Apofisi

marzo 1, 2014

Mood: spazientito
Reading: L’uomo autografo di Zadie Smith
Listening to: passi e gocce lungo i tubi di riscaldamento
Watching: The secret life of Walter Mitty di Ben Stiller
Eating: pizza
Drinking: acqua dal rubinetto



Tutto potrebbe ricominciare dalla mole abbondante di lavoro che ho lasciato in sospeso, lá dove si concentra la frustrazione della mia personale caccia metodica a una formula espressiva sempre più chiara e essenziale, ma estremamente capace di guardare in profondità e fare breccia in interi complessi di idee e emozioni. Adduco come scusa l’insoddisfazione stilistica,

fin quando almeno mi sarà accettabile.

Quanto segue è evidentemente un’ammissione, ovvero: prima di trattare di riduzione a una formula espressiva chiara e essenziale, c’è bisogno di chiarificare gli interi complessi di idee e emozioni da ridurre a una formula espressiva chiara e essenziale.
Di fatto, io negli ultimi tempi penso, penso, penso e mi emoziono per tutto, ma – o per effetto di un tale surplus – non so proprio dove adare a parare. Ecco perché lascio tutto in sospeso.
E non mi riferisco al lavoro soltanto.

Tras-locare #4

aprile 27, 2013

Mood: entusiasta
Reading: notizie dall’Italia
Listening to: Vinicio Capossela – Che coss’è l’amor
Watching: il sole, finalmente il sole
Eating: toast
Drinking: caffè per non addormentarmi sul computer



Avrei potuto andar via da Milano subito dopo aver svuotato l’appartamento del sesto piano, al centro a destra dov’era stata PaRecchia – se non proprio in mezzo ai miei stessi scatoloni e alla pasta fresca in un camion Guanzate-Delftauw. Ma vivere per tre giorni ancora a Milano, usando il mio vecchio appartamento immerso nella luce intensa più che mai ora che a diffonderla erano pareti bianco-vuoto mi è sembrato un opportuno rito di passaggio. In termini pratici: il primo volo abbordabile per l’Olanda sarebbe partito solo tre giorni più in là.

Vuoto, l’appartamento del sesto piano, al centro a destra lo era per davvero, a meno di non voler tenere in elevata considerazione il te e il caffè in uno scaffale in alto della cucina, un bollitore e una caffettiera sul fornello, una valigia con lo stretto necessario per andare altrove-ovunque – pochi vestiti, il computer e la macchina fotografica, un barattolo di peperoncino e uno di cannella – nel corridoio d’ingresso o d’uscita che dir si voglia, il sacco a pelo sul materasso in camera da letto per dormirci la notte,
«e che problema ci sarà mai per una zingara?»

L’eco, forse.

Voglio dire, l’eco è un elemento tale che
quando colto in uno spazio appena occupato, genera un forte senso di appartenenza costruttiva in colui che lo sta abitando, esprimendo tutta la disponibilità dello spazio appena occupato a farsi modellare secondo i desideri e le necessità di colui che lo sta abitando;
quando invece ritrovato in uno spazio un tempo occupato, ma lì lì per essere lasciato in favore di un altro spazio lontano, genera un insalubre senso di disagio e impazienza in colui che lo ha un tempo abitato, ma sta per andare a occupare un altro spazio, rimarcando se non la natura morta dello spazio un tempo occupato, il richiamo da parte di quell’altro lontano che sta per essere occupato,

Devo andare, grazie di tutto” [citazione non a caso], ma

A un uomo che sia in attesa di tras-locare sembra che la vita resti in sospeso fin tanto che non sarà partito. A dire il vero, fintanto che non sarà arrivato
, ma che ci faccio qui, mentre il resto della mia vita è già altrove?
[del resto, proiettandosi tutto il suo concentrato emotivo nel futuro, finisce che davvero la sua vita resti in un certo qual senso in sospeso]


Invece.

Mood: teso
Reading: stupide carte di metodologia di design, ma che frega a me?
Listening and watching: l’arrivo del temporale
Eating: poco
Drinking: tea chai



Mi sono strappata di dosso l’universo che mi ero appiccicata alle ossa, ago e filo,

ho scoperto in stadio avanzato un buco nero emozionale,
– roba da strozza-fiato lacrime a singhiozzo –
l’ho srotolato nel vento.

