La fatica di costruirsi il proprio benessere
settembre 24, 2014
Mood: contento
Reading: un’email dopo l’altra tra quelle per natura in arretrato nella mia casella di posta
Listening to: Anoushka Shankar (ft. Norah Jones) – Traces Of You
Watching: l’autunno alla finestra
Eating: toast
Drinking: frullato di banana
Italy, Otranto, Punta dell’Orci, 09 August 2014.
Me, in a picture taken by my dear friend Francesco during a trip to the South End of Italy.
Il 26 giugno scorso, all’imbarco C16 di Schipol già si parlava di mare, di pranzi e di santi Nicola, e per quel che mi riguarda nemmeno mi sentivo pronta a volare. Premesso uno scarso interesse di base per il polpo arricciato, mi domandavo se sarei mai ritornata in Olanda e questo perché mi era chiaro che volevo restare, ma in che modo e a fare cosa senza più un lavoro e senza grandi visioni?, domande del genere figuravano nella mia testa al pari di concetti quali il mistero della fede. Tutto quel che sapevo indugiava nella zona ristretta in un angolo della coscienza illuminato da una spia rossa a intermittenza soltanto: così come ho vissuto fin’ora non fa al caso mio perché non mi soddisfa, ma cosa fa al caso mio e cosa mi soddisfa? Che ci fosse una certa esigenza di ritirarmi a riflettere, era diventato quantomeno evidente e quell’imminente partenza contribuiva a ansimarmi negli occhi una certa impellenza.
Ho trascorso in Italia due mesi di grande precarietà emotiva e territoriale su più piccola scala, ma sempre tenacemente attaccata alla molla principale del mio confino: guardarmi dentro alla ricerca di un qualche sogno sfolgorante rimasto insabbiato nel grigiore confuso di mille visioni iperboliche in totale decadenza prima ancora di iniziare a delineare i famigerati traguardi.
Nonostante quel che potrebbe sembrare, la mia non è mai stata una ricerca rigida, né tanto meno ristretta al suo stesso fine. Per lo più mi sono data l’opportunità di vivere dando spazio a quel di cui sentivo il bisogno, ‘ché io mi chiarifico le idee sperimentando la vita per poi restare a guardare lì da dove mi trovo che effetto fa come con la massa del pane lasciata a lievitare nel forno. Anche se può sembrare difficile da credere, in due mesi, per combinazione, sono andate a succede tantissime cose belle. Se non fosse della mia vita che sto scrivendo, neanch’io crederei che l’Universo intero possa essersi messo a ruotare attorno a me per rendermi un giorno possibile e felice. Ma pare lo faccia, quando attirato dalla più dolce delle disposizioni.
Ho trattenuto il benessere, scandagliandone il fondo per scarnificarlo dalle paure di troppo, ho disgiunto la sfiducia dall’entusiasmo e a un certo punto ho capito di non essere più agitata, ma serena, ho guardato meglio, non si sa mai: ero proprio serena. E ho iniziato a vederci chiaro. Meglio del benessere c’è soltanto il benessere accompagnato dalla serenità perché la serenità ci dispone ad accogliere il benessere e a trattenerlo, a dedicargli tutto il tempo che serve, a maggior ragione quando ne siamo spaventati perché non si riflette nei valori comunemente accettati dalle persone attorno a noi. Con lo zaino gonfio delle mie nuove consapevolezze infangate di determinazione, sono rientrata in Olanda la notte del 28 agosto.
Mi chiedo se la vita non vale la fatica di costruirsi il proprio benessere. Voglio dire, non è stato uno scherzo il giorno in cui mi sono licenziata dall’azienda in cui lavoravo a contratto indeterminabile e sono rimasta disoccupata e con un pugno di spicci, ma con tanta voglia di costruirmi un futuro migliore, non è stato uno scherzo nemmeno il giorno in cui mi sono ritrovata all’improvviso con un amore strano accoccolato tra le braccia. Ma diversamente perché di preciso varrebbe la pena vivere?
Ecco, devo scrivere una cosa, l’ultima per adesso. Tutto questo vagheggiare ha un significato preciso ed è questo: nel corso degli ultimi due mesi, si è fatta calma piatta in questo spazio, ma tendendo l’orecchio nel silenzio dovreste riuscire a sentirlo respirare nudo e crudo, beato e soddisfatto delle storie che in realtà lo ricolmano intimamente già da molte settimane. Presto arriveranno le parole e le immagini a ricoprirlo e allora molto di quello che ho scritto in poche righe disorganiche diventerà chiaro. Ho idea di tornare a condividere quello che è mi successo, un affare di fondamentale importanza qui dentro.
