Suon di #lutto

novembre 15, 2015

Mood: addolorato
Reading: aria fritta
Listening to: Brett Dennen – Ain’t No Reason
Watching: The Salt of the Earth by Wim Wenders
Eating: uova
Drinking: caffè

Troppo spesso negli ultimi anni ho assistito a lutti clamorosi a suon di ashtag e non serve un filosofo per capire che il sensazionale motiva l’opinione. Troppo più spesso il populismo.

Io risparmio il fiato e penso alla vita, alle bombe, al cielo che avvampa nella luce delle fiamme, ai cadaveri disseminati su tutto il Globo, alle anime in fuga dal Globo – dal Libano a Parigi, dalla Siria all’Iraq e poi ancora in Afghanistan, Pakistan, Nigeria, Ucraina, Gaza, Somalia, Yemen e Tanti Altri Ancora difficili da tenere a mente. È un’epoca di massacri orribili, la nostra: il Mondo intero sta andando in briciole. E il cuore mi salta all’aria ogni giorno più volte al giorno.

Basta essere uomini per vergognarsi di essere uomini. Certo, la vita continua perché la vita continua anche quando ne avvertiamo il peso per le troppe lacrime raccolte nelle tasche, persino quando con le tasche ossidate pronunciamo l’ulteriore chiamata alle armi. Ma a essere onesti per la prima volta mi sto chiedendo se davvero la vita valga tutta la pena che viene dal vivere. E, nell’infinito numero di storie da raccontare e già raccontate, non trovo una sola risposta soddisfacente.

Parole

aprile 13, 2015

Mood: terso
Reading: Italo Calvino, Lezioni americane
Listening to: Paolo Nutini – Iron Sky
Watching: Kacper Kowalski’s
Eating: cioccolata, un pensiero fisso
Drinking: fiori ed erbette



A metà pomeriggio della domenica di Pasqua, sono stata sopraffatta da una domanda infinitamente pressante e ho trascorso minuti lunghi a guardare la neve cadere bianca sulle cime verdi di Sankt Georgen im Schwarzwald. Ho continuato a guardare anche quando i fiocchi hanno smesso di mulinare per aria e tutto si è fermato a respirare sommesso sotto una spessa coltre lattea. Perché la scrittura mi è venuta a mancare? Scrutavo il paesaggio – silenzio – e a ogni minuto che passava la domanda diventava più assillante, l’assenza di un qualsiasi confronto a tu per tu con le parole più pesante.
Mi dicevo: è perché sto vivendo con un tale slancio che diventa difficile trattenere qualsiasi cosa e, all’improvviso, di fronte a questa osservazione, mi sono sentita sperduta. Peggio della domanda che mi stavo ponendo c’era una cosa soltanto: non provavo alcun disagio. Ma pur sempre qui si parlava della perdita della scrittura, la scrittura! per cui da sempre ho un debole, un certo amore, una certa ossessione. E, si capisce, il fatto di non avvertire alcun disagio mi metteva a disagio, tutto ciò non so se è un bene, non so se è un male. Ma non è poi così necessario venire al bene e venire al male in questi termini.

Sono passata alle uova nascoste in giardino, al te nero con la torta al rabarbaro e al solletico tra le lenzuola pulite, alla fiducia nella felicità che provo d’istinto. E sono rimasta di nuovo con zero parole, ma come prima di domandarmi perché la scrittura fosse venuta a mancarmi, voglio dire serenamente. Ho idea che, se mi lascio respirare, le parole mi torneranno tra le mani.

Mood: appesentito
Listening to: Zoe Keating – Tetrishead
Eating: al di là di quello che potrei contenere
Drinking: poco




dorotea_pace_photography

Holland, Rijswijk. 1 luglio 2013

Umor acqueo

dicembre 9, 2012

Mood: acqueo
Reading: Vittorio Storaro, Scrivere con la luce
Listening to: Dillon – This silence kills
Watching: Amour di Michael Haneke
Playing: a star calma
Eating: bruschette
Drinking: camomilla



Ecco, la faccenda è che da qualche giorno il mio umore ha molto in comune con il vapore acqueo che si gonfia nel telaio della finestra del bagno quando la apro all’improvviso e le esalazioni di un bagno bollente alla lavanda impattano con il freddo che fa fuori meno un grado neve inclusa,

il vapore, dico, che si gonfia, sussulta di spavento e sfuma via, senza che io riesca a inseguirne una molecola soltanto perché qualche volta sento di avere gli occhi stanchi e allora allibisco nel telaio della finestra del bagno, dov’è quel qualcosa che prima c’era, ne sono sicura, e poi, puff, non più?

Però vabbè…

Holland, 8 am

ottobre 19, 2012

Mood: ansiogenato
Reading: Ercole Visconti, Parole illuminanti
Listening to: fringuellii e cinguettii
Watching: il sole, finalmente dopo giorni e giorni di pioggia
Playing: a dis-ansiogenarmi
Eating: involtini di melanzane
Drinking: latte e cioccolato, che domande?!




Holland, Rijswijk, 19 ottobre 2012, 8 am


È evidente che, negli ultimi giorni, sto esercitando le facoltà del silenzio più che quelle della parola. Allo stesso tempo, ho l’impressione di comunicare tante e tante cose.

Ma con buone probabilità si tratta soltanto di una mia impressione [non sarebbe la prima volta].

Finestre

ottobre 18, 2012

Mood: squilibrato
Reading: Ercole Visconti, Parole illuminanti
Listening to: il ticchettio dell’orologio della cucina, passi sul ballatoio, papà che dorme in camera da letto
Watching: Rune Guneriussen’s photography
Playing: a scontornare salamelle e caciottine in photoshop, alias le gioie del mio lavoro
Eating: torta al limone
Drinking: acqua




Holland, Rijswijk, my own home, 15 ottobre 2012

Holland, Utrecht, Eta‘s home, 17 ottobre 2012



Joseph Conrad si domandava come fare a spiegare a sua moglie che quando guardava fuori dalla finestra stava lavorando.

*

Io in questi ultimi giorni sto lavorando tantissimo.
Non faccio molto altro.

*

Nello specifico, le grandi finestre olandesi restano il trip per eccellenza.

*

[Forse] è arrivata la suggestione che mi mancava.
[Forseforse] l’idea.

*

Sono un po’ più felice.

