Intro-[…]

ottobre 21, 2013

Mood: pacato
Reading: Bruno Schulz, Gli uccelli, in L’epoca geniale e altri racconti
Listening to: Laura Marling – Little Love Caster (Live on KEXP)
Watching: Screen Lovers di Eli Craven
Eating: cavatelli con funghi e carote
Drinking: caffè



Sono successe molte cose diverse nell’ultimo mese. Soprattutto mi sono sentita priva di senso, insoddisfatta e inadeguata alla tensione che ne è conseguita tra una docile nostalgia dell’annullamento e un dispotico anelito vitale.

Mi sono messa in cammino. Ho percorso un ritorno silenzioso dalla mia nuova condizione esistenziale alla terra in cui sono nata e alla casa in cui non ho mai avuto più di diciotto anni, a Milano e ai suoi flussi rapidi di ricambio, alla condizione esistenziale infine da cui sono partita, ma non proprio la stessa, piuttosto la condizione esistenziale visibilmente rinnovabile – pertanto già rinnovata in una qualche misura – da cui sono partita.

Il fatto, ho l’impressione nasca da dentro, da uno sforzo titanico eppure minimale all’apparenza di intro-spaziare e intro-ispezionare,
‘ché io sempre, tutte le cose migliori le colgo mentre sono in movimento e, andando, riconquisto la certezza di avere i piedi robusti quanto basta e anche più per poterle inseguire.

“Ma sì, adesso mi faccio trascinare dalla bufera attorno al distributore,
fintantoché non mi spuntano le ali.”
[Werner Herzog, Sentieri nel ghiaccio]


dorotea_pace

Italia, Puglia, Monopoli, 28 settembre 2013


Mia nonna quando sono andata a trovarla in cima a uno dei cinque colli del paesello, se non fosse stata solo una fotografia sul marmo di una lapide, mi avrebbe detto Datti da fare, Dorotea, come se mai fosse abbastanza.

Ottobre 2012, «E dopo?»

ottobre 27, 2012

Mood: sereneggiante
Reading: Paola Bressan, Il colore della luna
Listening to: Bonobo – Noctuary
Watching: Nuovomondo di Emanuele Crialese
Eating: latte e biscotti
Drinking: caffè



Questo ottobre 2012 è un mese inequivocabilmente degno di nota nella mia vita. Per la prima volta in ventitré anni, l’inizio di un nuovo anno accademico non mi ha trascinata di fronte a una qualche cattedra con congruo professorone in tale eccelsissima scienza – senza sottigliare sul fatto che quando ero al liceo dovevo rientrare in aula il primo lunedì di settembre, quando, a Sud dove sono cresciuta, tutto il resto dell’umanità se ne sta ancora abbarbicato sugli scogli per sfuggire alla bollitura a secco e mai nessun istituto si sognerebbe di aprire le porte di quella che sarà certamente una fornace, nessuno tranne il mio che era speciale e aveva anche le reti di sicurezza alle finestre.
Ritornando indietro di qualche riga, fino a prima dell’inciso, e riprendendo le fila del discorso, si tratta di una cosa che letteralmente deforma il tempo di ogni giorno per come ero abituata a viverlo e questo un po’ mi confonde, ma per lo più mi sconfinfera perché adesso, senza darmi alla nullafacenza, né sollazzarmi oltre misura, finalmente posso starmene con i muscoli di qualche centimetro più distesi e persino concedermi un diletto di tanto, in tanto.
Facendo i conti in rapidità, a oggi mi trovo a un esame, una tesi e una dissertazione di distanza dal mio brillante foglio di carta da incorniciare nello studio che mai avrò. A febbraio avrò azzerato anche questi numeri,

«E dopo?»
«Dopo arriverà», rispondo generalmente.

Ebbene, la mia potrebbe definirsi una crisi communis da laureando in merito alla quale non c’è bisogno di aggiungere alcunché. Effettivamente ci sono giorni che mai come adesso mi sono sentita tanto uguale a tutti gli altri.
In realtà io, se mi metto la testa alla rovescia, chiunque potrebbe vedere che non è vuota, ma che è frullata ininterrottamente da un gran numero di idee tutte di prima classe, desiderabili e persino attuabili, ma tutte intrugliate con un numero superiore di eventualità, cause e effetti precisabili da me, dagli altri, dalle situazioni, dal caso, cioè da tante cose che – chiunque converrà con me – variano di giorno, in giorno, e sulle quali non si può fare affidamento quando si tratta di prevederne gli esiti. Un matematico definirebbe questa condizione “sistema complesso”, se fosse più pignolo “sistema caotico”.
Del resto io, se mi metto a pensare al dopo, mi distraggo subito perché non voglio fare come chi se ne va lontano dal presente a causa di un’attrazione superiore per il futuro che, invece, io dico, si riempirà delle cose che saranno passate sicché adesso mi limito – se di limitazione si può parlare, senza farmi torto – a vivere al meglio che posso tutto quello che mi circonda, “sistema complesso” incluso.