Strutture essenziali
marzo 31, 2014
Mood: zen
Reading: Margaret Mazzantini, Venuto al Mondo
Listening to: Meg – Succhio Luce
Watching: The Grand Budapest Hotel di Wes Anderson
Eating: con la cannuccia
Drinking: caffè con cannuccia
Comunque vada e ovunque vada, l’artefice della propria vita che si trovi a tras-locare dalla benevola condizione della sua normalità a una realtà del tutto nuova si darà con vigore a ricostituire la forma ideale del proprio spazio esistenziale, essendone mosso il desiderio dalla necessità nonché dalla nostalgia.
Un anno fa ero appena arrivata in Olanda, un anno lento e pesante che ha richiesto uno sforzo esagerato alle mie risorse di entusiasmo. Vivevo all’epoca una specie di atarassia trasformatasi in inadeguatezza sensoriale nei mesi seguenti. Mi aspettavo che in capo a qualche settimana tutta la mia vita si sarebbe riconformata e non soltanto con l’assolvimento dei fatti burocratici, un indirizzo civico e qualche lavoro temporaneo, quanto piuttosto attorno a piccoli embrioni di rapporti e circostanze ideali. Per un lungo periodo di tempo le cose non sono state elettrizzanti. Trovavo la situazione particolarmente frustrante. Mi sembrava che la vita si svolgesse troppo lontana da me. E ci sarebbe da dire che mortificavo i miei piccoli ottenimenti quotidiani tanto più mi crucciavo con l’aspettativa di qualcosa di meglio. Intanto, ne smuovevo di cose e di cose ne accadevano!
L’ho compreso in un abbraccio. Non uno come quelli di circostanza, ma un abbraccio così d’impulso da essere totalmente fuori luogo: una sera in un ristorante fra gente sconosciuta, mentre servo ai tavoli un pasto dietro l’altro tre per volta, bottiglie di vino e vassoi di bicchieri instabili. L’imprevedibilità dell’evento ha di che svuotarmi da ogni asprezza. Mi sento in pace. Respiro stretta contro una spalla amica in Olanda e a mia volta stringo forte.
Ho realizzato in questo momento che, dozzine di volte nel corso dell’ultimo anno, ho sentito mancarmi gli abbracci, chi si muove poco dalle proprie amicizie e consuetudini più preziose farà fatica a immaginarlo.
La mia struttura essenziale – da giorni ci penso – è quella dell’abbraccio. Un abbraccio è un insieme, intendo una forma di più elementi che, sebbene preesistenti singolarmente all’insieme, insieme determinano un nuovo carattere. In questo senso, nella tensione rotonda di un abbraccio coesistono una domanda e una risposta, l’espressione più elementare – attraverso la fisicità – di un’offerta e di una reciproca accoglienza nuda. Di modo che l’interno di questa conca ospitale diventa lo spazio in cui non solo ci si riconosce, ma soprattutto ci si è riconoscenti, grati, meravigliati. Così ci si aggrappa alla vita. E si comincia a sentirsi parte di un luogo, di un’idea, di un gruppo, di un sentimento, di un evento, a conti fatti, del corso dell’esistenza stessa.
La procreazione, il big-bang. Tutto potrebbe cominciare da un abbraccio.
[A Tara.]
Intro-[…]
ottobre 21, 2013
Mood: pacato
Reading: Bruno Schulz, Gli uccelli, in L’epoca geniale e altri racconti
Listening to: Laura Marling – Little Love Caster (Live on KEXP)
Watching: Screen Lovers di Eli Craven
Eating: cavatelli con funghi e carote
Drinking: caffè
Sono successe molte cose diverse nell’ultimo mese. Soprattutto mi sono sentita priva di senso, insoddisfatta e inadeguata alla tensione che ne è conseguita tra una docile nostalgia dell’annullamento e un dispotico anelito vitale.
Mi sono messa in cammino. Ho percorso un ritorno silenzioso dalla mia nuova condizione esistenziale alla terra in cui sono nata e alla casa in cui non ho mai avuto più di diciotto anni, a Milano e ai suoi flussi rapidi di ricambio, alla condizione esistenziale infine da cui sono partita, ma non proprio la stessa, piuttosto la condizione esistenziale visibilmente rinnovabile – pertanto già rinnovata in una qualche misura – da cui sono partita.
Il fatto, ho l’impressione nasca da dentro, da uno sforzo titanico eppure minimale all’apparenza di intro-spaziare e intro-ispezionare,
‘ché io sempre, tutte le cose migliori le colgo mentre sono in movimento e, andando, riconquisto la certezza di avere i piedi robusti quanto basta e anche più per poterle inseguire.