Adesso ballonzolo nuda a mezz’aria, con uno scafandro gigantesco sulla testa tra milioni di possibilità accese tutt’attorno a fulcri bollenti di necessità in evasione da Sottocontrollo,

prima o poi doveva succedere

Ogni tanto ci sta,
ballonzolare a mezz’aria e niente di più,
è fuori questione una guerra a breve termine per la conquista di scampoli di suoli e materia stellare da addobbo,
ballonzolo a mezz’aria e niente di più,
mi serve per s-gravitare la testa,

Dai fogli di bordo, nodi della crisi

il giorno in cui la mia fantasia ha defezionato
il giorno in cui una bufera spazio temporale mi ha trascinata in un universo lontano (tantissimo) di cose ancora da scoprire
il giorni in cui i cavi comunicazionali con un paio di universi vicini (tantissimo) sono saltati
il giorno in cui ho riconosciuto di essere affetta da una forma gravissima di loco-patia
il giorno in cui ho scoperto che allora l’avvicinarsi della chiusura di un ciclo mi fa paura
i giorni in cui ho desiderato [e anche quelli in cui ho sfiorato]

prima o poi.

Mood: quieto e stanco
Listening to: le prime sei ore di lezione consecutive dell’anno, stranamente con molta attenzione sottolineerei
Watching: I love Radio Rock, di Richard Curtis
Playing: con Lou a stilare una lista totalmente inutile di film visti, ricorrendo solo alla memoria
Eating: minestrone ai cinque cereali
Drinking: la birra quotidiana dell’ultimo periodo, poi mi lamento della panzetta






Si definisce “transizione di fase”, in fisica e in chimica, o più comunemente “cambiamento di stato” la trasformazione di un sistema termodinamico da uno stato di aggregazione ad un altro. Per dirla in una maniera che mi piace di più, si definisce “transizione di fase” quel processo per cui, posto il movimento come condizione necessaria, un sistema che in prima analisi tende ad una sua propria regolarità, si rompe improvvisamente e repentinamente per assemblarsi solo successivamente in una nuova forma di equilibrio e così di seguito, senza mai giungere a conclusione effettiva. Non è necessaria una veggente per capire che preferisco questa definizione perché esprime senza alcuna ombra di dubbio il legame del principio fisico e chimico con la vita stessa – e sticazzi! non avrei mai scommesso che sarebbe arrivato il giorno in cui avrei creato un ponte da parte e parte!


Non resta che dichiarare che questo è per me un momento di delicatissima transizione di fase in cui ‹‹non so›› è l’ordine del giorno, ‹‹bene›› e ‹‹male›› sono azzardi entrambi. L’impressione è quella di stare appesa per un capello sulla vita con il culo al vento, nella speranza che una folata imprevista mi butti di sotto. Soprattutto quassù si vive a comparti stagni.