Accordo però che, tra gli elementi che mi rimescolano il cervello, il più frequentemente a galla è esodo

1 // da me che, determinata come sono nell’inseguire quello che voglio e abituata a superare ogni momento di crisi, non ho voluto riconoscere di essermi ridotta con i nervi a pezzi nell’ultimo anno, errore mai tanto grande perché adesso l’unica cosa che mi va a fagiolo è stare appesa a testa in giù dal ramo di un albero mentre il mondo fa avanti e dietro e io lo interiorizzo per alimentare il mio genio ammutolito.

2 // da uno Stato che, miseria di offerta di lavoro a parte – a maggior ragione per eretiche come me che osano pensare di poter svolgere una professione di appannaggio maschile –, ma non del tutto, si arricchisce di “puttanieri, faccendieri e tragattini”, demolisce continuamente i diritti fondamentali dell’essere umano in virtù di una legge tutt’altro che laica, millanta un ideale di democrazia che non bacia la realtà tanto più perché è vuoto fin dalle origini dei concetti di cittadino e di popolo sicché tutti l’importante è il mio piatto di pasta due volte al dì, per quello si può scendere in piazza, fottere e ammazzare, ma del bene comune, dello Stato sociale – quei famosi – chissenefrega, e quali virtù, quali beni può trasmettere tutto questo al piccolo figlio – che forse mai avrò – quando dovrà insegnargli a stare al mondo, quale serenità a me che non mi ci riconosco e che me ne vergogno? Dicono che ho il dovere di essere arrabbiata e giuro, lo sono. Fino a qualche anno fa, sarei anche stata nelle schiere di chi resta a dare capocciate contro i muri, guadagnando infine [con tempi da olocene] piccole crepe interstiziali – tanta stima a riguardo –. Ma onestamente io, non che abbia mai affinato un forte sentimento di italianità e questo scombussola un po’ i fatti: oggi andrei via perché vedo mancare le condizioni per restare o forse semplicemente perché oggi sono geneticamente italiana più di qualche anno fa e voglio interessarmi di me soltanto e non dell’Italia.

Fra l’altro, prima o poi, dovrà arrivare il momento in cui fare per davvero i conti con la mia irrequietezza che tanto mi spinge a vagabondare, tanto mi tormenta – talvolta morbosamente – con la ricerca delle radici.

Mood: teso
Listening to: Crystal Castles – Crimewave
Watching: Pina, di Wim Wenders (per la prima volta in vita mia, dico da vedere in 3d)
Playing: a scaricare la tensione accumulata
Eating: patate bollite e taralli ridotti a farina dal viaggio Bari-Milano
Drinking: acqua



Quando ci racconta di come ruota la vita che (si spera) ci aspetta là fuori, una mia professoressa di regia snocciola le “Regole del Fight Club” che non sono propriamente quelle di Chuck Palahniuk, ma un riadattamento delle suddette al nostro habitat professionale. Forse è inutile specificare che non c’è una sola che non ti metta in bocca un sorriso cinico o amaro, ma a me la dicitura “Regole del Fight Club” piace proprio tanto perché ha intrinseco il valore della lotta e della resistenza sul ring dove l’idea stessa del futuro picchia più di una grandinata non preannunciata. Noi uomini siamo stati abituati male con tutti gli omogenizzati e le pappine pronte che ci hanno propinato da cuccioli. Le bestie invece imparano presto che la ciccia si conquista con le unghie e con i denti, pena la vita.

E quindi ieri in mezzo, in mezzo ai tornanti di un discorso, questa mia professoressa si è girata di scatto verso di me e mi ha concesso il privilegio di una bastonata ‹‹Tu vuoi fare il direttore della fotografia? Emigra.››
Ma cazzo, mi è venuto da obiettare, io voglio fare la direttrice della fotografia, non il direttore, possibile che non mi si riconosca mai il genere femminile?
Esperti del settore sono tutt’ora al lavoro per capire se lei pensasse di sconvolgermi con una rivelazione simile. Io sono una bestia.