“Ma sì, adesso mi faccio trascinare dalla bufera attorno al distributore,
fintantoché non mi spuntano le ali.”
[Werner Herzog, Sentieri nel ghiaccio]
Italia, Puglia, Monopoli, 28 settembre 2013
Mia nonna quando sono andata a trovarla in cima a uno dei cinque colli del paesello, se non fosse stata solo una fotografia sul marmo di una lapide, mi avrebbe detto Datti da fare, Dorotea, come se mai fosse abbastanza.
Spazi a utero
Maggio 12, 2013
Mood: sovreccitato
Listening: David Bowie – How Does the Grass Grow
Watching: The Big Wedding di Justin Zackham [per la serie: il gusto del trash]
Eating: se non fossi troppo pigra per alzarmi dal letto adesso
Drinking: birra
Alcuni spazi hanno la forma di un utero.
Spazio [un tipo di] è il contenitore che viene a costituirsi tra due esseri umani quando si mettono a esplorarsi.
Due esseri umani che fanno l’amore sono uno spazio. Anche due esseri umani che si raccontano sono uno spazio.
Holland, Noordwijk aan Zee
Holland, Noordwijk aan Zee with Dominic

Holland, Noordwijk aan Zee with Dominic
Ho conosciuto Dominic a Milano quando pensavo non avesse più nulla da offrirmi, l’ultima sera prima di tras-locare verso l’Olanda. Io avevo un tetto e un lenzuolo, lui – tedesco in viaggio a Milano con le scarpe da trekking – un pacco di te alla fragola e una stecca di cioccolata fondente. Tutt’e due un “forte gusto per la boheme tira a campare” – così la definisce Perec.
Quello sera abbiamo passeggiato senza itinerari. Poi si è fatta notte ed è trascorsa fino all’alba a dirci tante cose l’un l’altro e a spiegarci cosa e come ci sentivamo tra un bicchiere di te e un pezzo di cioccolata, rannicchiati sotto lo stesso lenzuolo su un divano tanto piccolo che i piedi si toccavano. Ci siamo addormentati così, dopo un po’ che avevamo iniziato a biascicare e a chiudere gli occhi.
Ora che ci penso, non ero affatto intimidita, né provavo vergogna. L’intimità per me – a maggior ragione con un estraneo – ha spesso questo risvolto, ma quella sera non ci ho proprio pensato. Era naturale com’era.
Come in utero.
Couches on the Road // IV
novembre 23, 2012
Mood: sereno
Listening to: Milano che oggi fa tremare i vetri delle finestra
Watching: A dangerous method di David Cronenberg
Playing: a incastrare storie e personaggi
Eating: marmellata di mirtilli rossi di bosco
Drinking: caffè
Da che Sarah e Pacome hanno lasciato Milano sono trascorsi sedici giorni. Per me, non uno soltanto senza domandarmi dove fossero e cosa stessero facendo. Mi piace fermare la routine delle cose che fanno questo mio periodo per provare a immaginare. Sarà così per centosettantuno giorni ancora.
Sarah e Pacome sono in viaggio, un viaggio lungo duecento giorni che ha avuto inizio in Francia e attraverserà Italia, Portogallo e Spagna. Attualmente sono al giorno ventinovesimo.
Da un luogo all’altro, si spostano facendo autostop. Nel diario di viaggio di Pacome, un primo appunto sull’Italia riguarda la difficoltà a ottenere un passaggio, si può aspettare ore e ore prima che qualcuno si fermi, gli italiani, qualcuno ha detto, non si fidano di chi fa autostop a causa della mafia che rende tutti un po’ più sospettosi.
Nei luoghi dove si fermano, cercano ospitalità, ma non escludono l’eventualità di dormire per strada, hanno con sé i sacchi a pelo e una tenda, i loro zaini pesano cinquanta chili. È per questo che hanno scelto un periodo dell’anno molto freddo per viaggiare, in estate sarebbe stato impossibile spostarsi con così tanto peso appresso. La prima volta che ho incontrato Sarah e Pacome, nell’atrio del palazzo in cui vivo, ho pensato che fossero due tartarughe. Le tartarughe vanno sempre con la loro casa in spalla. In effetti, la casa di Sarah e Pacome è lo zaino, dacché la strada si è messa a chiamarli, Sarah ha congelato gli studi di psicologia, Pacome si è licenziato dal negozio di impianti audio per cui lavorava e, zaini in spalla, sono partiti.
