:

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Proprio per questo stavolta trovo particolarmente difficile fare la valigia. Niente a che vedere con le pelli di montone da farci entrare per affrontare l’inverno sui polder, chè tanto ho sviluppato una personale metodologia per far entrare in valigia il possibile e l’impossibile, all’occorrenza. Tutto a che vedere, invece, con l’ontologia.

Sì, è uno strano momento, lo avverto fisicamente, mi stringo i polsi, in vena mi scorre un’onda frequenza silenziosa, non dolorosa, non angosciante, ma sottile, penetrante.
Ho bisogno di far posare i pensieri.

A distanza di cinque anni, l’Olanda resta per me una meta emotivamente molto forte. Allora avevo sedici anni e la vita crepata da due. Per un mese, sono stata lontana da casa e da tutto quello che mi era familiare, ho vissuto in Olanda con mio zio, lavoricchiato in un suo piccolo alimentari con mia cugina, per lo più mi sono cercata disperatamente, dilaniata tra il desiderio di “fare strage di me” e quello di “restare in piedi e non avere paura”. Per questo sono stata lontana da casa e da tutto quello che mi era familiare e per questo sono andata in Olanda. Era la mia prima volta.
A distanza di cinque anni, ne ho percorsa di strada, tanta davvero e ho avuto coraggio, sono cresciuta. Non ho più tempo per vivere nel passato, piuttosto lo recupero per distendere le pieghe e perdonarmi finalmente, riconciliarmi con me stessa. Ho raggiunto la dose di stabilità sufficiente per presentarmi al faccia-a-faccia con la ragazzina che sono stata come la donna che sono oggi, dimostrarle che non abbiamo più nulla a che vedere l’una con l’altra ed allo stesso tempo tutto a che vedere. Sorriderle ed abbracciarla, e sollevarla, respirarle dentro aria pulita, rassicurarla, dirle di non passare la vita a morire dentro perché sa ridere forte da spaccare i cristalli, che arriverà il bello ed ancora il brutto, ma lei potrà essere debole, piangere e avere paura, essere umana perché anche in questo c’è coraggio e sarà più facile star bene. Ringraziarla per la donna che sono oggi. Non più un rewind, ma un flash forward.

Sì, è uno strano momento, lo avverto fisicamente, mi stringo i polsi, in vena mi scorre un’onda frequenza silenziosa, non dolorosa, non angosciante, ma sottile, penetrante.
In verità, è solo un po’ di tensione. E’ sufficiente non ingigantirla perché torni il sereno.

E’ ora di fare questa valigia e chiuderla.
La mia famiglia è già lì, mi sta aspettando. Io sola manco. Ed in verità, non vedo l’ora di stringere tutti in un abbraccio collettivo.