Convinto di ritorno

settembre 4, 2013

Mood: tenace
Reading: David Grossman, Asini in L’uomo che corre
Listening to: Katie Melua – On the Road again
Watching: Blue Jasmine di Woody Allen
Eating: una mela e una banana
Drinking: te



“Ma ora bisogna fare attenzione alla corsa, insistere a ben sollevare coscia e ginocchio, respirare profondamente, espellere l’umidità dai polmoni e se è troppo difficile, cambiare magari sistema, giocare d’astuzia con la stanchezza, arrivare eventualmente a un compromesso, per un tempo brevissimo, sulla opaca cadenza di quattro, per consentire alle arterie di raffreddarsi e ai pomoni di distendersi, ma il fatto è che queste scarpe militari pesanti incollano i piedi al terreno, e la fame ti espone al vento, e anche i camion, che ora vanno e vengono e ti costringono a rannicchiarti per qualche attimo ai margini della strada, frenano il tuo slancio, e tutte queste sono povere scuse, perché tu hai sempre corso tranquillamente e a lungo, senza fare attenzione a questi piccoli problemi, e nelle dure corse campestri dell’esercito sei arrivato due volte secondo e una volta primo, e anche stavolta metterai in fuga questa paura momentanea, la soffierai fuori di te in uno sbuffo condensato, perché un talento per la corsa come il tuo è una cosa con cui si nasce, così ha scritto qualcuno, e non bisogna preoccuparsi che questo battito amaro di paura che stai sentendo provi che tu hai perso anche questo talento, che ti è estraneo come il guscio di un altro frutto, perché a quanto pare puoi ottenere grandi risultati senza tirarti indietro, senza aver paura di agire, e quindi non permettere a quel battito sordo di gonfiarsi dentro di te, ma colpiscilo, calpestalo con passi regolari, usa l’astuzia e sparagli addosso proiettili di ricordi che vagano nel cervello, corrici insieme come hai corso insieme a tutte le tue paure, fino a farle diventare un’eco umile e consueta dei tuoi passi, togligli le asperità e costringilo a rendersi gradevole, allora potrai correrci insieme come correvi una volta […]”

[David Grossman, L’uomo che corre in L’uomo che corre]

***

Io non è che sto evitando lo sforzo umano e intellettuale, per altro facendo dire a altri quello per il quale sarebbe opportuno trovare le mie personali forme linguistiche di significazione così da essere sicura di averlo trasformato.
Ma, è successo, nei giorni da poco passati sono stata anche per ore a fissare il nulla – la centrifuga a vuoto del mio stomaco – perché nulla era quello che avvertivo dentro di me e, come di solito succede in questi casi, più ci pensavo mi ci fossilizzavo, più mi svuotavo mi rinsecchivo e diventavo incapace di cogliere di assorbire dal mondo cose belle e nutrienti.
Adesso ho una gran fame. Ma al cibo, quando si torna a assumerlo dopo un relativo digiuno, ci si deve rieducare una briciola per volta, talvolta ci si deve far imbeccare.
Del resto Grossman, per essere come un primo convinto di ritorno, ho idea abbia uno spessore notevole.

Marilù

giugno 15, 2013

Mood: felice
Reading: Elio Grazioli, Corpo e figura umana nella fotografia
Listening to: quello che ci si racconta attorno a una birra tra amici che si ritrovano tanto tempo dopo
Eating: pita vegetariana, se ben ricordo
Drinking: birra



Di questa notte, Marilù avrebbe raccontato che all’improvviso si era sentita come Forrest Gump: doveva iniziare a correre. E così fece, corse lungo tutta la strada,
calciando il vuoto con l’impeto nelle scarpe di chi vuole riempirsi d’aria il torace.

Quando si fermò, il suo affanno diceva Non sono triste, non sono triste.

“… e questo è tutto mi pare.”

Respiro

marzo 31, 2011

Mood: sereneggiante
Listening to: il ronzio del frigorifero e lo sfrecciare di qualche macchina nel silenzio notturno
Playing: il gioco della felicità
Eating: patate duchesse
Drinking: acqua



Dentro custodisco respiri.

Bolle d’ossigeno, acciuffate col retino, strada consumando, e liberate tra i muscoli e le ossa. Immuni al mondo là fuori, immuni al tempo, le mie bolle d’ossigeno serbano solo il sereno e l’armonia di un momento di completa empatia, riecheggiano la bellezza e lambiscono l’immenso.
Ché io sono una creatura piccina, ma la mia anima ha uno spazio sconfinato e per fortuna! perché incessantemente percepisce il mondo, e si percepisce nel mondo, con il mondo ed archivia ed estetizza.

Così, nel mezzo di una disfunzione, mi guardo dentro e so dove andare a rifugiarmi, dove andare a respirare.




«Che posto è?»
«La mia terra, il mio mare.»

