Blog assai ispiranti
giugno 11, 2013
Mood: disteso
Reading: Elio Grazioli, Corpo e figura umana nella fotografia
Listening to: Sia – Don’t bring me down
Watching: Il treno per il Darjeeling di Wes Anderson
Eating: risotto agli asparagi
Drinking: tisana alla liquirizia
Io da sempre, quando mi allungano in faccia un premio, provo qualcosa come se mi avessero schiaffeggiato bonariamente e, disagiandomi la sensazione, terrei volentieri il fatto per me. Felicità, soddisfazione e fierezza d’animo garantite a parte, il brusio dei riconoscimenti plateali mi rattrappisce proprio.
Per esempio, una volta di dodici anni fa, ho scritto una poesiuncola poi firmata da mia sorella che era stata persuasa per forza[tura] di cose a partecipare a un qualche concorso a tema La mamma indetto da una qualche associazione di paese per le scuole del circondario. Mia sorella vinse duecentomila lire, un paio di dichiarazioni da rilasciare al microfono per il pubblico presente alla cerimonia di premiazione e un certo numero di sorrisi. Io la mia soddisfazione anonima [e un costume da bagno nuovo]. Ho pensato che la discrezione fosse la dimensione più autentica del ricevere un premio.
Pure, etica e buona costumanza mi impongono di render noto che ormai un mesetto fa – il preambolo funga a giustificazione dacché sarebbe noioso elencare le molte altre del caso – Mari mi ha menzionata tra i blog da lei reputati assai ispiranti, circolando sul web il premio Very Inspiring Blogger. E io voglio ringraziarla: essere accostata al termine “ispirante” mi riempie oltre misura, è davvero bello.
Adesso, questo premio Very Inspiring Blogger è impegnativo: oltre ai ringraziamenti di rito e allo srotolamento dello stendardo, il premiato è invitato a raccontare sette cose di sé e poi a nominare – e informare del fatto – altri quindici blogger assai ispiranti ché, per dirla citando un’esperta in materia, “Si tratta di questa sorta di catene in cui tu nomini me, io nomino un altro che ritengo meritevole e alla fine il premio, gira e rigira, ce l’hanno tutti. È una cosa molto bella, un premio popolare, direi.” E, del resto – io credo – a suo modo fondamentale in virtù di quella storia che il web è una rete ampliata a fili rossi 2.0.
Poiché mi piace pensarla in termini di stimolazione e conoscenza di sempre nuovi fili rossi 2.0, mi sono data una nuova regola: vietato citare blogger che ho già chiamato in causa in occasione di altri premi, seppur – si sappia – li nominerei ancora. Il che mi ha spinta a ricercare, di blog in blog, altri spazi assai ispiranti a me per prima fino a prima sconosciuti.
Sicché.
***
Cosa di me #1 Dover scrivere a crudo sette cose su di me mi mette in estrema difficoltà. Potreste non aspettarvelo, certo, da una che scrive più d’ogni altra cosa in prima persona. Ma io mi sviscero e scervello in pubblico non per autocompiacimento o sfogo – cose per le quali mi sarei procurata un diario e un lucchetto –, piuttosto per raccontare storie che sono, per così dire, complessi di macchinazioni linguistiche deputati a essere abitati da altri esseri umani. In altri termini, io scrivo perché mi interessa comunicare [mettere in comune]. E scrivo di quello che conosco perché è quello che meglio potrei comunicare, avendolo sentito prima di tutto sulla mia pelle. Sicché scrivere per me è un atto di grande responsabilità che comincia con la prima parola,
[vediamo un po’…]
Cosa di me #2 Il luogo in cui trovo proprio adesso è un cafè, l’Uit de Kunst nella città di Delft. Il bar in questione è quello in cui mi si può spesso incrociare il venerdì in pausa lavoro tra le quattr’e un quarto e le cinqu’e un quarto. Io sono repellente all’abitudinarietà, ma è anche vero che da quando sono arrivata in Olanda, la sperimentazione di luoghi e situazioni si identifica spesso nella ricerca di familiarità. E io sono tra le schiere di quanti sostengono che trovare il proprio cafè prediletto significhi iniziare a [sentirsi] appartenere.