Sarah è di Le Havre, Pacome di Parigi. Non si conoscono da sempre, né da tanto. Si sono trovati perché condividevano le stesse intenzioni e perché entrambi erano alla ricerca di un compagno di viaggio. Eppure, a vederli insieme, si direbbero intimi da tempo immemore, oltre che due bambini inguaribili. Fanno tutto insieme, vivono la loro simbiosi come fosse un cerimoniale di viaggio. Dopo due notti in quattro nel lettone a due piazze, abbiamo cambiato la geografia della cucina perché loro potessero starci in due, neanche per dormire vogliono separarsi, prima di coricarsi, parlano fitto e ridono, ridono tanto nel buio.
Sarah e Pacome sono arrivati a Milano al settimo giorno di viaggio e ci sono rimasti una settimana. Mi hanno chiesto ospitalità il giorno prima del loro arrivo perché si sono ritrovati all’improvviso senza un tetto. In casa c’erano già Kuba e Paweł ospiti. Arianna e io viviamo in un bilocale piccolissimo in affitto che in due ci si sta stretti, in sei diventa un formicaio, tanto più perché i posti letto sono quattro. Tutto già sperimentato, in verità, ma con amici molto amici. L’idea di ripetere con estranei un po’ ci spaventava. Ragazzi, c’è da stare stretti, benvenuti, abbiamo detto e sapevamo che li avremmo accolti prima ancora di pensarci. Perché negli anni Settanta, racconti come quello di Sarah e Pacome sono comuni, oggi mica tanto. E noi ne abbiamo sentito particolarmente il bisogno.
Erano le cinque del pomeriggio del 31 ottobre. Fuori pioveva a dirotto. Il corridoio di casa è finito nascosto dagli zaini da viaggio. Abbiamo comprato nuovo vino e riempito i bicchieri. Ci siamo stretti attorno al tavolo. Mancava già una sedia.
Figurarsi quando nei giorni seguenti, con Sarah e Pacome, sono arrivate altre persone incontrate da loro lungo la strada, Marco, milanese, che a gennaio molla tutto e va in Thailandia per costruire abitazioni col metodo tradizionale all’interno di un progetto di volontariato, Lorenzo, suo amico pisano, che sebbene guardi i suoi interlocutori dritto negli occhi, sembra perso a amare il suono di ogni singola parola sulla lingua, Ricardo, portoghese, e Ayşegül, turca, che sono migrati a Biella per lavorare in un network di volontariato. Un proverbio moresco recita che chi non viaggia non conosce il valore degli uomini. Del resto, viaggiare insegna a avere fiducia negli altri.
In verità, all’inizio non è stato facile comunicare con Sarah e Pacome. Davano l’impressione di cacciarsi a testa bassa nei loro discorsi, senza voglia di condividerli. Sarah per quanto capisse l’inglese, neanche voleva provare a parlarlo, le procurava vergogna. Date le circostanze caotiche di quei primi giorni, mi sono sentita scomoda. Ebbene, con Sarah e Pacome la prima lezione è che, sulla scia dei romanticismi del caso, spesso ci si illude che tutto debba essere gradevole fin dal primo momento. La seconda lezione è che, accettando un limite e tentando di oltrepassarlo, ci si ritrova a costruire qualcosa.
Una sera, Sarah era rannicchiata sul divano, leggeva On the road di Kerouac. Pacome se ne stava arrampicato sul lavandino della cucina sotto la finestra che dà sull’orizzonte di palazzi di Milano e sulle montagne in lontananza, fumava una sigaretta. Arianna preparava la cena. Io fissavo un foglio bianco, avrei dovuto scrivere una sceneggiatura, ma non trovando grandi idee, mi arricciavo il riccio, quello in cima, e sorridevo solo all’idea che poco prima tutti si erano fatti coinvolgere a dirmi la loro in merito. Coexist dei The xx andava e l’acqua sul fuoco stava per uscire a bollire. Pacome ha detto «Qui, mi sento davvero a casa. È bello. In viaggi come questi, spesso casa è ciò di cui si ha più bisogno.», così ha detto.
Il giorno in cui Sarah e Pacome sono partiti, sono rimasta a guardarli mentre organizzavano la distribuzione dei pesi nello zaino e scrivevano la loro destinazione su cartoni di riciclo. C’erano l’aria eccitata della partenza, la polvere della strada, l’orizzonte e un’infinità di storie a venire. C’era anche qualcosa che mi soffocava il respiro, o forse è più appropriato dire che c’era anche qualcosa che stavo soffocando, il pensiero martellante che il loro mondo in questo momento è pieno delle cose che io vorrei nel mio. Pensa se partissi adesso, pensa se… Ma adesso no, devo aspettare, devo stare ferma qui, ho abbracciato Sarah e Pacome e li ho accompagnati alla porta. Ci ritroveremo ad aprile a Parigi, o forse prima, lì in qualche punto imprecisato della loro mappa.