Ho scoperto questo lembo di terra pugliese quand’ero ancora bambina. La gente lo chiama Porto Ghiacciolo, per via delle correnti gelide che battono i fondali. A quel tempo, la spiaggia non era ancora stata colonizzata da un’orda di culotetteaddominali al rimorchio, ammassati in pochi centrimetri di sabbia, ma era frequentata dai soli pochi che ardivano attraversare i campi di pomidoro e scavalcare muretti a secco diroccati per distendersi al sole, e non c’era il bar e non c’era la musica e non c’erano le brandine, solo l’orizzonte sfumato tra il mare e il cielo e da un lato il castello con le palme in cima e dall’altro la casa segnata dalla salsedine di due anziane sorelle con le oche, i riflessi cangianti nel ritmo dei flutti e le pozze con i gamberetti, persino una vasca con le cozze, lo sciabordio del mare contro gli scogli e i fianchi delle barchette ormeggiate più al largo ed il vento tra gli spruzzi, il risucchio e il rigetto dell’acqua nella cavità sotto il castello e lo starnazzare delle oche che scendono a mare per la traversata quotidiana fino al castello.

Nel corso del tempo, in questo lembo di terra ho seminato ricordi ed emozioni forti tra i sassi e le conchiglie sul bagnasciuga e li ho intrecciati con la spuma delle onde.
Ho trascorso lunghe ore con il mio mare, a lasciarmi cullare la solitudine, a raccontargli di me e ad ascoltare di lui. Ho imparato a restare in silenzio, a respirare e ad osservare, ché il mare decisamente non lo conosci in fretta. Ho imparato a vivere la simbiosi tra la cadenza del mio respiro e la continua metamorfosi del suo, fino ad avvertirla rimbombarmi nella cassa toracica, ondata di rantoli cavernicoli, ora quieti, ora violenti. Ho imparato a lasciarmi andare e a scendere dalla superficie ai fondali, fino ad alienare la mia anima e il mio momento nel palpito incalzante del mare, sfogando le emozioni e consolando gli affanni.

Così, questo lembo di terra si è rivestito ai miei occhi di un’aura rituale. Oggi ci torno solo quando so che l’orda di culotetteaddominali al rimorchio è distante, ma venero questo lembo di terra, lo venero come liquido amniotico, lo venero quand’è silenzioso, quand’è mio, quando posso riprendere a dialogarci indisturbata e nutrire l’anima, quando mi ci immergo e torno a respirare e mi sento libera di andare ed immensa.


Domani, che poi è già oggi, torno a Sud per qualche giorno, devo risolvere alcuni problemi di salute e rilassarmi tra mia mamma e mia sorella.
Tornerò anche al mio mare, da giorni ormai ne sento il richiamo ancestrale.


Tra due ore suona la sveglia per andare in aereoporto. Magari non vado a letto e vedo l’alba. Adesso la sto aspettando con impazienza.

Mood: azzoppato, ma tenace
Listening to: il vento che accarezza l’erba
Watching: l’erba accarezzata dal vento
Playing: nel mio mondo nascosto
Drinking: vino rosso (“Non dà alla testa questo!”, le ultime parole famose…)




Nuova settimana, nuovo progetto, ancora per animazione.
Questa volta il tema assegnato è “Deus ex machina”.
Per me si è rivelato molto stimolante. Tant’è vero che non ci ho messo molto ad avere l’idea interpretativa e a farmi prendere dalla sua realizzazione.
Anche perché, come sempre, il tempo che posso dedicare ad un progetto è minimo. C’è sempre troppo da fare e mai quello spazio franco, tra una cosa e l’altra, necessario per innamorarmi di un progetto.


In merito alla mia idea non voglio raccontare molto per ora. Surprise! Dopotutto, una volta conclusa l’animazione, non ci sarà bisogno di chissà quale chiave di lettura. Per questa volta, l’ermetismo è a riposo.
Mi limito comunque ad un’indizio qui sotto. Molto significativo.
(Sfida agli arguti, si accettano ipotesi sulla mia idea.)




Questo è uno degli elementi che sto realizzando in Illustrator e che poi andrò ad animare in After Effects. Strada questa che (se il mio vecchio pc mi aiuta) mi consentirà di animare più rapidamente.


Il punto fondamentale della questione è costruire ogni parte da animare in modo tale che sia facilmente smontabile e ricomponibile come meglio si preferisce.
Per capire come costruire questo burattino, ho avuto bisogno di due giorni di alienazione dal mondo, in cui ho tentato e ritentato, visto mille disegni di gente che sa disegnare per analizzare posizioni, prospettive e possibilità e altri mille video di gente che sa animare.
Stamattina, di fronte al cornetto e all’espressino/marocchino che mi ha portato la mia mamma per consolarmi e sulla scorta anche di un’intuizione notturna, si è illuminata la lampadina. E soprattutto mi è diventato chiaro che mi ero persa in un bicchier d’acqua.
Bastava aggiungere dei cerchi in mezzo ai solidi così che gli arti fossero disarticolabili.
Avrei potuto ballare il waka-waka in segno di vittoria. Dico davvero, mi risuonava in testa!


Meglio tardi che mai, è vero.


*
Ma mi fa rabbia la lentezza con cui sto apprendendo
Mi fa rabbia la mia difficoltà nell’esprimere con il disegno un’idea che magari ho ben chiara in mente. Sono vittima di un vero è proprio blocco traumatizzante, si direbbe.
Mi fa rabbia la staticità che dei miei lavori in movimento. Compongo l’inquadratura, ma fa schifo lo sviluppo dei suoi elementi nel tempo. Riconosco i miei limiti.
Mi fa rabbia la mediocrità di ciò che ho prodotto fin’ora, non mi basta. Non voglio essere una dei tanti.

La mia costante insoddisfazione. Anche quella mi fa rabbia.