Mood: sereneggiante
Reading: Anna Marchesini, Il terrazzino dei gerani timidi
Listening to: Niccolò Agliardi – L’ultimo giorno d’inverno e mia sorella che instancabilmente ripete per gli orali della sua maturità
Eating: focaccia
Drinking: acqua



‹‹La stazione mi era familiare, il babbo mi aveva portato molto spesso sulle pensiline del treno, quando avevo avuto la tosse convulsa, per farmi respirare un’aria diversa – così gli aveva consigliato il dottore, di cambiare aria. Mi piaceva tutto lì dentro; i riti di transito dei treni, i rumori che rompevano il silenzio senza turbarlo, il movimento lento ed eccezionale dei passeggeri quasi tutti militari o parenti di militari.
Mi affascinava quella sorta di schiaffo sonoro che faceva girare la faccia e inseguire il treno in corsa, quando sfilava davanti agli occhi, compartimenti di vite estranee l’una all’altra eppure insieme e accanto, lunghi condomini orizzontali disordinati o amorfi, vivaci, con le luci accese, o del tutto segreti, dove l’esistenza si era organizzata per qualche ora attorno ad una stessa casualità. Mi emozionava essere per un istante risucchiata da ogni rettangolo di luce che scorreva veloce, testimone io della fiammella invisibile che quelle famiglie di sconosciuti tenevano accesa senza saperlo e che li costringeva ad una effimera intimità. Dopo aver dormito accanto l’uno all’altro, estranei, si erano intrattenuti in una scandalosa confidenza che aveva aperto un varco involontario nelle loro esistenze abbottonate, il tempo breve della durata di una tratta e poi tutto si sarebbe richiuso frettolosamente, ciascuno uscito dallo scompartimento, appena scivolato via, avrebbe lasciato solo una sfoglia di sé e un posto vuoto, pronto ad accogliere un’altra breve rappresentazione.››

[Anna Marchesini, Il terrazzino dei gerani timidi]


Riflettevo, ieri pomeriggio, a bordo del Freccia Bianca Milano-Bari, in merito al carico di vite tra loro estranee che affollava lo scompartimento e che, scendendo sempre più il treno verso il tacco d’Italia, si organizzava per istinto in un sistema intrecciato di relazioni e scambi e simpatie ed antipatie, è questo che mi piace dei treni, il loro diventare micro-habitat ambulanti ed interinali in cui si accalcano e restano sospese come foschia le vite e le storie, oltre che le possibilità di costruirle queste vite e queste storie e di immaginarle, i signori infervorati di politica senza troppe cognizioni di causa e corrosi dal vivere amaro e gli interventi sporadici di qualcun’altro a caso e gli sguardi tra il sarcastico e il divertito e l’infastidito, il gruppetto aggregato attorno ad una partita a briscola o scopa, la signora preoccupata per le mie gambe deformate dalla reazione allergica alle punture di zanzare e incapace di togliermi gli occhi di dosso e voci e passi uno sopra l’altro e suggerimenti su come trascorrere il tempo di un lungo, lungo viaggio.