Lavorativa-mente parlando, è come aver dato una capocciata alla giusta tessera del domino ed è tutto un gran darsi da fare ed sperare nelle opportunità che piovono di giorno in giorno, con un’energia propositiva che è paradossale anche solo a dirsi nell’Italia dove tutto sta rotolando a puttane senza freni. Storie da Fantabosco e gran culi rotti, insomma! Non fosse che – essì, i “però” fanno sempre da pandant alle faccende della vita – in mezzo ad una valanga di progetti totalmente differenti, ma ugualmente complessi, la testa minaccia a schiaffi e urla di diventare un colabrodo, buono solo a cagare acqua sporca e qui mi fermo, che in merito mi sono già sfogata. Non si deve poi sottovalutare che in questa dimensione, il lavoro non si contempla a tempo contrattuale, ma a trecentosessantagradi e ventiquattroacca su ventiquattroacca così che quello del lavoro diventa il tempo stesso della vita. Ma questo, chiunque dovrebbe essere d’accordo con me, non è una storia da Fantabosco e da gran culi rotti perché, fatta salva la passione, ché io al momento ho la stragrande fortuna di lavorare per passione ed emozione, nel tempo di una vita di un uomo c’è bisogno anche, chessò, per farla banale, del tempo per passeggiare senza meta e fermarsi di fronte alle vetrine dei negozi, per chiacchierare di tutto e niente con gli amici su una birra al bar, per fare l’amore e restare nudi e vicini dopo l’orgasmo, cosette piccole, ma dannatamente essenziali. Umana-mente parlando, non si vive mica di solo pane! (ce lo metto perché ci sta a pennello e perché uno di questi pluriaccennati lavori riguarda proprio il pane, ma questa è un’altra storia e per ora non la racconto)
A questo livello, quello dell’umana-mente parlando, la questione si acuisce per complessità, è come vivere una convalescenza perpetua e perpetuata in cui lo scricchiolio delle crepe accumulate nell’intimità perdura, ma rivelandosi meno intenso di giorno in giorno, va a finire che io puntualmente mi spacco tra la voglia di continuare ad arginarle con gocce di miele per salvarmi e racimolare l’energia necessaria per una corsa nuova e il desiderio opposto di insistere a cibarle di nostalgia per restare al riparo delle costanti che, per quanto taglienti come lamette, inscrivevano i flussi della mia vita all’interno di uno schema di punti più o meno stabile, ma anche per non affrontare il crollo di tutte le illusioni romantiche da “per sempre”, sì, le ho persino io!, ché l’amore in tutte le sue sfumature mi confonde e quando non lo ho più, mi scervello per non disperdere quanto ho sentito nel profondo e per incanalarlo in nuove forme. Benchè dolorosa, stiamo pur sempre parlando di vita vissuta e cara al cuore. Il mio problema è che guardo troppo in alto, gioco per sbancare la cassa e regolarmente perdo il senso di qualsiasi limite prima di tutto personale, volevo solo essere immensa, che gran pezzo d’idiota!, per questo ogni fallimento conseguente è troppo violento e il mio metabolismo inadempiente su tempistiche mignon.
Quindi respiro, ma afissio, mi muovo, ma sto ferma, vorrei balzare su un treno, ma più di qualsiasi altra cosa aspetto, paziento nei miei affetti come una Penelope, osservo ed ascolto di amori bellissimi e mi sazio, poi mi stanco e mi nauseo come un guardone incollato da troppo ad uno spioncino, allora stordita ed incazzata sento il peso di tutte le cose desiderate che sono passate e se ne sono andate senza che io le intascassi e di tutto il tempo che ho sprecato a leggere negli eventi prima di viverli, intendiamoci, per esempio, ho conosciuto l’amore, ma, prima ancora che mi dicesse “ciao”, gli ho innalzato una tomba sacra con tanto di epitaffio di pessima qualità, ché all’epoca ancora non sapevo che le poesie si scrivono fino a diciott’anni, dopo di che o sei un idiota o sei un poeta e gli idioti in media sono il novanta per cento della fauna, ma io quando ho scritto queste quattro parole in fila avevo diciassette anni e sono giustificata. Potrei spremerti, cuore, / conficcarti le dita nelle viscere, / fino a sradicare, in effluvio / di sangue, il seme ch’ora / ti pompa, sempre più rapido, / svuotandomi d’aria.
S’è forse fatta alata la larva?

Bene, cioè male, o forse né male, né bene. Semplicemente una storia. Per certo è paradossale voler conservare nel sangue come il più prezioso degli atomi quanto elargisce cancrena. Mi sento vecchia, grinzosa e narcolettica, non ci sto. Dovrei evacuare i fiumi rossi dal superfluo, per l’appunto, principalmente avrei bisogno di sfogarmi, ma a furia di spremerle in un catino, ho inaridito entrambe le ghiandole oculari, a meno di non voler considerare pianto quel conato di singhiozzi asciutti che mi assale di tanto in tanto quando mi chiudo nel cesso e mi calo i pantaloni per pisciare e si esaurisce pure in pochi secondi, che poi ancora non me la sono spiegata del tutto l’associazione singhiozzi-cesso. Ma non solo le lacrime spurgano le tossine, dovrei trovare la mia pratica ludica di liberazione personale. Perché voglio tuffarmi nella vita come un cucciolo d’uomo appena sgorgato dalla terra e rabbrividire fin nelle ossa di umanità, è impellente.

Poi c’è questa storia che qualche giorno ormai mi sveglio ansimando ancora per l’eco di sogni sgradevoli e avverto, attorcigliata con le viscere, l’esigenza di slanciare il corpo nello spazio. Allora cosa faccio? Mi metto a ballare e a ondeggiare lungo tutto il giorno per scongelare i muscoli e snodare le ossa e sudare tutte le tensioni ed il patetismo che ho accumulato negli ultimi giorni. Ballo da sola, con la caffettiera, col nelsen piatti, con i vestiti appallottolati, con gli attori di I love Radio Rock, sulla musica e sul silenzio, ovunque e senza freni. Ritualità da tempi andati, ma per certo efficiente.