Mood: sereno
Listening to: Awolnation – Sail
Watching: Asaf Avidan – Different Pulses / Official Video /
Eating: paglia e fieno alla boscaiola
Drinking: halfvolle chocolademelk con cannuccia





Mainz, Hotel Ibis, Room 251



Mainz’s Old Town



Mainz, Brooderie





Mainz, Marktplatz




Mainz, going to the Rhein


Mainz, Stephanskirche, Chagall windows



Mainz, restaurant

Mood: riflessivo
Listening to: gocce d’acqua nel lavandino
Watching: consueto disordine prepartenza
Eating: il frigo è vuoto
Drinking: latte fresco




Mainz, railway station



Frankfurt Stadion, railway station




Frankfurt, Shoppingmeile Zeil



Frankfurt, Kleinmarkthalle



Frankfurt, Eschenheimer Tor, Post-War New Town architecture and traffic


Frankfurt, marriage in Romer



Frankfurt, Eiserner Steg

Mood: affaticato
Reading: Ercole Visconti, Parole illuminanti
Listening to: The Lumineers – Ho Hey
Watching: Anna Ådén Photography
Playing: con le immagini
Eating: pastina al brodino, sinonimo di influenza
Drinking: brodino



Mercoledì mattina mi sono svegliata in pantofole. Fuori c’era la caligine accecante d’inizio ottobre a Milano – una peculiarità –. Ho trascinato il cervello stigio fino al primo caffè della giornata, cercando di persuaderlo a propositi di natura più operativa, ma già millantando vie di fuga di maggiore interesse, mostre, eventi, convegni.
Un’ora dopo ero in partenza per la Germania. Ho agguantato in volata la proposta di un passaggio in macchina direzione Mainz. Stava nell’aria da qualche giorno. Si sarebbe trattato di una toccata e fuga da due giorni in mezzo a sedici ore di autostrada.
Con me c’erano Arianna, Carlo l’amico di Arianna, Fabio il padre di Carlo che a Mainz lo aspettavano ragioni di lavoro. Quando abbiamo impilato i trolley nel bagagliaio della Ford e ci siamo avviati, la giornata era diventata assai calda. Il cappotto sarebbe servito solo qualche ora dopo.

Lungo le autostrade lombarde che portano fuori da Milano, il cielo si riempie sempre poco a poco di azzurro, come se la velocità dei mille viaggi intrecciati per ogni dove gli strappasse di dosso polveri e foschie. Alla frontiera con Svizzera, si è fatto largo anche il verde, cascando dalle montagne insieme all’acqua dei ghiacciai, prima smunto, poi acceso e macchiettato d’autunno giallo e rosso.
Abbiamo superato il confine da Chiasso, procedendo per Lugano e Bellinzona, un percorso già fatto quattro anni fa, in un’occasione molto diversa della quale non ricordavo nient’altro oltre la sensazione di un violento esilio emotivo, riverberato dalle barriere metalliche autostradali. Da sud a nord, lungo l’autostrada del San Gottardo, il paesaggio svizzero è fatto da mucche e laghi nella regione italiana, da distese di patate e lama nella zona tedesca. Le montagne accompagnano tutto il percorso attraverso la Svizzera, ma la loro altezza digrada, passando dall’una, all’altra, fino a sfumare nella verdeggiante pianura tedesca del Reno ai piedi della zona montuosa del Mittelgebirge, sempre uguale a se stessa fino a Mainz. Osservando, sulle linee fisiche dell’ambiente, si sovrapponevano nella mia mente tratti di rincorse [verso cosa?] impedite sul finire [o iniziare] da una ritorsione indietro, indentro. La radio passava “la meteo” e Una lacrima sul viso.

Dalle pagine che stavo leggendo.
“[…] gli aborigeni non potevano immaginare il territorio come un pezzo di terra circondato da frontiere, ma piuttosto come un reticolato di «vie» o «percorsi».
«Tutte le nostre parole per “paese”» disse «sono le stesse che usiamo per “via”».
Il perché si spiega facilmente. Gran parte dell’outback australiano era costituito da aride distese di arbusti o da deserto sabbioso; là le precipitazioni erano sempre irregolari e a un anno di abbondanza potevano seguire sette anni di carestia. In un paesaggio simile, muoversi voleva dire sopravvivere, mentre rimanere nello stesso posto voleva dire suicidarsi. Il «paese natale» di un uomo era definito «il posto in cui non devo chiedere». Però, sentirsi «a casa» in quel paese dipendeva dalla possibilità di lasciarlo. Ognuno sperava di avere almeno quattro «vie d’uscita» da seguire in tempo di crisi.”

Abbiamo raggiunto Mainz che era notte da un po’, le strade deserte come gran parte delle città nel Nord Europa in settimana dopo le otto di sera, le case tinteggiate di rosa e panna con intelaiatura a traliccio immobili con pochi occhi accesi nel buio.
Siamo andati per prima cosa in albergo dove Fabio aveva prenotato due stanze. Mi è bastato guardarlo in altezza e larghezza per sentirmi stretta, ristretta, costretta. Fino ad allora, l’ultima volta che mi ero infilata in un posto del genere risaliva a tre anni fa, a Nantes. Ciò che proprio non sopporto degli alberghi è l’idea di viaggio come di merce di consumo – una tra le tante in vetrina – sottesa a quella corporatura da incolonnamento di capsule stagne tutte identiche per un turismo di massa, reiterato senza la minima variazione in ogni parte del mondo. Sono uscita subito dopo aver posato i bagagli.

Agognavo la Germania da tanto tempo. Un giorno – ero ancora al liceo – una delle poche personalità di grande importanza nel mio percorso formativo raccontò alla classe di un viaggio a Berlino e de Il Secolo Breve di Hobsbawm. Ci disse, Berlino è una città ferita e questo è palpabile ancora oggi, dopo la guerra, dopo il muro, dopo tutta la storia tedesca, non c’è un solo angolo della città che conceda di ignorarlo. Sono certa che la mia attrazione per la Germania sia dipesa da questa osservazione.
Poi, due anni fa, di passaggio per andare a Rijswijk, scesi per la prima volta a Weeze, l’aereoporto di Düsseldorf. Lì, non appena fuori dall’aereo – lungo il percorso che, segnalato da strisce bianche e transenne di metallo, porta in colonna dalla pista d’atterraggio alla sala degli arrivi, nel buio freddo illuminato a crudo dai neon degli interni e dalle luci degli aereoplani – avvertii davvero il presentimento di qualcosa da approfondire al più presto, l’impatto immediato di un’onda frequenza emotiva molto, ma molto bassa contro il petto, qualcosa che mi fece stringere nelle braccia.
Credo di non aver mai più potuto prescindere dall’immagine della ferita di Berlino, neanche quest’ultima volta.
In due giorni in Germania, ho leccato piombo sotto la lingua.

