Adamo e Eva, una variazione
luglio 8, 2013
Mood: frastornato
Listening to: il vento che smuove le venezione alle finestre
Watching: le bruciature che mi ritrovo in faccia dopo aver cercato di curare certe ferite con un sedicente cicatrizzante
Eating: orecchiette e broccoli
Drinking: acqua e magnesio
Ecco un luogo al quale sono abituata: il suo fianco. Ogni volta che ci stendiamo vicini sembra di giacere l’uno dentro l’altra a tal punto le nostre forme, dando l’idea di venire l’una dall’altra, si ritrovano.
Così stanotte, malgrado sia arrivata da tanto lontano, dal centro di tutte le precauzioni per tenerci a distanza.
Per un lungo tempo non ho mai azzardato a rivederlo. Lui avrebbe cercato di riprendermi dentro il suo fianco, volendomi ma non amandomi. Io non sarei tornata libera, amandolo con limpida perseveranza e titanica fede. Ci saremmo avvitati per così dire nella gola spirituale del nostro sentimento fatta di carne e sangue, tra molte frane di malinconia e rodimenti d’infelicità comunque meglio di un’abiura irrevocabile. Come ci fossimo congeniti e seppur altrimenti necessari.
Se non altro, così piantati l’uno dentro l’altra, nessuno sarebbe mai più stato leggero.
Evasi un giorno.
Mi ha raggiunta a bruciapelo, come sempre. Ho l’impressione che lui studiasse e programmasse a tavolino il crollo delle mie difese, che si mettesse in un qualche modo sereno e concentrato a valutare i miei spostamenti e le possibilità di cedimento del sottosuolo, in attesa di disporre del giusto connubio di coincidenze per poter sparare un solo colpo di pistola che, producendo la minor vibrazione di preavviso possibile, mi colpisse e mi togliesse il fiato.
«È morto.»
Nella stanza bianco su bianco inferno al terzo piano dell’ospedale, ci sono troppe, ma troppe persone raccolte ai piedi del letto dove lui giace. Oscillano avanti e indietro perfettamente rigide sui talloni e emettono in gruppo un ronzio accordato in basso che penetra e crepa il sottofondo aderendo con puntualità a una lunga linea piatta.
Le ho percepite, non appena entrata nella stanza, tutte legate a lui una per una, ma tra loro tutte slegate: lo condividono in vario modo e sottoscrivono lo stesso lamento, ma si ignorano a vicenda, essendo messe una per una dentro campane di vetro, lui faceva così.
Decisa com’ero a vederlo al di là della loro barriera, le ho aperte a gruppi, superate, calpestate. La disperazione mi ha restituito una fiducia furiosa. Nessuno mi aveva parlato, detto «Sta per morire» prima di dirmi «È morto».
Ma se guardo al passato, a volte immaginavo che sarebbe finita proprio così.
Aveva iniziato, a un certo punto, a ubbidire a una qualche motivazione interiore che lo spingeva a consumare la strada a un’andatura impazzita e un po’ cieca, su una motocicletta sgangherata. Non si fermava mai, sembrava che l’unico brio gli arrivasse dal sibilo della velocità nelle orecchie, bruciava storie e persone. Di tanto in tanto qualcuno gli stringeva i fianchi dal sellino posteriore, poggiava il mento nell’incavo della sua spalla. In momenti di aderenza così teorizzava che la vita potesse assumere una direzione, era felice davvero, ma con nessuno di quei qualcuno durava più di un pugno di chilometri.