Mood: stabilmente instabile
Listening to: Gianluca Grignani – L’aiuola con Zulio a tutto volume sulla Vicenza-Milano
Playing: il gioco della felicità
Eating: Asiago
Drinking: acqua






Fuori dal centro abitato del paesello in cui sono nata, le strade sfuggono con naturalezza nell’aperta campagna, disconnesse e sempre più ristrette tra i muretti a secco diroccati che due macchine insieme spesso non ci si passa. La partitura del paesaggio muta gradualmente, il verde dei prati e delle fronde degli alberi si infiltra nel grigio fino a fagocitarlo, e così il viola del glicine abbarbicato tra i massi, il giallo e l’arancione delle macchie di margheritine ed il marrone del terreno arato di fresco, il rosa del fiore del pesco e il bianco di quello del ciliegio e l’argento delle foglie d’ulivo e l’azzurro del cielo terso con il tempo, si sa, muterà ancora tutto, aspetto e colori.
Da bambina, scorazzavo in questi campi a briglia sciolta, i miei nonni materni avevano costruito masso su masso una grande casa bianca in mezzo ad un oceano di terra e mio nonno ci urlava dietro perché a correre a piedi nudi gli rovinavamo il solco e a costruire le casette con le casse di plastica gli mettevamo tutto in disordine e da dire ce ne sarebbe sui nostri giochi invasati e sordi a qualsiasi minaccia.
Tornandoci, dopo mesi di vita milanese trascorsi a fissare senza amore palazzi più o meno elevati e vetrine e traffico, sulle prime mi sembra di non cogliere la realtà di quello che sto vedendo, ma che begli scenari in questo sogno ad occhi aperti, persino il cielo ha colore! Poi con il trascorrere dei minuti, il respiro dei campi, pulito e leggero, mi solletica la gola e si dà alla discesa verso il cuore, lo gonfia e lo incalza, lo rianima, c’è odore di terra, di petali infastiditi dal venticello, di acqua e di pietra, ci sono la terra, i petali infastiditi dal venticello, l’acqua e la pietra, mi emoziono timidamente.
Poi in fondo ad una discesa, incorniciata dalle fronde degli alberi, si schiude la visione sublime di dolci declivi verdi disseminati da piccoli agglomerati sbiancati nella luce piatta di metà pomeriggio, è un colpo all’anima, com’è possibile che esista ancora tanta bellezza? Il fatto è che la natura resiste anche se ferita, l’uomo con tutti i suoi conti in tasca non si sa per quanto.