In ragione di queste coincidenze relazionali, S. ed io ci siamo conosciute. Stavo ascoltando la musica in cuffia ed elaborando in Lightroom le foto del mio Natale olandese, ché sì, tra una cosa e l’altra, ancora non ho avuto modo di concludere il lavoro, insomma ero così impegnata e S. che mi sedeva accanto se ne stava col naso appiccicato sul mio monitor, ascoltava con attenzione quello che canticchiavo e mi studiava nei gesti, nelle espressione, in quello che avevo attorno, più tardi le avrei confessato che io ho lo stesso vizio all’attenzione e alla curiosità, a trasformare in intimità l’estraneità. Sarà stato all’altezza di questo scarto che a S. non è tornata la ragione per la quale io non facessi le ascoltare quello che stavo ascoltando, sicché, al palesarsi delle sue perplessità, mi è sembrato onesto concederle una cuffia e ascoltare insieme Daniele Silvestri, che poi a lei la cuffia dovevo risistemarla di continuo perché di continuo le sgusciava fuori dall’orecchio troppo piccolo, circondato da ciuffi castano chiaro. Nella ripetitività di questo gesto, mentre mutava il panorama e si trasformava progressivamente in quel Sud caro al mio cuore, S. ed io siamo diventate amiche e lei chiedeva a me cosa stessi guardando e io chiedevo a lei cosa stesse guardando, abbiamo anche affrontato discorsi importanti come il matrimonio, in merito al quale lei mi ha confessato che avrebbe sposato la sua amica I., ma che una volta che la loro storia sarebbe finita, I. avrebbe sposato il suo amico J., gente del futuro!, motivo per cui sarebbe stato opportuno che io, non essendo ancora sposata, sposassi J., così che lei potesse rimanere per sempre con I., io le ho raccontato delle fate nello stomaco e di quelle che portano i sogni e lei mi ha detto che avrebbe pestato le fate dei sogni, che non è bello sognare perché ad ogni sogno si piange e quando le ho chiesto cosa sogna, S. mi ha detto che sogna i morti e non sapevo bene cosa raccontarle a quel punto, se non che non sono tutti brutti i sogni, che ce ne sono di belli e che sono importanti, solo a volte capita che un troll rubi un sogno ad una fata e lo infetti con la paura e per distrarci, S. ed io, abbiamo fatto merenda con i grissini spezzettati ed abbiamo giocato a chi mastica più veloce, uno, due, tre, via! e a chi resiste di più senza ridere e S. rideva tanto con un sorriso davvero bello e profumato di fiori e ad un certo punto, S. mi ha guardata dritto negli occhi e mi ha detto “Perché tu stai sempre così?” e ha ritratto il volto nell’espressione più accigliata ed altezzosa e contrariata che le riuscisse, ha stretto i denti ed ha incrociato le braccia ed io mi sono sentita come colta di sorpresa nella mia nudità di fronte a lei e ho cercato appigli che non esistevano per darle una risposta, storie che non tornavano al computo, ma più avanti, S. mi ha detto anche “Tu mi fai proprio ridere!” e quasi si stava strozzando con le caramelle che le navigavano tra la lingua e il palato ed io mi sono sentita ancora più nuda, come se mi avesse tolto la pelle e mi stesse dando la possibilità di perdonarmi ed arrotondare gli spigoli e ridimensionare ogni cosa in un solo sorso di vita. A Pescara, S. ed io ci siamo salutate, ci siamo abbracciate e ci siamo date un bacio, le ho detto che per questa volta non potevo andare con lei dalla nonna, ma che non è improbabile rincontrarsi un giorno per giocare ancora, magari su un altro treno in corsa ad energia propulsiva “verso il bambino”. S. ha quattro anni, quattro anni complessi e sinceri che in me hanno lasciato molto più di una semplice sfoglia di sé e non hanno svuotato un posto, ma l’hanno riempito.

Pasquetta sulla 90

aprile 26, 2011

Mood: sereno
Listening to: Sade – Pearls
Playing: a rimettere in ordine la mia casa, i miei oggetti, il mio mondo fisico e metafisico per ritrovare il mio spazio e tornare a starci bene
Eating: effettivamente avrei una certa fame, ma sono pur sempre le 3.00 a.m.
Drinking: acqua fresca a gogò




Pasquetta sulla 90 non è il titolo del nuovo porno-film di Rocco Siffredi, ma la dinamica della mia Pasquetta e, per togliere ogni dubbio, la 90 in questo frangente non è una posizione del Kamasutra, ma la circolare destra di Milano.