Alla fine, è successo: si è staccato in curva dal sellino della sua motocicletta ed è stato trascinato dalla velocità per metri e metri. L’asfalto se l’è bruciato allo stesso modo in cui lui faceva con le storie e le persone – smangiucchiandole rapidamente –, gli ha scomposto le ossa, preso i denti e brandelli di carne, persino una mano e scoprendolo ho sentito la forza scivolarmi dalle ginocchia,
le sue mani, le sue meravigliose mani. Ho pensato a tutti i tentativi di scrivere un’ode alle sue mani senza mai trovare parole adeguate. Le ho riviste magre e nodose lungo la mia schiena, attorno a una matita, tra le pagine di un libro, sempre incapaci di toccare, ma solo di sfiorare, suggerire, accarezzare, nonostante la decisione e la forza espressa in ogni movimento. Ho ricordato di quando sembrava che potessero stringere l’aria, rendendola concreta e palpabile, modellare i sogni. Mi emozionavano le sue mani, mi sono innamorata di lui mentre massaggiando le mie tra le sue mani una notte mi ispirò i racconti più lucenti e rivolgendo i palmi contro i dorsi e i dorsi contro i palmi spaziò dalla terra al cielo. Adoravo le sue mani al punto che, entrando nella nostra storia, mi sembrava di dover provare vergogna delle mie, a causa del fatto che sono corte e grasse, con la pelle ruvida e arrossata acchiappata a ossicini contorti, prive di grazia per quanto cerchi di educarle, ma lui mi disse che trovava bello il modo in cui vibravano tra le sue.
Mi faceva così male che l’asfalto gli avesse preso persino una mano.
Rattrappirmi era quanto meno.
E mentre così mi ripiegavo su me stessa per attutire i crampi del dolore, tutte le persone raccolte ai piedi del letto dove lui giace mi sono sembrate sufficientemente lontane da essere di nuovo soli, lui e io come ai primordi.
Andiamo, mi scongiurava, producendo il richiamo con gli avanzi della sua esistenza.
Io l’ho guardato per un po’. Di fronte al suo corpo sfigurato ho sentito il mio di prepotenza: ogni tessuto, ogni muscolo, ogni osso, ogni cellula pulsava così tanto dall’interno verso l’esterno che sembrava dover strabordare per ogni angolo del creato. Tutto il mio corpo implorava di vivere. Ma come succede quando viene a mancare il fiato perché qualcun altro ha le mani attorno al collo e stringe, stringe forte,
Andiamo.
Così stanotte, malgrado sia arrivata da tanto lontano, dal centro di tutte le precauzioni per tenerci a distanza, mi sono rincantucciata con innocenza nel suo fianco ormai immobile, ritrovando l’aderenza di sempre.
Capisco allora che è una questione di pochi secondi prima di grondarci l’uno dentro l’altro dai piedi ai fianchi, già le caviglie si distinguono a fatica. Mi aggrappo al suo braccio monco e resto in attesa, non mi muoverò dal suo fianco.
Vorrei soltanto che i suoi occhi potessero guardarci da dietro le palpebre chiuse in un livido così come ci ammiro io.
Vestiti dismessi in mezzo ai cuscini di un salotto Ikea messo in scena // Esercizi di stile
settembre 16, 2012
Mood: vagante
Reading: cose a proposito di spazi urbani
Listening to: Muse – Madness [in loop]
Watching: Joel Sartore photos
Eating: taralli fino a scoppiare
Drinking: acqua
‹‹Salve signorina Pace, volevo informarla che stiamo proponendo una nuova rivista sulle Sacre Scritture e…››
(“E tu vuoi leggere il racconto erotico che sto scrivendo io giusto adesso?”)
***
Uomini di ogni tipo, età e colore, alti bassi grassi magri volgari trasandati aitanti a perdita d’occhio. Guaine di pelle spesse da sotto i vestiti pezzati stropicciati, ciuffi di peli arricciati dove se ne stanno aggrappati gli umori forti di una giornata accesa a quaranta gradi, così rudi villosi sessuali e rughe pulsanti nelle tempie, nel collo, nei polsi. Ringhiano.
Perché tutta quell’umanità maschile proprio da Ikea il sabato pomeriggio? Con il mercato dell’usato in Senigallia e la mostra sui cubisti a Palazzo Reale.
«Greta…»
Come riescono bene a fingere di valutare il prezzo di un frigorifero di una scrivania di un piatto di una lampadina, mentre fiutano l’aria col naso mettono in mostra sorrisi, occhiolini, bicipidi, spaccazze, richiami, un’infinità di richiami sessuali.
«Greta…»
«Sì?»