Mi sono mossa tra Francoforte e Mainz senza studiare gli itinerari per lasciar lavorare le impressioni. Ho prestato molto ascolto con orecchio mite. Al respiro sommesso che si annida nei casermoni di periferia con i filari di finestrelle frantumate. Alle stazioni sconfinate con le decine di binari interrotti e vagoni inutilizzati. All’allineamento massiccio dei tralicci dell’alta tensione che intelaiano sul cielo centinaia di cavi di ferro carichi di uccelli neri, tutto immerso in un grigiore fumoso, impiastricciato da aloni di lampioni alogeni. Alla vicinanza fragorosa tra i palazzi nuovi, gli edifici storici e le strutture ricostruite, dove mi è parso di poter toccare ancora gli sconfinati spazi vuoti e le macerie lasciate dalla seconda guerra mondiale.
Ho dato fiducia all’udito più che a ogni altro senso perché in Germania il silenzio fa impressione. È materico, ha profondità spaziale, si prende tutto quello che c’è intorno, diventa tutto quello che c’è intorno, spazi urbani, sale da cafè, carrozze del treno, volto occhi grandi di una donna di mezza età che sorride con discrezione. Avrei voluto avere con me un registratore, prima ancora che una macchina fotografica. Sarebbe stato uno strumento più discreto, più adeguato per raccontare quello che ho visto.

In Germania, c’è qualcosa che chiede, impone di essere compreso, con un’intensità che non ritrovo in nessun altro luogo dove sono stata fin’ora. A primo impatto, le sue sono maniere da penetrazione che non comportano la grazia della compenetrazione. Mi sono sentita presa da un disagio bastardo e un’inquietudine febbrile – mi sono mossa con le spalle contro i muri – e da multipli processi di congestione – mi sono messa sulle spalle il cappotto.
A posteriori, sono ritornata più e più volte in Germania con la memoria, cercando di scandagliare e razionalizzare le percezioni sfuggenti, ma animose che mi si sono stipate dentro. Ho vagliato gli appunti fitti, ho richiamato l’aria tedesca nelle orecchie e nei polmoni. Ne ho discusso più e più volte con persone diverse. Ci ho camminato su. Le idee migliori mi arrivano chiacchierandone – e muovendomi.
Può darsi che due soli giorni non siano sufficienti per parlare con coscienza di un luogo. Questa idea mi sta ossessionando, a maggior ragione perché in Germania, per la prima volta mi sono sorpresa a domandarmi quali fossero i rapporti di forza in atto nel mio sguardo: per certo ho risentito del condizionamento culturale dovuto a ciò che la storia mi ha raccontato della Germania, ma ho anche avvertito subito la sensazione di un luogo con un’identità storica e culturale così circostante e così densa da sbattermela in petto nel giro di pochi secondi, senza preamboli e edulcoranti, che è l’atteggiamento di ciò che ha consapevolezza di sé e del proprio valore.
Ci sono persone pronte ad acclamare alle vergogne tedesche – dimenticando per altro cose di alto pregio a caso come l’arte e la filosofia che in buona parte sono germogliate in quelle terre –. Per quel che mi riguarda, da tempo sono matura abbastanza per non indulgere in coppie di concetti ossimorici come “buono” e “cattivo” o “bello” e “brutto” che aspirano tutto il senso più profondo di una problematica.
L’identità storica e culturale tedesca è un fatto e ho l’impressione – se soltanto di impressione per ora posso parlare – che lo sia nel “buono” e nel “cattivo”, nel “bello” e nel “brutto”, soprattutto nell’interstizio tra i due, dentro la ferita lasciata dagli ultimi decenni. La Germania che io ho visto è quella che, nel “buono” e nel “cattivo”, nel “bello” e nel “brutto”, sta tutta quanta raccolta, stretta come un pugno. Quella che, nel “buono” e nel “cattivo”, nel “bello” e nel “brutto”, emana solennità e austerità, mestizia e dignità senza precedenti. Soprattutto pudicizia.

(Oltre che quella della birra a litro, delle uova strapazzate e del formaggio – a colazione –, della kartoffeln, della flummkuchen, del bretzel, della soup di pomodoro,
e dei viaggiatori irlandesi dagli occhi azzurri come il mare e i denti storti come le sue onde)

Legge costituzionale

dicembre 29, 2011

Mood: compagnone
Reading: Chatwin, Che ci faccio qui?
Listening to: Tom Waits – Time
Playing: a correre nel vento per le strade di Delft
Watching: fulmini in lontananza
Eating: cheesecake da Uit de Kunst
Drinking: cappuccino



Che in me i momenti del piacere siano annodati all’esplosione in gola delle sacche del dolore in quarantena è una legge non scritta.
Perciò adesso non mi sorprende la sensazione tutta fisica dell’anima che si lacera in più pezzi senza preavviso in momenti impensati della giornata, facendo i salti mortali tra le cime del piacere, per l’appagamento e per tutte le prospettive che sta fruttando il mio lavoro, e le slavine del dolore, per quello che è caduto a pezzi e per quello che forse verrà, ma intanto si ostina a mancare.
Nella mia realtà del momento, i cambiamenti si incuneano con una rapidità da capogiro, qualcuno lo graffio dalla pietra dei giorni, qualcuno mi capitombola in braccio e lo puntello. Entusiasmo, fierezza, timori e incertezza si fondono insieme e fin qui niente di strano, ogni sentimento rende possibile il dannato vivere.
Ma spesso, alla fine di un giorno qualunque, dopo aver tanto corso e tanto sudato energia, mi sento persa. Nel mezzo è capitato più volte di aver lasciato cadere un sassolino lungo l’aorta, sperando negli angoli più buoni per poter rimettere ogni cosa e cercare conforto, leggerezza o semplice e ineducata condivisione. Altrettante volte è capitato di sentire ritornare solo le eco stridenti dei luoghi del cuore che un tempo furono giardini e ormai sono deserti sconfinati.
Con i tempi che corrono sarebbe meglio tenersi vicini, scaldarsi col fiato. Allora com’è che i doppi legami in cui mi cullavo giacciono sfilacciati nella terra e già ingrassano i primi giacinti? Ricordo sorpresa di aver creduto in ognuno di quegli amabili avanzi così tanto da sentirmi troppo piccola per non correre il rischio di esplodere. Sono consapevole che qualsiasi cosa finisce, ma come può qualsiasi cosa finire? È come prendere nello stomaco un pugno e vedere dischiudersi un gorgo. Rimpicciolisco. Mi risucchio al centro. Ed esco dalla felicità. Se c’è una cosa che mi fa male è non capire dove, quando e perché le direzioni sono diventate opposte. E valicando i patetismi di un necrologio qualunquista, scivolo in una delicata rassegnazione. Mai, prima d’ora, mi era capitato di sentirmi così.