L. abita due svolte in là, in una casa col porticato in legno, affacciato su un giardinetto sul quale lei stessa profonde amore, coltivando fiori e piante d’ogni genere che, crescendo, s’aggrovigliano tra loro, e sembra una piccola giungla. In uno studiolo ricavato da uno spazio di troppo, L. pratica la tradizione degli aggiustaossa, della pronoterapia e della riflessologia plantare. «I piedi parlano», mi ha detto ed ho sorriso io, io che ho sempre un po’ tanto creduto che la vita passi attraverso i piedi, il passo, il modo in cui la pianta si arpiona al suolo, la penetra, la scava, nei luoghi che segna, è questione di pesi, di ritmi, di umori. Io che da qualche mese stavo affrontando la vita con un passo zoppicante a causa di un paio di faccende emotive e, guarda caso, dell’alluce destro accartocciato su se stesso, senza particolari spiegazioni, «ossa accavallate in calcificazione con principio di alluce valgo, un calcio o un passo a vuoto», mi ha detto più tardi L. mentre, pian, piano, riportava tutto al posto giusto ed io sentivo il piede allungarsi e rilassarsi e sì, ora lo poggio di nuovo per terra e, a volerla dire tutta, la radiografia e l’ecografia del giorno dopo non sono state in grado di rilevare alcun tipo di malformazione e semplicemente perché non c’era più.
La gente del circondario spesso conosce L. come Anselma, in verità la gente del circondario conosce l’intera zona come “Àbbasce ad Anselm” (“Giù ad Anselma”). Anselma era un’istituzione in questioni di ossa a spasso da riportare a casa ed abitava appena qualche metro in là rispetto a L.
Da bambina, Anselma mi ha rimessa a posto centinaia di volte, ché io ero pazzerella ed una volta ruzzolavo giù da un albero, un’altra cadevo dalla bicicletta e mi incastravo nella raggiera della bicicletta, un’altra ancora perdevo l’orientamento mentre facevo una ruota dietro l’altra con una sola mano e finivo contro un muro, fatto sta che mi ritrovavo sempre con un piede, una caviglia, un braccio, qualche dito dis-locato. Aveva l’odore della terra, Anselma, ricurva su se stessa e nodosa come la radice di un ulivo secolare e scura e segnata come un suolo riarso dal sole. Aveva raccolto tutta la forza e l’energia nelle mani, scheletriche e lunghissime, e la si avvertiva fisicamente quando premeva a fondo tra i muscoli e le ossa, poi cranck, tessuti distesi, «È a posto», e in verità Anselma parlava un dialetto che mi era incomprensibile. Non ha mai imposto pagamenti in moneta, ricordo che a mio papà chiedeva pale da camino e non ho mai capito bene per quale motivo, comunque qualcosa a che fare con mio nonno. E il suo camino era nero, nerissimo, nero fuliggine, lo fissavo e mi ci perdevo mentre muscoli ed ossa si spostavano sotto le sue dita e stringevo le labbra tra i denti, ché fiatare il dolore lo reputavo infantile anche quand’ero una poppante
A volte mi sembra impossibile incontrare tutt’oggi per strada gente che ritenga Anselma ancora viva, non c’è più da così tanto tempo, ma se è vero che si vive agitati nella memoria, effettivamente Anselma è viva, altroché se è viva!
Il caso aveva voluto che Anselma e L. fossero l’una per l’altra suocera e nuora. Ma Anselma non ha insegnato nulla a L., lo si avverte nelle loro mani. Della terra, Anselma aveva anche l’asprezza e la rudezza, mentre nelle mani di L. non si incontra mai un gesto disattento o maldestro, mai nella sua voce un tono acuto o sbrigativo, «la dolcezza, non provoca dolore», mi ha detto, la dolcezza è la cura, l’ha imparato con i polletti e le galline e i conigli ed i vitelli quand’era bambina, prendendosene cura se erano inquieti, massaggiandoli e curandoli se si facevano male e loro continuavano a crescere e la riconoscevano, la amavano. Ad ascoltarne i racconti, il cuore incalza il sangue velocemente, «Ho un cuore anch’io, solo è diversamente abile», come posso aver pensato che mi si fosse essiccato?, era solo sopito, annichilito, corroso, mi emoziono timidamente.
Insomma, lo so, una serie di cosette degne di scetticismo e che la medicina ufficiale spara a vista come cialtroneria, ignoranza e via elencando e certamente di truffe ce n’è a palate in giro, ma quello che la pura razionalità non sa valutare è l’istintività animale di un corpo che si approccia ad un altro, carne, ossa e sangue, l’emotività di un contatto e la forza congenita in un sentimento. Dopotutto, quello che la medicina ufficiale non si spiegherà mai compitamente è il meccanismo psico-fisico dello stomaco, egguardacaso!

Mentre aspetto il mio turno, me ne sto così a ricordare e a pensucchiare insieme, semplicemente appoggiata alla staccionata che divide il terrazzino dal giardino, «Sto fuori, mamma, fuori dal bunker». Bevo tutto nei sensi, il cielo ed il sole col suo ciclo lento verso il tramonto, il percorso dei raggi che colpiscono le piante e le fanno vibrare, le armonie degli uccelli quando al calar del sole tutt’attorno la vita si quieta nel fruscio delle fronde e l’abbaiare di un cane lontano, la vecchina ricurva ad estirpare l’erba nel campo di fronte con il fazzoletto bianco a ripararsi dal sole, i nani nel terreno e i nidi tra i rami, le girandole che gorgheggiano al vento, e appena cambio la prospettiva tutto cambia, le curve delle foglie ed ogni loro oscillazione, gli arabeschi tra le nervature, la forma di una nuvola all’orizzonte, scopro dettagli che non avevo notato prima, il giallo del limone nel verde, mi immergo nel ritmo, ne divento parte integrante, un gatto grosso e dagli occhi languidi si avvicina e si procaccia carezze tra le mie gambe.
Quanto sei bella, mia terra addolorata, mia terra abbandonata, pensavo di non poter provare più meraviglia di fronte al mondo, né curiosità, come se mi avesse detto tutto e tutto male, ma che errore, un altro, come posso averlo compiuto, quand’è che ho iniziato a fare il callo alla sterilità estetica ed affettiva, quand’è che ho spento la torcia e mi sono dimenticata della bellezza, ora ne faccio scorta, ché senza mi sento soffocare, sì, sto proprio soffocando di bruttezza e non trovo rimedio, è una fuga continua e mai nessuno che alza lo sguardo e sorride e bisognerebbe fermarsi di più a meravigliarsi e a lasciarsi andare e un attimo… dov’è la lotta quotidiana dentro di me, dove sono la rabbia e l’amore e le cicatrici, dove le incertezze e le risposte agli estremi, dove lo sporco nel sangue ed ogni malsano prospetto?, ma dico, sono serena, ma dico, sto sorridendo, ma dico, ci sono e per un momento non mi sto smembrando, dico di più, sto respirando cos’è questa storia? È coscienza e insieme rapimento, ragazza, non t’accorgi che in realtà ci sei ed insieme non ci sei?, sei in un’altra condizione, lasciati andare, ragazza, lasciati andare, resta sospesa ancora un po’. Che in verità, la storia è tutta qua.