Sì?, con quel tono così frettoloso così altrove. Come se non notasse che tutti quegli uomini sono attratti da lei, che le strusciano accanto, la circondano, come se non ne provasse piacere e autocompiacimento, dall’alluce del piede alla punta dei capelli. Lui può sentire i loro umori aggrapparsi alle caviglie di lei, risalirle lungo le cosce fin tra le gambe, solleticarle le grandi labbra, infilarvisi gonfiandole una pulsazione dopo l’altra. La osserva passarsi con disinvoltura una mano tra i capelli, spostare lo sguardo inquisitore da destra a sinistra, languido
«Ma non posso avere tutto?» domanda, birichina, spingendosi in mezzo a una piccola calca umana che sovrasta un tavolino da soggiorno in vimini con ripiano di vetro.
«Santo Cielo, Greta!» esplode lui infastidito, strabuzzando gli occhi verso di lei come se la vedesse in quel momento per la prima volta, ma come fa a non abbassare neanche gli occhi sulle punte dei piedi quando dice certe cose, rompendo in maniera così vistosa il loro patto di finzione? Lui si passa un fazzoletto sulla fronte e sulla pelata, sradicando piccole gocce di sudore dalle rughe spesse, scrolla la testa per scacciare sensazioni e immagini troppo fisiche appese alle palpebre cascanti sugli occhi annacquati, il vestito bianco a fiorellini rosa di lei che accarezza altri tessuti colorati impregnati, la pelle contro la pelle, i fianchi oscillanti, il sorriso, lo sguardo sfuggente, deglutisce vistosamente.
«Dai, Paolo, sto soltanto giocando! Che esagerato.»
Lui sbruffa, sempre più incredulo. Si mantiene in disparte per osservarla meglio, mentre si destreggia tra la gente con il suo tanto familiare equilibrio di fondo, senza fretta, senza forzare dove incontra resistenza, piuttosto distribuendo una carezza col fianco a uno e un tocco sulla spalla a un altro. Per ognuno Greta ha qualcosa di sé da donare. È una donna generosa, senza dubbio. Non puttana, generosa. Tutto il suo corpo è un canto alla bontà e alla piacevolezza del creato e bisogna riconoscere che, con il rotolare dell’età verso i cinquant’anni, Greta diventa sempre più generosa, grande morbida sinuosa che leccarla è un piacere perché tutta la sua pelle si piega al passaggio della lingua, la avvolge, la abbraccia e ce n’è di terra da esplorare, di viaggi da tentare, di certo non passa inosservata, lei con tutto lo stuolo di fantasie che suscita il solo vederla. La insegue costantemente un brontolio di brama, un desiderio condiviso di possesso, non c’è uomo che non le danzi attorno per accaparrarsela, l’uno è nemico dell’altro, ma neanche troppo perché dopotutto un po’ di empatia, di sano cameratismo non guastano, si capisce!
Capita, certe notti, che la visione di Greta addormentata al suo fianco non gli dia riposo. In quelle notti, Paolo si domanda cos’avrebbe fatto se, quindici anni prima, il giorno del loro matrimonio, al punto del «Se c’è qualcuno che ha da dire qualcosa parli adesso o taccia per sempre», quel qualcuno rompi-uova-nel-paniere, ma anche un po’ chiaroveggente, fosse balzato in piedi e, al cospetto di prete, testimoni e cuscinetti con le fedi, avesse detto «Io» più tutto quello che di sua moglie avrebbero rivelato solo gli anni a segire. Ebbene, la risposta è sempre la stessa «Ciò che ho fatto», forse l’amore quello vero vale una grande sofferenza, forse un giorno Greta tornerà a essere solo sua, nel frattempo meglio non dire niente, lei andrebbe via per sempre e questo è fuori discussione, meglio non dire niente e continuare a dividerla con tutto il resto del mondo. Forse per questo motivo Paolo fa fatica a fare l’amore con lei, non è solo per una faccenda di abitudine o di fiacchezza dovuta all’età: a essere indigesta è la forte sensazione che tra loro ci sia sempre qualcun’altro. A volte, da come Greta gli scivola addosso, lungo il busto, da come posa le labbra sul suo pene, facendogli intuire quanto è umida la sua bocca con cui presto lo divorerà, da come gli spinge la lingua tra i denti, facendola guizzare fino a lambire la sua, da come guida le sue mani tra le curve e gli incavi del suo corpo, da come lo accoglie e lo incita dentro di sé, premendogli le natiche con le unghie con fare imperativo e raschiando i piedi contro le lenzuola, da come lo cerca al culmine della passione, premendogli la testa contro il seno, a occhi socchiusi rovesciati, smarriti nelle nebbie dell’eccitazione che le arrossa tutta la pelle, improvvisamente placida, Paolo sospetta che Greta stia facendo l’amore non con lui, ma con un esercito intero. Da dove arrivano fame e sete così intense? Chi le ha insegnato che non c’è parte del corpo che non aneli al piacere? E adesso che le cose stanno così, come potrebbe mai lui appagarla, lui solo, senza mai dividerla con qualcun’altro?