Con la 90 oggi sono tornata dall’aereoporto di Linate, dove ho pranzato con mio papà di passaggio a Milano sul volo Bari-Amsterdam e mi sembrava una cosa strana, ma bella l’incontro si sfuggita in aereoporto, la vita in aereoporto, la gente che viene e la gente che va, i voli in partenza e quelli in arrivo e il mio papà e io insieme per un momento di pausa-racconto prima di riprendere ciascuno con la propria vita. Mi sono messa i tacchi per l’occasione, mi sono truccata e sistemata per bene i capelli e vestita con una maglia bella ed ampia e la borsa nuova e i pantaloni attillati un po’ anche perché lui pensasse che sua figlia si sta facendo una bella donna, non una ragazzina sciupata dalle cattive abitudini dure a morire. Abbiamo chiacchierato e lui non ha fatto domande, ma io ho parlato, gli ho raccontato di me e lui non ha detto niente, ma sono certa che mi ha ascoltata e allora gli ho fatto le coccole. Sulla 90 me la sorridevo al pensiero del mio papà ché, per la prima volta da quando sono andata via dal nido materno, non m’è parso di ritrovarlo invecchiato, anzi più bello, finalmente più sereno, meno schiacciato dalle preoccupazioni del vivere quotidiano.


Sempre sulla 90 ho prestato orecchio ad un vecchio che sbraitata contro Hitler e la bomba atomica e i milioni di morti provocati dalla guerra, ho visto di sfuggita i parchi pieni di gente e il sole uscire dalle nuvole e ritrarsi, ho condiviso con una strana bimbetta olivastra i cioccolatini che mi ha mandato la mamma insieme al papà, ho canticchiato Bella Ciao insieme a due ragazzotti ‘mbriaghi di vin rosso ché oggi era anche il Giorno della Liberazione, mica solo Pasquetta e immersa negli umori e nelle voci lanciati sulla strada ho pensato che, a conti fatti, stavo bene anche così, io in mezzo al mondo, senza nulla e nessuno aggiungere, io in mezzo agli altri, ferma ad osservare i dettagli, i libri tra le mani e lo spessore delle tasche rigonfie e le linee delle mani e il peso degli sguardi estranei, io senza pretese, affrancata dall’ingombro delle aspettative relazionali e delle abitudini affettive, libera di scivolare senza peso nella vita degli altri e trarre dalla matassa dell’esistente i fili invisibili di storie e legami e relazioni e annodarli tra di loro stabilendo distanza e vicinanza, libera di immaginare tutto dal principio ed ancora innamorarmi dell’ignoto.

Al-di

agosto 1, 2010

Mood: operativo
Listening to: Paolo Nutini – Rewind
Reading: National Geographic Online
Eating: muffin appena sfornati
Drinking: acqua




Italia, Bari


Durante una di quelle loro chiacchierate, Lavinia gli aveva detto che credere che il mondo finisse all’orizzonte le metteva claustrofobia: in punta di piedi si tendeva verso l’al-di-là, frugava con la curiosità e la fantasia di un bambino e con la sua tenacia riportava qualcosa al-di-qua. Poi lo custodiva nel cuore, lo teneva al caldo anche per quei giorni meno buoni, in cui sorridere le risultava troppo difficile.

*
Lavinia. In parte alter ego. In parte ciò che vorrei essere e non sono.
Lei è una delle donne dei miei racconti incompiuti.
Aspetto sempre che ritorni a chiacchierare con me. Magari di fronte ad un caffè. Poiché per entrambe è un rito.

Scattando questa foto pensavo a Franco Fontana. Conoscerlo, oltre ad avermi letteralmente stregata, mi ha reso più forte delle mie (ancora in fieri) idee espressive.
Quando ho iniziato a fotografare, Photoshop era un punto di passaggio indiscutibile, così come la manipolazione. Adesso non più. Mi limito alle correzioni sui contrasti, sulle dominanti. Mi concedo qualche virata.
Il fatto è che c’è troppa bellezza, troppa poesia nel mondo, così come troppa bruttezza e troppo squallore. Ci sono tante tracce nel modo, tante storie e suggestioni, così come tante emozioni dietro un gesto, uno sguardo, una parete, un incontro tra terra e cielo. A me piace osservarle, coglierle per ciò che potrebbero essere. Interpretarle per come si presentano ai miei occhi. O perchè no?, immaginarle, fantasticarle. Raccontarle.
Dare un sussurro al silenzio o semplicemente accettarlo, senza paura.