Frequento l’Uit de Kunst perché è un luogo con l’identità mobile, che trova logica solo quando si prende in considerazione la sua insensatezza di facciata, un insieme di presenze sorprendenti e sgangherate, cose come una serra dove crescono insieme piante, vecchi mobili e cartelli segnaletici, un pappagallo solitario in una voliera gigantesca che saluta usando tutte le lingue in cui ha ascoltato le persone di passaggio conversare, mensole a muro cariche di giornali, libri, cataloghi telefonici fuori uso, giochi da tavola e scarti di oggetti alla rinfusa, una testa di renna di peluche appena in bagno sopra la tazza wc, tutte cose che quando si inizia a osservarle per bene e a associarle in vario modo stimolano storie e atmosfere di volta in volta e di persona in persona differenti. Mi sembra insomma che l’Uit de Kunst interpreti l’idea stessa dell’esistenza.
Cosa di me #3 Sul tavolino di legno del bar al quale siedo ci sono una tazza da caffè tagliata a undici facce squadrate color blu alloggiata in un piattino correlato color giallo e, appena dietro, un piatto romboidale. La tazza è vuota a eccezione di un fondo di caffè la cui densità sembra più che altro quella dell’acqua colorata. Nel piatto c’è quanto resta – non molto – di una fetta di cheesecake con confettura ai frutti rossi. Tra le briciole e le tracce di marmellata che segnano il percorso della forchetta sul piatto, si intravede il profilo di una donna suggerito alla maniera di Keith Haring da una linea nera su fondo bianco e un paio di labbra turgide e rosse.
Cosa di me #4 Alle mie spalle, il barista, un ragazzo sulla trentina molto amichevole, mi sbircia da dietro il bancone e non perde occasione per ricalcare le mie espressioni, facendo i suoi numeri soprattutto con gli occhi. Penso che sarebbe carino parlarsi uno di questi giorni, intendo dire non solo per ordinare un caffè (Zwarte Koffie) e un pezzo di cheesecake (Monchoutaart), ma ogni volta in questo bar sono sopraffatta dalla grande vetrata di fronte al tavolino al quale siedo. Affaccia su Oude Delft, una tra le vie principali e più frequentate di Delft. Essendo un’osservatrice spasmodica, le grandi finestre olandesi senza veli sono tra le mie più grandi fonti di eccitazione. Della vetrata dell’Uit de Kunst nello specifico mi piace che quando ancora le persone non sono passate dentro la vetrata, posso vederle arrivare per un pezzetto attraverso lo specchio della credenza che sta perpendicolare al fianco sinistro della finestra; prima fantasmi dentro uno specchio, poi corpi dietro una vetrata. Oggi è un susseguirsi di passi accelerati e, nella maggior parte dei casi, di volti contratti per lo sforzo di guardare attraverso la pioggia. Piove forte, sulla pelle ogni goccia calcata dal vento sembra uno schiaffo rapidissimo.
Cosa di me #5 Lo so perché ho camminato a lungo sotto la pioggia brutale a viso scoperto, dalla Stazione Centrale all’Uit de Kunst, passando e perdendomi per un numero infinito di vicoletti deserti. Sono arrivata all’Uit de Kunst dieci minuti prima dell’ora di chiusura – le cinque. «Ho tempo per un caffè? Solo un caffè per riscaldarmi», essendo bagnata dalla testa ai piedi, ho disegnato col mio corpo un lago attorno a me. «E magari un pezzo di cheesecake?», «Sì, quello con la confettura di frutti rossi», sarebbe magnifico come accendere il camino,
Cosa di me #6 la musica spagnola mi rende nostalgica di tutto l’amore che [meritando] non ho sentito e che [provando] non ho espresso, avrei voluto dirgli, ma non perché cambiasse la musica, solo per dirlo a qualcuno.