«Greta?», questa volta Paolo l’ha persa di vista davvero, lei si è spostata dalla postazione tavolino di vimini con ripiano di vetro e la folla aggressiva che lo circonda gli impedisce di individuarla, prova un tuffo al cuore, geme, non può fare nient’altro, chi l’ha conquistata nell’interstizio tra una parete lillà e una libreria in un salotto Ikea messo in scena? Potrebbe essere chiunque, l’aitante dalla dentatura brillante che le ha raccolto il foulard sulle scale all’ingresso, quello con un bambino ricciolo e biondo per mano, fa sempre un gran colpo il maschio padre e single, oppure il grasso con la barba da intellettuale che le ha offerto una matita davanti alla sedia da giardino, quello con un libro sotto l’ascella, fa sempre un gran colpo il maschio filosofo e lontano dalla carne, oppure il buzzurro in canotta bianca a costine che le ha pestato il piede camminando contro marcia e non le ha chiesto scusa, quello con la piastrina d’oro al collo, fa sempre un gran colpo il maschio animalesco, oppure tutti e tre insieme e anche qualcuno in più, la condividono con la stessa generosità che lei profonde.
Paolo torna a cercarla con lo sguardo tra un divano giallo e un uomo, una sedia a strisce e un uomo, uno scaffale ciliegia e un uomo, un vaso in plastica e un uomo, ma niente, c’è troppa gente da Ikea il sabato pomeriggio, di quanti salotti nuovi ha bisogno Milano?
Chiude gli occhi e la segue col pensiero, se c’è una cosa che gli fa male, ancora oggi dopo anni passati a fare i conti fin nei minimi dettagli con i suoi tradimenti, quella cosa è la visione del mucchietto di vestiti dismessi per terra che è l’immagine di due corpi che si sono liberati da tutti gli strati di indumenti e sono rimasti nudi l’uno di fronte all’altro per potersi avvicinare piano, offrirsi senza nasconderne l’umanità che li condanna all’imperfezione. Paolo neanche potrebbe immaginare di mostrare la sua pancia flaccida a un’altra donna. E mai e poi mai avrebbe scommesso che, invece, sua moglie un giorno avrebbe mostrato i suoi piedi a panzerotto a un altro uomo, un altro milione di uomini. Si era illuso che quelli fossero un loro segreto.
Questo sì fa male, molto più dell’idea di tutti quegli uomini, l’aitante, l’intellettuale, il buzzurro e tanti altri ancora incollati a sua moglie per mezzo dei loro peni, tutti impegnati uno dopo l’altro a schiacciarla contro il muro lillà come una sottiletta fusa, tenendone stretti i seni tra le mani e le gambe divaricate incrociate sopra i fianchi, lei dea sorta da un mare di carne e da quello stesso mare bramata, accarezzata, baciata, leccata, solcata, immensa e radiosa nell’orgasmo sacro quando la filarmonica di spasmi e respiri in crescita erompe in un urlo che in verità sono dieci, forse venti, ma tanto intrecciati da sembrare uno. No, questo non costa fatica, è ben poca cosa la visione dei loro corpi scolpiti dalla tensione del desiderio, rispetto al mucchietto di vestiti dismessi in mezzo ai cuscini di un salotto Ikea messo in scena, forse stamattina Greta ha indossato reggiseno e mutandine in pizzo rosa, si abbinano al suo vestito e starebbero alla perfezione con dei cuscini verde acido. Così sia,
(s)viene.