Ecco, bisognerebbe che io sondi e argini una volta per tutte il meccanismo per il quale un’ondata di gloria non possa restar tale per più di un secondo prima di sprofondare in una qualche falda putrida. Bisognerebbe perché inizio a esserne stufa. L’udienza è aperta.
Per mirare il nocciolo della faccenda, non mi nascondo che tanto sono tronfia di gratificazioni lavorative, tanto sono sul lastrico dei sentimenti. Ma se c’è qualcosa di puramente umano, questo è l’incapacità di sorridere davvero alla vita quando i ritagli più intimi ed emozionali dell’esistenza sono scoperti al freddo. D’altra parte, con me il gioco è particolarmente facile. Qualunque idiota potrebbe intuire che il mio punto di massima vulnerabilità e contraddizione è negli affetti. In tutta onestà, ho un talento particolare per le circostanze squilibrate. Forse un istinto naturale.
Certo, adesso potrei lasciarmi andare ai venti nuovi che soffiano da ovunque, stringere legami più freschi, mappare nuovi riferimenti. Non mi diverte stare inchiodata mani e piedi a far arieggiare il cuore dalle scie degli amori persi. Vorrei anch’io sapermi concedere l’occasione per bruciarne di nuovi. Ma è come se, al momento, la mia anima fosse priva della capacità di avvicinarsi veramente a qualcuno e di incastrarsi.
Perciò, quantunque mi sfogli la pelle con scrupolo, il volto più viscerale della mia vita resta, fuori da un taglio qualsiasi di luce, con le orbite senz’occhi. E date le circostanze, quel sentimento di nuda verginità in un presente che non mi è amico, rattoppo i pozzi profondi che, fissandomi, m’affliggono con tutto ciò che di più vicino all’umano raggranello in fretta sui lidi della mia anima, sassi e conchiglie per lo più, postumo, spurgo, rimasuglio, sedimento di vecchi fiati e battiti cardiaci. Presenze che testimoniano assenze, assenze che riempiono vuoti. A ognuno il suo personale portagioie.

Ordunque si manifesta il valore costituzionale della legge non scritta per la quale in me i momenti del piacere sono annodati all’esplosione in gola delle sacche del dolore in quarantena.
Eppure sarei ingenua a pensare che non c’è modo di andare al di là. Dopotutto, in questo mondo non esiste legge, finanche la più costituzionale, non aggirabile con un affabile cavillo da azzeccagarbugli. Forse questa storia ha che fare con la meschinità più di quanto non voglia riconoscere. Più di quanto non voglia riconoscere, ho detto. Ebbene. Mi calo nell’etilene, poi di faccia in un cesso e mi assento dalla dignità. Faccio passare la notte. Epuro lo stomaco dei succhi gastrici. All’alba ho passato troppo tempo spezzata in due per voler continuare come fin’ora. Perché credere di poter riempire le mancanze con le assenze, perché se una vita può esser piena di presenze? A volte devo fare qualcosa di molto brutto quantomeno per farmi forte di una serenità nuova e accomodarmi quelle stesse possibilità che ho troppo ostacolato. Non so granché, soltanto che andare da questo luogo a un altro, quale chissà, mi bacerà, nutrirà, terrà viva.
L’udienza è sospesa.



[in merito a questa storia, si ringraziano – con tutto il cuoricinoinoino
Lou e Yanna per la luminosa sempreveravicinanza]

Mood: taciturno nauseato
Reading: quello che Lou mi scrive in chat, facendomi ridere a orari improponibili
Listening to: Laura Pausini – Bastava (e sì, lo so che Laura Pausini è nella tripletta primordiale dei cantanti italiani che mi stanno sul culo, ma questa canzone è una storia a parte perché il testo è di Niccolò Aglierdi e lo sento molto mia in questi giorni dalle ri-considerazioni affettive. E sì, la canto pure. “Bastava fare a meno delle buone maniere”)
Watching: le vetrate illuminate dei palazzi di fronte
Playing: a ficcanasare nella vita degli altri con papà, grazie feisbùc!
Eating: tortelli in brodo
Drinking: te







‹‹Abbine cura, questa ferita sta andando in cheratosi.››
‹‹Che benedizione!›› Se continua a creparsi, questa volta è perché i nuovi albori premono per germogliare in un sangue purgato. E qualcuno già s’insinua e gorgheggia.

Non mi sono mai considerata una dai modi gentili con se stessa, tanto più nel dolore. Per questo mi piace pensare alla mitezza inaspettata con cui oggi affronto i pungoli tra cuore e cervello, quando penetro nel buio attraverso la gola della ferita più fresca e ne traggo chiarore da spargere fin nel movimento più minuto. In questo ritrovo bellezza. Non più nell’essere coperta di lividi, di rabbia e d’orgoglio.


Questo pomeriggio, in un parco a Rijswijk ho anche visto un uccello ignoto che sembrava una fenice. Una creatura spaventosa e attraente da perfetta sconosciuta.

Zalig Kerstfeast

dicembre 25, 2011

Mood: silenzioso
Listening to: detonazioni nel silenzio
Playing: a conquistare regali lanciando un dado, ché in Olanda pare i regali ce li si scambi così. Degno di nota è il mio nuovo Big Willie, the Hip Hop Dancing Rock Dick, eggià.
Eating: senza pretese
Drinking: caffè



Sto riflettendo sul fatto che la tavolata incerta sotto il peso delle pescagioni sfilettate e lo scatolame imbellettato in carta color flusso mestruale sono i presupposti rivelatori del Natale. Dubito mi stia sfuggendo qualcos’altro. Forse il Nessun dorma in tivvù?

La prima fortuna è che sono vegetariana e balzo a pié pari la minaccia delle palate di grasso fritto sul culo, confidando in una cenina alternativa di funghi e pane tostato, più torta glassata come unica nota dolente in chiusura.
La seconda fortuna è che nel mio scatolame imbellettato color flusso mestruale, mia sorella ha nascosto una take away cup coffee in porcellana a pois colorati per avere sempre con me il caffè caldo. Credo volesse conquistare il podio nel mio Olimpo.

Per tutto il resto c’è sempre il silenzio pudico di un’ordinaria notte in bianco alla fine della sbafata.
A dire il vero, aspettavo con impazienza il Natale per cibarmi di calore familiare. Poi ho scoperto di aver bisogno soltanto di restare chiusa a riccio.

Se stanotte nevicasse nel vento, sarebbe tanto bello.
Vorrei ritrovarmi nel bianco con la paura fottuta e la voglia bastarda di lordarlo e tinteggiarlo.


Comunque, in olandese, Buon Natale si dice Zalig Kerstfeast.
Io lo auguro, ché a dispetto del simil-cinismo, il venticinque di dicembre non ce l’ho sul groppone.

Cut Off c’è

novembre 24, 2011

Mood: tendenzialmente ansioso e dolorante
Listening to: la lezione del giovedì pomeriggio con un orecchio solo
Watching: Melancholia, di Lars von Trier
Eating: bisogna che lo faccia ancora effettivamente
Drinking: caffè



Urca! Ho mantenuto la promessa. Cut Off è online prima della fine della settimana. Piovono coriandoli.
Siccome ne ho già parlato fin troppo, semplicemente, eccoci.