Cosa di me #7 Io cammino sotto la pioggia quando ho per così dire dei pensieri fastidiosi nella testa. Spesso la pioggia non lava via i pensieri, a volte li appesantisce al punto da farli cadere dalla testa ai piedi. Allora ci devo camminare e ballare sopra per qualche giorno ancora prima di liberarmene. Ma è tutta una questione di sfida emotiva.
Per meglio spiegarmi dirò che, per esempio, arrivando in Olanda, ho subito capito che poiché, fin quando vivrò qui, fuori da me il sole ci sarà molto meno della pioggia e del vento gelido, l’unico modo per assecondare il mio desiderio di alleggerirmi, togliere il cappotto e l’impermeabile, è trovare le condizioni di [creare] calore dentro di me.
Ecco, io oggi ho camminato a lungo sotto la pioggia brutale a viso scoperto. Ero triste. Adesso i vestiti mi si stanno asciugando addosso. E io non sento così freddo quanto potrei sentirne, mi sono rasserenata. Sorrido addirittura nel fondo del mio caffè la cui densità sembra più che altro quella dell’acqua colorata e tra le briciole e le tracce di marmellata sul piatto con quel che resta del cheesecake, pensando alla musica spagnola e al pappagallo solitario nella voliera gigantesca che ha tanto viaggiato, senza essersi mai mosso dal suo trespolo. Fuori il vento e la pioggia continuano a scuotere il mondo.
Provengo dall’esasperazione del dolore e dal fondo di uno sfacelo. Era inevitabile che prima o poi trovassi il mio modo per riprendendermi quel che mi appartiene di diritto, la felicità [voglia e capacità tenace di] che è il risvolto della libertà venuta con la consapevolezza di non dover più sentire la tristezza a ogni costo e di continuo, il mio personale inno alla vita, dentro,
una canzone che torna spesso alla memoria in questi giorni.
[17 maggio 2013]
***
(in ordine alfabetico)
Blog assai ispirante #1 125tel
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Stare sotto la pioggia // Esercizi di stile
novembre 16, 2011
Mood: sereno
Reading: il nuovo blog vuordpréss di Lou, hippippippihurrà!
Watching: vecchi video ignobili
Playing: a soffiarmi il naso
Eating: risotto piselli e zafferano
Drinking: te
Pochi metri dietro di te e già sei fradicia. Il firmamento intero si rovescia a secchiate, sciogliendo sfavillii e contorni della città e paralizzando il viavai di pinco pallini e carretti a motore. Ritrarsi alla pioggia per te è delitto, ti rende felice concederti e sentire che ti possiede, centimetro dopo centimetro, accarezzando e picchiando, non smettere, e ormai i capelli si sono appiccicati alla fronte, i solchi delle labbra si sono raffinati dal color melograno rappreso e ti costa fatica focalizzare il mondo oltre la coltre di gocce appese a stento tra le ciglia e respirare senza rimettere il fiato, non smettere ancora, ed ecco che la pioggia ti scivola sotto i vestiti appesantiti, ti percorre, ti svela, non fa sconti sulle distanze e ti senti esposta e pietosa, ma non opponi resistenza, né cerchi di celare difetti e abrasioni, non smettere adesso, e le tempie martellano d’impazienza, poi la pioggia filtra attraverso la pelle e inizia a gorgogliare come antidoto benefico tra le ossa e la carne viva dove ogni ferita esterna è radicata e incerta e reclama clemenza, non smettere mai, posso ancora guarire.