Quanto tempo sprecato a correre, nell’ultimo anno, quanto tempo sprecato a non fermarmi mai, neanche per un secondo e a chiedermi «Hei, Do, come stai?», anche solo a fare qualcosa che mi faccia piacere. A Milano davvero corrono tutti e strepitano, persino le formiche ed io assieme a loro corro e per convenienza non mi domando mai come sto e faccio respiri profondi per non piangere, respiri profondi che si schiantano come piombo sullo stomaco e lo sfondano e corro senza sosta.

Tra tutte le leggi sociali, economiche e culturali di cui si è gravato per vivere, l’uomo sembra aver condannato a damnatio memoriae proprio le dinamiche della sospensione, ma a correre sempre, lo sai, si finisce per perdere di vista la strada, ragazza, ed insieme se stessi, e a non domandarsi se stai bene, se stai male o mezz’e mezzo, si finisce per ammalarsi. Fermati, non t’accorgi che sei senza fiato? Fermati a ripescarti.

Così, mentre aspetto il mio turno, tra una svolta dei sensi e l’altra, mi domando come sto, e basta mentirsi, ti sei ammalata, ragazza, ma ammalata seria, nel profondo e ti sei persa, ragazza. Se ti domandi chi sei, dove sei, cosa vuoi, se ti domandi «Perché?» non trovi risposta che nei giorni di qualcun’altro, nel tuo essere per qualcun’altro. Ma tu, chi sei tu, dove sei, cosa vuoi per te?, ché sì, puoi ben volere anche solo per te e svegliarti domani e scoprire che tutto è cambiato e semplicemente accettarlo. Ma poi dimmi, come puoi vivere se sei prigioniera? E tu vuoi vivere, cazzo se vuoi vivere!
Non si invola all’improvviso la lotta quotidiana dentro di me, né la rabbia, né l’amore, né le cicatrici, neanche le incertezze e le risposte agli estremi e lo sporco nel sangue ed ogni malsano prospetto e dopodomani forse respirerò ancora pesante, tutte le risposte non sono in un pomeriggio, ma, mentre aspetto il mio turno, scivolo tra il rosso del tramonto che tinteggia i contorni degli alberi e gli angoli del porticato. Bisogna pur partire da qualche dove per trovare la cura per la propria malattia, e forse il sé è il dove più appropriato.


Intanto resto col naso all’insù e guardo le stelle, a vivere nell’inquinamento luminoso m’ero dimenticata che di notte nel cielo ci sono le stelle, grosse e luminose, infinite che non potrai mai contarle. Il fatto è che sulla strada del ritorno, per far spazio ad un’altra macchina, mia mamma ha valorosamente condotto la nostra anziana Fiat Tipo su un sasso ben acuminato e sbam!, la ruota non ha resistito e s’è squarciata e siamo rimaste bloccate in aperta e profonda campagna, io zoppa ed impossibilitata a fare sforzi, lei incapace di cambiare la ruota col ruotino. A breve arriverà V. il Corto che è un amico di mio papà ed è corto per davvero, ma è un brav’uomo e le ruote le sa cambiare, per di più fa il meccanico e alla sera va a ballare i balli di gruppo. Nessun problema, aspetteremo, nel mentre s’è fatta notte ed io guardo le stelle, disegno il Grande Carro ed il Piccolo e canto Mr. Mandarino, muovendomi solo dalle vita in su, e sono felice un po’, un bel po’ al punto tale che quando arriva V. il Corto gli darò un bacino sulla cocozza pelata, ci sta davvero.

Domani esondo.


***A distanza di due settimane abbondanti, ormai***