Grazie.


Mi sorprende sempre un po’ la paura che nutrono gli uomini nei confronti del silenzio, la loro tendenza a saturarlo di musica e parole, come se da sè non facesse già rumore più di qualsiasi altra cosa.
Che poi io ho peccato di tendenze opposte e a ventidue anni mi ritrovo a dover fare amicizia con le parole per sfuggire a certe ambiguità asfissianti. Ma queste sono altre storie.

Insomma, Cut Off non è per caso. Ne ho sentito discutere e ne ho discusso tanto, lungo questi mesi, e per me è stato utile e piacevole. Perché, che sia più o meno riuscito o più o meno comprensibile, io Cut Off me lo sono strappato dalle budella. E come me, Zulio.

A tal punto, rimando anche all’illustre backstage quanti se lo fossero persi!

Mood: ovattato
Reading: Salvador Dalì, La mia vita segreta (ancora e di nuovo)
Watching: Variabili Umane, della compagnia teatrale Atopos, per la regia di Marcela Seri. Chiunque ne avesse l’opportunità, vada a vederlo! Al momento è in scena al Teatro Ringhiera di Milano. (“Un canto di esseri umani. / Un canto d’amore e d’odio per “essere” umani./ Una dedica all’incomprensione. / Un canto per chi non capisce. / Un urlo di rabbia, di vita. / Un urlo parossistico, fottutamente indigesto./ Una danza di corpi buffi e belli che desiderano essere amati. / Una tragicommedia sull’ignoranza e una ricerca continua… / Chi sono io veramente? E ciò che sto guardando: sei tu o sono io? / Le variabili umane entrano nelle menti come un elettroshock. Guardami! / Guardami: cosa devo fare per farmi amare?”)
Eating: cioccolata Lindt
Drinking: te







Nessun dubbio all’orizzonte, sono io. Io, proprio io, me mededima.
Appunto perché, appunto… appunto.

Insomma, lo diceva sempre mia mamma! Me ne sto attaccata al riccio come Linus alla coperta. Al riccio, sì. Uno specifico, sempre lo stesso. Sulla spalla a sinistra quando avevo i capelli lunghi, in cima alla capoccia da che ho tagliato i capelli, per altro scomodissimo, ma tanto meglio la fiacchezza muscolare di un esaurimento nervoso. Dopotutto ognuno ha i suoi personali anti-metodi da stress communis.
Appunto perché, appunto… appunto.

Potrei vivisezionarmi, elencare i fatti, farne la disamina ed emettere il rapporto patologico. Ma nell’ultimo periodo, non sono il meglio sul mercato con le parole. Sto sperando in una svendita da fiondarmici e farne mambassa. Intanto, meglio passare la frequenza a qualcuno più appropriato al caso.






Appunto perché, appunto… appunto.

Mood: quieto e stanco
Listening to: le prime sei ore di lezione consecutive dell’anno, stranamente con molta attenzione sottolineerei
Watching: I love Radio Rock, di Richard Curtis
Playing: con Lou a stilare una lista totalmente inutile di film visti, ricorrendo solo alla memoria
Eating: minestrone ai cinque cereali
Drinking: la birra quotidiana dell’ultimo periodo, poi mi lamento della panzetta






Si definisce “transizione di fase”, in fisica e in chimica, o più comunemente “cambiamento di stato” la trasformazione di un sistema termodinamico da uno stato di aggregazione ad un altro. Per dirla in una maniera che mi piace di più, si definisce “transizione di fase” quel processo per cui, posto il movimento come condizione necessaria, un sistema che in prima analisi tende ad una sua propria regolarità, si rompe improvvisamente e repentinamente per assemblarsi solo successivamente in una nuova forma di equilibrio e così di seguito, senza mai giungere a conclusione effettiva. Non è necessaria una veggente per capire che preferisco questa definizione perché esprime senza alcuna ombra di dubbio il legame del principio fisico e chimico con la vita stessa – e sticazzi! non avrei mai scommesso che sarebbe arrivato il giorno in cui avrei creato un ponte da parte e parte!


Non resta che dichiarare che questo è per me un momento di delicatissima transizione di fase in cui ‹‹non so›› è l’ordine del giorno, ‹‹bene›› e ‹‹male›› sono azzardi entrambi. L’impressione è quella di stare appesa per un capello sulla vita con il culo al vento, nella speranza che una folata imprevista mi butti di sotto. Soprattutto quassù si vive a comparti stagni.

Lavorativa-mente parlando, è come aver dato una capocciata alla giusta tessera del domino ed è tutto un gran darsi da fare ed sperare nelle opportunità che piovono di giorno in giorno, con un’energia propositiva che è paradossale anche solo a dirsi nell’Italia dove tutto sta rotolando a puttane senza freni. Storie da Fantabosco e gran culi rotti, insomma! Non fosse che – essì, i “però” fanno sempre da pandant alle faccende della vita – in mezzo ad una valanga di progetti totalmente differenti, ma ugualmente complessi, la testa minaccia a schiaffi e urla di diventare un colabrodo, buono solo a cagare acqua sporca e qui mi fermo, che in merito mi sono già sfogata. Non si deve poi sottovalutare che in questa dimensione, il lavoro non si contempla a tempo contrattuale, ma a trecentosessantagradi e ventiquattroacca su ventiquattroacca così che quello del lavoro diventa il tempo stesso della vita. Ma questo, chiunque dovrebbe essere d’accordo con me, non è una storia da Fantabosco e da gran culi rotti perché, fatta salva la passione, ché io al momento ho la stragrande fortuna di lavorare per passione ed emozione, nel tempo di una vita di un uomo c’è bisogno anche, chessò, per farla banale, del tempo per passeggiare senza meta e fermarsi di fronte alle vetrine dei negozi, per chiacchierare di tutto e niente con gli amici su una birra al bar, per fare l’amore e restare nudi e vicini dopo l’orgasmo, cosette piccole, ma dannatamente essenziali. Umana-mente parlando, non si vive mica di solo pane! (ce lo metto perché ci sta a pennello e perché uno di questi pluriaccennati lavori riguarda proprio il pane, ma questa è un’altra storia e per ora non la racconto)
A questo livello, quello dell’umana-mente parlando, la questione si acuisce per complessità, è come vivere una convalescenza perpetua e perpetuata in cui lo scricchiolio delle crepe accumulate nell’intimità perdura, ma rivelandosi meno intenso di giorno in giorno, va a finire che io puntualmente mi spacco tra la voglia di continuare ad arginarle con gocce di miele per salvarmi e racimolare l’energia necessaria per una corsa nuova e il desiderio opposto di insistere a cibarle di nostalgia per restare al riparo delle costanti che, per quanto taglienti come lamette, inscrivevano i flussi della mia vita all’interno di uno schema di punti più o meno stabile, ma anche per non affrontare il crollo di tutte le illusioni romantiche da “per sempre”, sì, le ho persino io!, ché l’amore in tutte le sue sfumature mi confonde e quando non lo ho più, mi scervello per non disperdere quanto ho sentito nel profondo e per incanalarlo in nuove forme. Benchè dolorosa, stiamo pur sempre parlando di vita vissuta e cara al cuore. Il mio problema è che guardo troppo in alto, gioco per sbancare la cassa e regolarmente perdo il senso di qualsiasi limite prima di tutto personale, volevo solo essere immensa, che gran pezzo d’idiota!, per questo ogni fallimento conseguente è troppo violento e il mio metabolismo inadempiente su tempistiche mignon.
Quindi respiro, ma afissio, mi muovo, ma sto ferma, vorrei balzare su un treno, ma più di qualsiasi altra cosa aspetto, paziento nei miei affetti come una Penelope, osservo ed ascolto di amori bellissimi e mi sazio, poi mi stanco e mi nauseo come un guardone incollato da troppo ad uno spioncino, allora stordita ed incazzata sento il peso di tutte le cose desiderate che sono passate e se ne sono andate senza che io le intascassi e di tutto il tempo che ho sprecato a leggere negli eventi prima di viverli, intendiamoci, per esempio, ho conosciuto l’amore, ma, prima ancora che mi dicesse “ciao”, gli ho innalzato una tomba sacra con tanto di epitaffio di pessima qualità, ché all’epoca ancora non sapevo che le poesie si scrivono fino a diciott’anni, dopo di che o sei un idiota o sei un poeta e gli idioti in media sono il novanta per cento della fauna, ma io quando ho scritto queste quattro parole in fila avevo diciassette anni e sono giustificata. Potrei spremerti, cuore, / conficcarti le dita nelle viscere, / fino a sradicare, in effluvio / di sangue, il seme ch’ora / ti pompa, sempre più rapido, / svuotandomi d’aria.
S’è forse fatta alata la larva?