Stanotte la pioggia è densa e viscida, si trascina nel collasso polveri e gas armonizzati nelle flebili variazioni degli stessi odori intimi e ferrosi che ti sono stati nell’incavo della spalla e tra le cosce per così tanti anni che scinderli dalla piena delle orgie olfattive di ogni giorno per te è diventato istintivo. Be my baby, implori, cercando appigli nello spazio, ma no, non è colpa del tizio che cammina pochi passi avanti e che per ironia della sorte si è annaffiato con fragranze simili, è proprio la pioggia che si è imbellettata con i feticci di tale storia vecchia anni e anni, bagascia traditrice, e adesso ti sta scivolando senza ritegno nel petto e nella testa, rivitalizzando crepe anestetizzate e visioni oppressive. Resti in silenzio ad ascoltare. Hai difeso l’anima, confidato nel tempo e nelle distanze, magari ci mancheremo, ma la vita andrà avanti, funziona così, e ci renderà bimbi cresciuti e consapevoli che a modo nostro ci siamo amati anche noi. Così sono passati gli anni e sei arrivata a pensare che se avessi beccato lo stronzo che ha detto che il tempo è santo nella scienza della convalescenza, gliene avresti contate a caterva. Ma ciò che devi accettare è che la guarigione non procede a ritmo preimpostato e a te, pare, è toccato il posto speciale tra i lenti. Perciò se mettessi il freno al traino scapestrato del groviglio di serpi annidato nella gola e ti concentrassi nell’oscillazione pacifica dell’anca e della gamba a passo costante, ti renderesti conto che stanotte le condizioni non sono particolarmente aspre e che non provi dolore, ma nostalgia.
Tempo fa, al limitare dei sobborghi maleodoranti dei metabolismi interrotti, non eri sola sotto la pioggia a tentare di lavare via le lacrime e i sorrisi disincantati ereditati dalla vita. C’eravate entrambi, smagriti bimbi tremolanti, e vi esistevate accanto con mostri pelosi e giganteschi sotto i letti e meccaniche emotive che vi atterrivano. L’amore per cosa differisce dal resto? Per un bacio soltanto? Cercavate chiarezza, speravate di farla prima o poi, ma in fondo perché? L’amore va sentito e improvvisato, non schematizzato. Avevate aspettative grandi e presenti striminziti. Idealizzavate troppo, sognavate di giorni migliori, come se la felicità fosse programmabile, e terre grandi abbastanza da riversarci le vostre anime incendiate per risanarvi a vicenda, vi giravate attorno, aspirandovi e scarabocchiando mappe e diagrammi di scolo, senza però stabilire contatti a braccia aperte, oltre i limiti della vostra interezza divisa e moltiplicata. Vi baciavate con le lamette tra i denti e le sacche del piacere e del dolore esplodevano insieme alla prima vicinanza. Spariremo nella pioggia, non è vero? Siete rimasti a vedere come vi perdevate senza passo mettere e avete impiegato le distrazioni momentanee per scappare e ammansire le passioni. Vorrei che vi foste amati e vi foste salvati, per certo vi avrebbero atteso tempi meno bastardi.
Ma nel mezzo ha circolato la vita ed ecco che stanotte la pioggia odora di voi, gli stessi ormai diversi che secoli fa si sono sciolti in pozze fangose di scrosci torrenziali. E se soltanto smettessi di agitare le catene e allentassi la tensione stridente che hai imposto alle carni, ti renderesti conto che ora le circostanze sono cambiate. Ti sorprenderesti allora a pensare che non hai mai desiderato davvero il cambiamento, che ti fiacca e ti allarma. Ma stanotte la pioggia ha finalmente decantato nel vento le emozioni violente e violate. E se soltanto smettessi di ostinarti nei circuiti noti, scopriresti nel nevrotico di sempre il sereno e i bisogni novelli che non hai confessato. Ti stringeresti allora nelle spalle e ti scioglieresti in sorrisi mesti e commossi, indifferente al viavai asfissiante di pinco pallini e carretti a motore, e ti sorprenderebbe scoprire che hai gli occhi di chi ha scritto l’epilogo senza troppo permettere alla vita di sbalzare acredini e rigidità.
***
Il presente non è che l’ennesimo esercizio di stile, liberamente ispirato a fatti di cronaca personale e vita navigata, in cinquemilacentoventitre caratteri, senza mai scrivere la “u”.
Così voleva Gianni Biondillo, architetto, scrittore e nuovo prof. di scrittura. All’incirca. La comanda precisa era un racconto in quattromila battute, togliendo una vocale. Lì per lì, ho pensato di uscirci scema. In verità, mi ha divertito dover fare tanta attenzione alle parole.
Concludo scrivendo che è fin troppo evidente che nell’ultimo periodo sono tornata a leggere David Grossman.
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