Emigrare

È la prima regola del Fight Club. Nel fu Bel Paese le uova marciscono. Se si vuole che si schiudano e che i pennuti crescano e vivano, bisogna svolazzare verso lande più favorevoli.

Del resto, per quanto mi riguarda, non ho mai pensato di restare a vivere nel nido da cui sono sgusciata e mi è venuto spontaneo forzarne da subito i confini per elasticizzarli. Quando le traiettorie migratorie hanno iniziato ad essere le uniche immagini di me che riuscissi a proiettare tanto in là nel futuro, emigrare e vivere “oggi qui, domani lì, dopodomani ancora chissà”, fiutando soltanto l’umanità, era un sogno e l’aspettativa più elevata che potessi coltivare. Non ci ha messo molto a diventare la dinamica essenziale di tutta la mia vita, e-migrare, andare da un luogo ad un altro, ma anche da un’emozione ad un’altra, da uno status quo ad un’altro.

In certi momenti, ho pensato che sarebbe stato massimamente bello nascere su un aereo in volo, originaria di nessun posto in particolare e di tutti insieme. Ebbene, chi l’avrebbe mai detto, guarda il caso birichino!, tra qualche ora sarò concretamente e non solo emotivamente una persona inuncertoqualsenso di nessun posto in particolare. Anche la mia famiglia emigra ufficialmente, mamma e sorella raggiungono papà in Olanda. E qualcosa in me cambia.
Mi sarebbe piaciuto nascere su un aereo, ma sono nata a Sud, in provincia di Bari. Ho bruciato lì i primi diciott’anni della mia vita e, crescendo, ho sfumato la mia patologia e la mia essenza da e-migrante con l’amore e la sofferenza per il nido in cui sono nata. Un tempo sapevo che, per quanto potessi prendere, andare, partire, vivere altrove, di tanto in tanto e ad un certo punto non ben precisato avrei affrontato un viaggio di ritorno al mio vecchio Sud, inteso come luogo degli affetti, ma anche come puro confine geografico. Perché, al di là di qualsiasi poltiglia patetica, lì ci vivevano mamma, papà e sorella e anche il più volatile degli esseri umani, tra un viaggio e un altro torna indietro per baciare la propria famiglia natale.
Tra qualche ora però anche la mia famiglia emigra ufficialmente, si svuotano gli armadi, si stacca l’elettricità, si chiudono le imposte alle finestre della nostra casa e si fa silenzio o quasi perché la vita che ha percorso un luogo difficilmente si stacca dalle sue pareti. E allora faccio il conto delle ore che restano, dodici per approssimazione, e non so bene come districare il groviglio emotivo e celebrale che mi sta dentro, mi stringo nelle spalle perché è come se mi mancasse la terra sotto i piedi. E tra l’esaltazione e l’insicurezza, mi riesce persino di incazzarmi, non avevo previsto che il caso mi fottesse e svoltasse senza ritegno nella direzione delle mie vedute da vita sperimentale, enfatizzandole fino a privarle di quel po’ di nostalgia classicheggiante da ritorno che serbavo nel profondo. Ma soprattutto non avevo previsto che potesse svoltare investendo il mio sogno e l’aspettativa più elevata che potessi coltivare con la forza inderogabile di un’imposizione impartita addirittura a tutta la mia famiglia, ché, non fosse stato per la visita da parte di Madame Disoccupazione e Monsieur Come Cazzo Sbarchiamo il Lunario, mamma e papà sarebbero rimasti volentieri nel nido, e sorella avrebbe a buon diritto preferito rotte più libere ed indipendenti.

Ma bando ai piagnistei e benvenuti al Fight Club, miei amati Signori. Qui si combatte e, come vuole la settimana regola del Fight Club di Chuck Palahniuk, “i combattimenti durano per tutto il tempo necessario.”

Respiro

marzo 31, 2011

Mood: sereneggiante
Listening to: il ronzio del frigorifero e lo sfrecciare di qualche macchina nel silenzio notturno
Playing: il gioco della felicità
Eating: patate duchesse
Drinking: acqua



Dentro custodisco respiri.

Bolle d’ossigeno, acciuffate col retino, strada consumando, e liberate tra i muscoli e le ossa. Immuni al mondo là fuori, immuni al tempo, le mie bolle d’ossigeno serbano solo il sereno e l’armonia di un momento di completa empatia, riecheggiano la bellezza e lambiscono l’immenso.
Ché io sono una creatura piccina, ma la mia anima ha uno spazio sconfinato e per fortuna! perché incessantemente percepisce il mondo, e si percepisce nel mondo, con il mondo ed archivia ed estetizza.