Bene, cioè male, o forse né male, né bene. Semplicemente una storia. Per certo è paradossale voler conservare nel sangue come il più prezioso degli atomi quanto elargisce cancrena. Mi sento vecchia, grinzosa e narcolettica, non ci sto. Dovrei evacuare i fiumi rossi dal superfluo, per l’appunto, principalmente avrei bisogno di sfogarmi, ma a furia di spremerle in un catino, ho inaridito entrambe le ghiandole oculari, a meno di non voler considerare pianto quel conato di singhiozzi asciutti che mi assale di tanto in tanto quando mi chiudo nel cesso e mi calo i pantaloni per pisciare e si esaurisce pure in pochi secondi, che poi ancora non me la sono spiegata del tutto l’associazione singhiozzi-cesso. Ma non solo le lacrime spurgano le tossine, dovrei trovare la mia pratica ludica di liberazione personale. Perché voglio tuffarmi nella vita come un cucciolo d’uomo appena sgorgato dalla terra e rabbrividire fin nelle ossa di umanità, è impellente.

Poi c’è questa storia che qualche giorno ormai mi sveglio ansimando ancora per l’eco di sogni sgradevoli e avverto, attorcigliata con le viscere, l’esigenza di slanciare il corpo nello spazio. Allora cosa faccio? Mi metto a ballare e a ondeggiare lungo tutto il giorno per scongelare i muscoli e snodare le ossa e sudare tutte le tensioni ed il patetismo che ho accumulato negli ultimi giorni. Ballo da sola, con la caffettiera, col nelsen piatti, con i vestiti appallottolati, con gli attori di I love Radio Rock, sulla musica e sul silenzio, ovunque e senza freni. Ritualità da tempi andati, ma per certo efficiente.

Mood: stralunato
Playing: a rimettermi in forma
Eating: me ne sono dimenticata
Drinking: succo di frutta all’ananas







***

Il mese scorso ho scattato per la prima volta un Autoritratto e mi è parso onesto affiancargli l’aggettivo “Provvisorio”. Ieri poi ho scattato quest’altro Autoritratto ed ancora una volta mi è parso onesto affiancargli l’aggettivo “Provvisorio”.
Ebbene, sto riflettendo nelle ultime ore sulla possibilità di scattare un Autoritratto Provvisorio al Mese, trasformando la faccenda in tradizione, per non dire in nuovo progetto personale.
Ultimamente apprezzo molto il termine “Provvisorio” perché racchiude tutta la parzialità e, nonostante ciò, tutta l’intensità e tutto il valore di un attimo nel prospetto della mia vita intera e presuppone un naturale cambiamento. Sicché la natura degli Autoritratti Provvisori non è che l’istintività del mio bisogno contingente di esondare in seguito ad un accumulo emotivo diventato ingestibile.

Infine, a questo giro, un contenuto extra.



Usciti inconsapevolmente durante le prove dell’Autoritratto, questi sono i miei cosiddetti e plurifamigerati tra chi mi conosce occhi da donna pesce. In verità sono solita sporgerli e storcerli molto di più ed accompagnarli con la danza più scoordinata ed ondeggiante che mi riesce sul momento.

Per te, che sai chi sei, perché appena li ho visti non ho potuto fare a meno di pensare al nostro più semplice star bene insieme. Che poi, se l’avessi dedicata a qualcun’altro, chi ti avrebbe potuto sopportare?!

Mood: incerto
Reading: blogs di altra gente
Listening to: le automobili che sfrecciano sull’asfalto bagnato
Playing: a sperimentare
Eating: tra poco, da Zulio che sta preparando taaaaaante cose buone
Drinking: acqua






Mood: sereno
Reading: Salvador Dalì, La mia vita segreta
Listening to: Giorgia – Il Mio Giorno Migliore (“a me basta trovarti stanotte ai confini/ dell’essere o non essere / dammi un attimo e arrivo / mi vesto di scuro”)
Watching: vecchie foto, riorganizzando l’hardisk
Playing: senza tregua
Eating: spaghetti e polpette
Drinking: caffè







Venezia













Bassano del Grappa – Monte Grappa (Vi)





Monopoli (Ba)


Alberobello (Ba)


***

‹‹Possiamo toccare l’immenso e farci mancare altrettanto›› canta Niccolò Agliardi, sono un po’ in fissa con i suoi testi nell’ultimo periodo, lo ammetto, nel caso in cui non si fosse capito di già, ora ho persino un paio di grosse cuffie per immergermici, me le ha regalate Zulio.