***
Quando Gianni Biondillo – architetto, scrittore e prof. di scrittura nel mio ultimo anno in NABA – ci ha invitati a cimentarci in un racconto erotico, ha detto «ricordatevi che farsi una sega è un gesto politico», il sesso in generale il corpo nudo ha a che fare con la politica, pensate alle divisioni culturali di genere, macchinine ai maschietti bambole alle femminucce, alla narrativa erotica, solo autrici e autori con pseudonimi femminili ovviamente, infine al sintagma dell’atto sessuale più rappresentato, il sacrosanto pompino, donna in ginocchio in adorazione di uomo santuario con debolezze nessuna fallo di pietra e seme benedetto che donna incapace di intendere e di volere attende di ricevere in trepidazione, eiaculazione sovrumana tutto sotto controllo. Insomma, ci sono materia su cui riflettere e convenzioni da incrinare. Tant’è che a Biondillo è balzata in testa l’idea di Pene d’amore. A me quella per questo racconto, ci ho provato. E comunque io giocavo con le macchinine e mi lavo con i bagnischiuma maschili.
Horror Vacui
agosto 8, 2012
Mood: //
Reading: quando avrò superato l’indecisione sul libro a cui dare la precedenza nella lunga lista d’attesa
Listening to: Of Monsters And Men – Love Love Love
Watching: la baronda per casa prima di viaggiare di nuovo verso Sud
Eating: pne e marmellata
Drinking: tazzoni di caffè dopo un lungo periodo di astinenza
[Lo stesso che certi altri giorni colpisce con la paralisi di un qualsiasi segno grafico adeguato
(per non dire “di un qualsiasi segno grafico punto e basta”, – ho bisogno di trovarne qualcuno-)]-)]-)]-)]-)]-)]-)])])])])])])] e devo dire che le parentesi non mi dispiacciono affatto.
La pelle ritratta è quella di Nicolò esemplare eminente dalla straordinaria complessità tra quelli a me più vicini che sul (dal) tema sono afferratissimi, trovo molto bello quando lui occasionalmente si espande sulla mia pelle.
Sinossi in Tre Atti di una Storia d’Amore Qualsiasi
agosto 31, 2010
Mood: tipo come quando c’hai le mestruazioni
Listening to: Niccolò Fabi – Qualcosa di meglio
Reading: roba da esami
Drinking: Santal, i colori della salute, tutt’e cinque
Eating: polvere milanese
Atto primo
Il cielo, una strada, ombre del sole a mezzogiorno.
Lei cammina. Lui anche. Poi Lui rallenta il passo e resta indietro. Lei se ne accorge, rallenta il passo, poi si ferma. Gli sorride per nascondergli il terrore di perderlo. Allora gli tende la mano e aspetta che Lui la raggiunga. Aspetta tutto il tempo necessario affinché Lui le torni a camminare al fianco. Solo allora riparte. Insieme a Lui.
Atto secondo
Lo stesso cielo, la stessa strada, le stesse ombre del sole a mezzogiorno.
Lui cammina. Lei anche. Poi rallenta il passo e resta indietro. Lui se ne accorge, indugia, la richiama a sé con piccoli gesti. Ma non si ferma mai ad aspettare che Lei torni a camminare al suo fianco. Piuttosto le cammina avanti. Finché Lei, correndo, non lo raggiunge nuovamente.
Coro
Così. Per anni. Senza mai cambiare.
Atto terzo. Una lettera.
Resta troppo a lungo sulle labbra il sapore della tua pelle, amore mio.
Mentre tu vai via, scortato sempre da un manipolo differente di ragioni a giustificarti.
Ed in loro presenza, io, che pur non capisco il loro verbo straniero, annientata la protesta, silenziosa, passiva, penosa a me stessa, chinerò sempre il capo, le accoglierò come cosa buona e giusta.
E continuerò ad aspettarti, a cercarti, tessendo e disfacendo ogni notte il velo d’amore e d’odio, d’ogni cosa e del suo contrasto, perché tra le tue braccia, amore, è pieno di equivoci. Lì in mezzo è come su un’altalena.
Ma io sono stanca. Quanta fatica mi costi? Quanta vita? Invano. Quasi.
Voglio scendere. Voglio terra-ferma.
So che non mi fermerai, né mi seguirai. Purtroppo.
Scusami allora se ho deciso di andare via io prima che lo faccia tu ancora una volta.
Lei.
Non una lacrima.
Un bacio. Caldo e umido come la più carica tra le lacrime.