Così, nel mezzo di una disfunzione, mi guardo dentro e so dove andare a rifugiarmi, dove andare a respirare.




«Che posto è?»
«La mia terra, il mio mare.»

Ho scoperto questo lembo di terra pugliese quand’ero ancora bambina. La gente lo chiama Porto Ghiacciolo, per via delle correnti gelide che battono i fondali. A quel tempo, la spiaggia non era ancora stata colonizzata da un’orda di culotetteaddominali al rimorchio, ammassati in pochi centrimetri di sabbia, ma era frequentata dai soli pochi che ardivano attraversare i campi di pomidoro e scavalcare muretti a secco diroccati per distendersi al sole, e non c’era il bar e non c’era la musica e non c’erano le brandine, solo l’orizzonte sfumato tra il mare e il cielo e da un lato il castello con le palme in cima e dall’altro la casa segnata dalla salsedine di due anziane sorelle con le oche, i riflessi cangianti nel ritmo dei flutti e le pozze con i gamberetti, persino una vasca con le cozze, lo sciabordio del mare contro gli scogli e i fianchi delle barchette ormeggiate più al largo ed il vento tra gli spruzzi, il risucchio e il rigetto dell’acqua nella cavità sotto il castello e lo starnazzare delle oche che scendono a mare per la traversata quotidiana fino al castello.

Nel corso del tempo, in questo lembo di terra ho seminato ricordi ed emozioni forti tra i sassi e le conchiglie sul bagnasciuga e li ho intrecciati con la spuma delle onde.
Ho trascorso lunghe ore con il mio mare, a lasciarmi cullare la solitudine, a raccontargli di me e ad ascoltare di lui. Ho imparato a restare in silenzio, a respirare e ad osservare, ché il mare decisamente non lo conosci in fretta. Ho imparato a vivere la simbiosi tra la cadenza del mio respiro e la continua metamorfosi del suo, fino ad avvertirla rimbombarmi nella cassa toracica, ondata di rantoli cavernicoli, ora quieti, ora violenti. Ho imparato a lasciarmi andare e a scendere dalla superficie ai fondali, fino ad alienare la mia anima e il mio momento nel palpito incalzante del mare, sfogando le emozioni e consolando gli affanni.

Così, questo lembo di terra si è rivestito ai miei occhi di un’aura rituale. Oggi ci torno solo quando so che l’orda di culotetteaddominali al rimorchio è distante, ma venero questo lembo di terra, lo venero come liquido amniotico, lo venero quand’è silenzioso, quand’è mio, quando posso riprendere a dialogarci indisturbata e nutrire l’anima, quando mi ci immergo e torno a respirare e mi sento libera di andare ed immensa.


Domani, che poi è già oggi, torno a Sud per qualche giorno, devo risolvere alcuni problemi di salute e rilassarmi tra mia mamma e mia sorella.
Tornerò anche al mio mare, da giorni ormai ne sento il richiamo ancestrale.


Tra due ore suona la sveglia per andare in aereoporto. Magari non vado a letto e vedo l’alba. Adesso la sto aspettando con impazienza.

The Way back Home

gennaio 25, 2011

Mood: confusa
Reading: Jens Hauser (a cura di), Art Biotech
Listening to: Radiohead – No Surprises (mandata da Laura al contrario e giù di disquisizioni su quanto comunque la canzone non perda la sua musicalità)
Sid Vicious – My Way