Allora, nella mia instabilità spazio-temporale, adesso non è per caso se guardo il mondo attraverso un obiettivo grandangolare e ritraggo paesaggi, volti quasi nessuno, visioni d’insieme piuttosto, terse dal vento e dall’acqua, non è per caso se carico i colori per poi desaturarli, non è per caso se queste immagini mi sembrano tecnicamente ed emotivamente ancora troppo mediocri, ma mi offrono le motivazioni di un ben più ampio progetto fotografico (anche in vista di un esame di fotografia che si avvicina sempre di più e per il quale sono in fase di ricerca da mesi.).


Intanto sono tornata in Puglia da una settimana e domani riparto, questa volta in verità non troppo lontano dalla mia casa materna e per lavoro. Ci sono due ragazzi molto in gamba, Gianvito ed Alberto si chiamano, ma sono un duo così ben assortito che a volte mescolo i loro nomi e li chiamo Gianberto e Alvito, insomma, ci sono questi due ragazzi che si sono messi in testa di fare un film, Mozziconi, con Gianvito alla regia ed Alberto alla fotografia, e a Laura e me è venuta la possibilità bella, bellissima di assistere, Laura alla regia, io alla fotografia, sicché domani si va per le prime fasi produttive di questo grande lavoro, che per una serie di problematiche e difficoltà purtroppo di routine, non è ancora il film vero e proprio tutto bello concluso, ma il teaser da proporre a una qualche produzione
Tocca salutarci ogni dieci giorni, mi ha scritto l’amico mio Francesco-Poppi. Mi sono fatta una risata. Da grande farò la nomade, più di questo non mi sono mai posta il problema di sapere a riguardo del mio futuro.

Mood: rintonito
Reading: Quando si perde l’occasione di tacere, un minuto di silenzio, no, di più, molto di più.
Listening to: Coldplay – Every Teardrop Is A Waterfall
Watching: le pareti troppo spoglie di questa casa
Playing: a cacciare insetti indesiderati ed indesiderabili
Eating: Tuc donatimi da Zulio prima di balzare sull’ennesimo treno, in alternativa acqua salata con la forchetta, ovvero la gioia di tornare a casa a Milano per una giornata appena, sapendo vuota tanto la dispensa, quanto il portafogli
Drinking: acqua naturale



Se di nuovo mi diletto a vagabondare senza mai predefinire con troppo anticipo il momento di uno spostamento, tirandomi dietro una valigia riempita senza criterio un pomeriggio d’inizio mese, all’improvviso e da allora mai svuotata in un armadio qualsiasi, foss’anche quello della mia casa materna, è a causa di una sensazione di disagio ed irrequietezza tanto violenta da diventare nausea fisica, che mi riconduce a star bene in tanti luoghi piuttosto che in uno solo, cogliendo di ognuno le visioni e gli umori, ma andando via prima di anche solo correre il rischio di vederlo sfiorire giorno dopo giorno, fors’anche di vederne schiudersi le gemme. Non solo. Ci sono una manciata di momenti ben localizzati nella mia vita ultima, a partire dai quali ogni risveglio ha iniziato ad agitarsi nell’urgenza spasmodica di vivere e vivere per intero, di circoscrivere in un angolo soffice del cuore tutto quanto fin’ora è stato ed ho amato e tutt’ora amo di più, ma che in un modo o nell’altro, per un motivo o per l’altro mi ha frenato il passo, mentre la vita mi passava sotto il naso più e più volte ed io la lasciavo andare. Circoscrivere in un angolo soffice, che non significa chiudere gli occhi e rinnegare un’importanza o cercare di dimenticare, non è nei miei tentativi, né mai sarebbe impresa possibile, piuttosto ridimensionare sullo sfondo eventi e figure in primissimo piano con cui ancora fatico a fare i conti, quindi portare dentro ed andare avanti, lasciando che il tempo muti lo sguardo ed il sentimento per poter esserci ancora, ma libera da ansie o aspettative folli, ho bisogno di ciò che amo, ma non voglio più aver bisogno di ciò che non posso avere così come lo vorrei, è pura insania. Prendo le distanze da tutto quanto fin’ora è stato ed ho amato e tutt’ora amo di più per curiosità e speranza e fiducia di ciò che ancora deve venire perché c’è sempre qualcosa che è ancora a venire, sempre qualcosa che ancora non s’è fatto e visto e ascoltato e assaggiato e toccato e odorato o semplicemente non a sufficienza, l’uomo che seduto per terra canta per sé soltanto e per la notte accompagnandosi con la chitarra, la malia del bucato appena steso ad asciugare e delle creme da corpo lungo le calli, l’immobilità di una mendicante nel tramestio dei turisti, la malinconia di un vaporetto a festa finita, certa musica in una terrazza sospesa sull’acqua come lingua languida, l’ebbrezza nella pioggia e nel vento forte che scompone la carne, il respiro della montagna, le cartografie luminose a valle quando cala la notte, la grappa al liquore, l’albero solitario negli ultimi accenni del tramonto, le vibrazioni dell’aria all’avvicinarsi della tempesta, la tazza di caffè bollente come un focolare, la coppa di un fiore che si scompone ansimante quando un’ape vi si immerge, la confidenzialità di certe discussioni, il rifugio con il camino acceso, i canti degli alpini che dal fronte vogliono volare dalla loro bella, la curiosità di un bambino nei confronti di una bambina che lo ignora, la crostata di more e mirtilli, il silenzio carico di emozioni prima del lancio di un parapendista e lo schiocco del vento che gonfia la tela, la vacca che allatta il suo vitello e lo protegge da sguardi indiscreti, il ragazzo che da me non vuole nient’altro che potermi aiutare con la valigia più grande di me all’uscita della metro, certe parole nella posta privata di feisbùck, nel dettaglio più insignificante, che sia per caso o per intenzione, ci può essere la comunione di più intimità, l’amore quel pluricitato, in verità l’amore è sempre laddove si è pronti a riconoscerlo. Quanto siamo banali, noi uomini, tutti bisognosi d’amore!, ci spingiamo a cercarlo per miglia e miglia perché ce lo immaginano immenso e brillante come una Via Lattea, l’amore, e non siamo capaci di renderci conto di quanto ci stia vicino, ché lui, l’amore voglio dire, sta nelle cose immensamente piccole di ogni giorno, e mentre così ciechi scalpitiamo e ci dimeniamo come tartarughe obese in un acquario troppo piccolo, ci inaridiamo, un pertugio di cuore oggi alla rabbia, uno domani al rancore, cesellati ed articolati ad arte attorno ad un tavolino mentale esclusivo. Ci inaridiamo per amore, noi uomini, grandissimi imbecilli che non siamo altro, capaci di scappare davanti all’amore! Eppure, ho l’impressione che tutto quello per cui vale la pena viversi questa vita sia proprio l’amore per quello che è perché non c’è viaggio più breve della vita per consumarlo in cantina.