Un mese a prendere e partire, fermarmi, poco, mai troppo, per ripartire, un mese intero così, a macinare chilometri e prendere e dare ed intossicarmi di vita, l’Olanda nel grembo della famiglia, mia sorella ed io a letto tra a mamma e papà, Dai, facciamo notte in bianco! Passiamo le ultime ore insieme! Sveglia grassone!, e l’Olanda on the road, uno zaino in spalla, Pauline al collo, piedi nella neve ed occhi ebbri, Come on, come on!… Ein blau tram kard, alstublieft… Excuse me, just an information, e inglese e italiano e olandese, persino francese nella testa *; immediatamente dopo, la mia amata Siena dall’atmosfera quieta, per abbracciare un’Amica che non vedevo da troppi mesi, lasciarmi avvolgere dal suo calore, respirare la sua vita ed i suoi pensieri ed immergermici, Perché devi andare via?, Siena per riabbracciare inaspettatamente un Amico, trovarlo cambiato, ma essere ancora un Noi, come ai tempi della fotografia appesa al muro di fronte, Lui, Lei, io, il caffettino, mancava solo la sigaretta, sia Lui che io abbiamo smesso di fumare, Guardate, quanti mesi erano passati?, due? Eravamo già noi, due anni e più sono passati ormai; poi un treno direzione Vicenza, destinazione Bassano del Grappa, da Zulio, per concludere la stesura della sceneggiatura di Cut off **, il nostro primo cortometraggio da girare in aprile, fare un primo sopralluogo, conoscere le nostre due attrici, stanchi morti alla fine di questo tour de force, ma tanto, tanto soddisfatti di stringere tra le mani una buona porzione di fase di pre-produzione.
Insomma. Un mese, alla fine del quale, risulta difficile disfare una valigia che si è affollata sempre più ad ogni sosta di biglietti usati di aereo-pullman-treno-tram, mappe su tovaglioli di carta e bustine di zucchero ed appunti visivi, odori tanti e diversi per ogni sosta, emozioni nuove, ritrovate, perse,

parole poche e tutte



sul fondo.


Da una settimana sono di nuovo stabilmente a Milano. Ho ripreso a frequentare l’Accademia quotidianamente, a prepararmi per gli esami di febbraio (e a diventare folle dietro la fatica), a lavoricchiare ai progetti futuri, a restare per ore con gli occhi fissi sullo schermo del computer.
Com’è andato il rientro a Milano?, mi domandano, Faccio fatica, rispondo. Effettivamente, solo ieri ho disfatto la valigia, riposto tutto negli armadi e nei cassetti, ma non mi sono arrampicata sulla scala per costringerla sul soppalco in bagno, l’ho lasciata di fianco al letto, Questa stabilità mi destabilizza, no, non sono stanca di viaggiare, perchè ne ho bisogno come l’aria, osservare, ascoltare, confrontarmi, vecchio e nuovo, ricevere stimoli, essere stimolo, ancora una volta luogo da scoprire, non solo,

ci ho pensato. L’ultima sera a Siena, me ne stavo stesa in Piazza del Campo, si usa così a Siena, con l’Amica mia, l’Ex-Coinquilina mia ed un amico suo, più la sambuca. Raccontavo dei miei ultimi spostamenti, di quelli che ho in progetto per il futuro. Accidenti, Soroty (mi chiama così l’Ex-Coinquilina mia), sempre pronta a partire!, Massì, mi piace, sogno una vita a farlo, rispondo io, Eppure prima o poi dovrai fermarti, salta su l’amico dell’Ex-Coinquilina mia. Mi sono sentita inspiegabilmente in imbarazzo, non ho risposto, mi si è piantato un chiodo fisso nella testa.

Per questo motivo ci ho pensato. Sono fatta così io, ho le radici mobili, nulla di troppo visceralmente legato a spazi, luoghi ed oggetti, sicché faccio presto ad affondarle in un qualsiasi nuovo terreno e a trovare nutrimento ed abbellimento, far fiorire gli affetti e sentirmi a Casa, ‘ché io ho una teoria, una tra tante, da quando ero ancora bambina, Casa non è un luogo confinato da pareti, ma un’atmosfera di appartenenza, una serenità diffusa, il rullo di cuore che ti batte al fianco, uno o due o tre, un intermezzo di condivisione emotiva, lo spazio di un abbraccio, poi poco importa in quale angolo del mondo ci si ritrovi. Agli affetti, a quelli sì, mi lego visceralmente, talvolta accuso anche la nostalgia di qualche lontananza, ma solo talvolta perché ogni persona che ho amato, che amo fluisce in me, e serenamente attendo i ritorni, i giri di vita, gli incroci tra strade parallele, mentre continuo a vivere e costruire.

Ho guardato al fondo di questo mese da nomade, straniera, sempre, ad ogni sosta, eppure completamente a mio agio di fronte alle novità, sempre, come fossi autoctona, mentre ad ogni sosta elevavo la mia piccola Casa. Ho capito quanto questa condizione sia necessaria al mio star bene.
A ben pensarci, il mio ultimo mese non è che un mese a rincorrere Casa. A ben pensarci, il mio nomadismo non è che una via verso Casa. A ben pensarci, non escludo la possibilità di fermarmi. Presto o tardi, a ben pensarci.





* prima o poi, ci conto, avrò tempo per selezionare, elaborare e mostrarvi le foto del reportage olandese
** post dedicato, a breve su questi schermi