Ammetto che è stato un fiotto di rabbia a lacerarmi senza troppi preavvisi da tutto quanto fin’ora è stato ed ho amato e tutt’ora amo di più, ma nella mia rabbia c’era e rimane tutta la nenia disperata dell’amore vissuto e sognato e negato e semplice e articolato e delicato e violento e fraterno e passionale e via così.
Perciò in questa scarpinata sulla distanza, tocca fare i conti non solo col desiderio di allontanarmi ed allontanare da me per guadagnare terreno sulle possibilità della vita, ma anche col dolore che procura allontanarmi ed allontanare da me. Penso che sarebbe bello al massimo se ad accompagnarmi ci fossero solo la consapevolezza di una necessità propulsiva improrogabile e indiscutibile e la curiosità e la speranza, ma un passaggio così lineare tra i giorni non potrebbe mai essere il mio perché di me fanno parte il conflitto e la complicazione, motivo per cui mi affatico, trascinandomi dietro un nugolo recalcitrante di ossessioni che mi richiamano indietro, gli odori in primis, che sempre io avverto troppo saturi ed allego ad immagini e suoni e sensazioni, gli odori nel tempo, riconosciuti per strada e riscoperti intrappolati tra le pieghe dei vestiti e negli angoli delle case che appena s’inviano su per il naso arrivano dritti al cuore e lo intasano, spezzando il rosario di pietra incandescente che custodisco all’interno e rovesciandone tutti i grani sottopelle, tum tum tumtum tumtumtum, sbam!, il terrore puro e asfissiante, acquattato nei sogni di ogni notte e sempre più ingestibile, che qualcosa o qualcuno faccia male ancora a chi più amo, secondo l’interpretazione dei sogni dovrei lasciar che nel sonno succeda tutto il peggio, finanche la morte, perché questo significherebbe la capacità conquistata di accettare una rinascita reale, evidentemente io ne sono ancora nuda, di contro ogni volta che salgo in una macchina l’immagine costante di un incidente stradale, lontana da tutto e tutti e a mani vuote e senza voce perché non avrò saputo raccontarmi.
Senza voce.
Senza voce…

Rifletto su quanto la mia esuberanza possa essere anche una talentuosa apparenza in cui si inabissa una delicata propensione implosiva. Ho imparato da subito a non temere il silenzio, a camminarci attraverso, senza l’affanno di riempirlo oltremodo ed inutilmente di parole e musica. Nel silenzio sento la vita in espansione ed è una sensazione essenziale e quasi misterica, come se vivessi tante vite in una sola, io esisto, esito e voglio esistere sempre di più perché in me l’esistenza racchiude una potenza febbrile che non coincide con la felicità e la leggerezza che sento spesso mancarmi, ma che le contiene entrambe assieme al dolore, l’esistenza non manca di nulla.
Tuttavia, in questa conchiglia che raccoglie tutte le armonie, spesso il silenzio, incapace di aprirsi una sola bocca verso l’esterno e da quello farsi ascoltare quando dovrei parlare e urlare e cantare, implode in se stesso con un boato sordo e si travalica per divenire vuoto senz’aria. Allora per far stare in piedi la struttura, riempio il sacco come posso, come meglio mi riesce, suonando una partitura sempre più caotica ed intima. Ecco, a volte temo soltanto che, a lungo andare, la mia partitura diventi sempre meno accordabile a quella di qualcun’altro.
Per questo scrivo costantemente, è il mio tentativo di non nascondermi, tanto agli altri, quanto a me stessa perché di tanto in tanto torno a leggere e nello scarto tra chi ero e chi sono scopro un qualche cambiamento che poi è indice di un cammino perpetrato e questo, intendo la scoperta di compiere dei passi, anche se irregolari, in avanti quando invece mi sembrava che tutto fosse immobile, questo mi rende più forte.

Oggi avverto l’avanzata concretamente e quotidianamente nel mutare del corpo e dei pensieri, certamente è una tale rapidità a darmi tutte insieme le vertigini calde e gelide che tanto mi spossano. È una partita all’equilibrio tra i tempi e le emozioni ed i desideri che ho messo in movimento e ormai sono diventati inarrestabili, a meno di non ritrovare la loro adeguata dimensione. Che fare, allora, se non avanzare? Dopotutto il sentimento della vita ha in me lo stesso effetto incalzante che avrebbe un peperoncino infilato su per il deretano!

Tutto d’un fiato

giugno 30, 2011

Mood: silenzioso
Reading: Anna Marchesini, Il terrazzino dei gerani timidi
Listening to: Jovanotti – Il più grande spettacolo dopo il Big Gang
Playing: ad immaginare come sarebbe se gli uomini avessero la coda e tutte le emozioni non fossero più controllabili



La pioggia ha lavato via l’afa, improvvisa e decisa come solo in estate sa essere e com’è bella l’aria fuori, stasera!, fresca e leggera, soffia e sfiora la pelle quasi fosse un respiro, quasi fosse una carezza e se avessi un terrazzino, mi raccoglierei in un angolo e mi lascerei vezzeggiare e adulare e contemplare e se avessi una bicicletta mi slancerei nel vento e gli permetterei di percorrermi e sconvolgermi, sarebbe come fare l’amore, come l’unico modo per non sentirmi nel posto sbagliato, negata, impaurita, col cuore serrato tra i denti e pochi sogni e tante condanne perché mi uccido di domande che non hanno risposta, perché mi sono smarrita e ho scelto di andare avanti, andare lontano, convincermi che si vive anche senza ciò che si crede indispensabile, ma di nascosto piango acido e sangue e per non dimostrarlo, per non fare marcia indietro, coltivo silenzi e perturbazioni a bassa frequenza che si comprimono e si espandono nello stomaco, seguiti dall’ansia di non riuscire ad infrangerli e di non chiedere aiuto, allora di tanto in tanto, mentre vado via mi volto per guardarmi indietro, c’è nessuno che mi tenda la mano, mi freni, mi chiami?, ‹‹potresti salvarmi, restando vicino››, ma nessuno, davvero non c’è nessuno, tutt’attorno si fa sempre più vuoto, terra bruciata, devo andare ancora avanti, questo ha il sapore di una verità sputata in faccia e l’ansia di non chiedere aiuto diventa l’ansia di non trovare sostegno, che poi perché mai aspettarsi qualcosa?, sono così dannatamente radicata nei miei affetti da diventarne cieca, non voler riconoscere che sono solo un momento in attesa di qualcosa di meglio, una bambolina di porcellana in una vita a comparti stagni, quant’è umiliante!, eppure un tempo conoscevo l’orgoglio, mi riempiva, mi caricava nel profondo, com’è difficile invece la tristezza di oggi, non ha la grinta della rabbia, né la forza del dolore, è spenta piuttosto e pallida, emaciata, anoressica, puttana, ha il volto della morte, ho sbagliato una volta ancora, chi sono io?, defibrillatore, prego, tante sberle in faccia!