Ho chiuso la porta di casa di fronte a me. Poi, accovacciata sul divano, ho spulciato per un po’ con Arianna il sito web di Decathlon nella sezione degli zaini da viaggio.
Un paio di giorni dopo, ho ricevuto un messaggio da Pacome. Mi chiedeva se sapessi cosa sia un bidet e a cosa serva perché alcuni italiani gliene avevano parlato, ma lui era certo che lo stessero prendendo in giro. Gliel’ho spiegato. Mi ha risposto che la trovava una cosa fuori di testa. Gli ho chiesto cosa gli avessero detto gli altri italiani. Loro avevano detto esattamente la stessa cosa. Quando gli ho chiesto cosa avesse pensato del sanitario bianco accanto al water lui ha detto solo per lavare i piedi. Ho riso mezz’ora. La terza lezione, con Sarah e Pacome, è che i bagni sono sempre oggetto di scambio interculturale. Effettivamente, a voler citare un solo esempio tra altri degni di nota, in Norvegia, la ragazza greca che ospitava me e Arianna a Oslo, ci ha tenuto a spiegarmi come buttare la carta direttamente nel bagno dopo essermi pulita. Ho capito che evidentemente, in Grecia, la carta si getta in un cestino a parte.
Couches on the Road // III
novembre 8, 2012
Mood: addormentato
Reading: quanto vorrei…
Listening to: la notte che scende su Milano
Watching: L’esplosivo piano di Bazil di Jean-Pierre Jeunet
Playing: a inventare metodi per non farmi cogliere dal panico-tesi
Eating: zuppa di legumi
Drinking: acqua
Martedì scorso, Kuba e Paweł sono spuntati dalla torma accalcata contro i tornelli della stazione metropolitana di Romolo, Milano, all’ora di pranzo, semplicemente agitando le braccia verso di me che stavo dall’altro lato, con movimenti che, tracciando sorrisi nell’aria, sembravano spaccarla. O almeno così mi sembrava. Mi sono chiesta se, per caso, non ci fossimo già incontrati in un altro tempo, da qualche parte. Poco dopo ho realizzato che Kuba e Paweł semplicemente percorrono la Via con occhi trasparenti e senza distacco.
Avevano in spalla lo zaino e venti giorni di viaggio tra Spagna e Portogallo e le facce vagamente interdette di chi nelle ultime dodici ore ha avuto a che fare per le strade di Granada con un gruppo di zingari malintenzionati e misteriosamente l’ha fatta franca, poi ha trascorso una notte in aeroporto, accusando il pavimento direttamente sotto il culo, e alla fine non sogna che una doccia e un piatto caldo per sentirsi a casa. Passavano da Milano prima di ritornare in Polonia perché era la strada last minute più economica e, per dirla tutta, avrebbero potuto essere ovunque.
Sono nati entrambi in Polonia, in una città di cui non mi è chiaro il nome, ma che si trova al confine con la Germania, al punto che entrambi riconoscono come capitale Berlino più che Varsavia, ma nessuno dei due ama la lingua tedesca, il cui insegnamento viene imposto nelle scuole dell’obbligo soltanto per condizione geografica.
In Polonia, il loro periodo di viaggio sarebbe finito e “ritornare alla realtà” non li entusiasmava. Ho il sospetto che dentro di loro qualche certezza stesse vacillando. A Lisbona, avevano incontrato Gogy che vive facendo il giocoliere agli incroci delle strade principali e raccogliendo durante la notte gli alimenti di cui ha bisogno dai cartoni della roba scartata dai supermercati. Ne sono rimasti impressionati. Abbiamo discusso della realtà in cui viviamo, fatta di oggetti, comodità e soprattutto abitudini. Ci siamo domandati quanto coraggio e incoscienza ci vogliano per sradicarsene. Qualcuno ha espresso l’ambizione di provarci un giorno, ma già con la consapevolezza che proprio l’ambizione non è il sentimento più opportuno per affrontare una tale scelta di vita. La verità è che, allo stato attuale, nessuno di noi darebbe un calcio alla sua realtà.
Kuba è uno programmatore informatico, ma più che un nerd – come ci si aspetterebbe – sembra un poeta vagabondo con il mare negli occhi e la terra nel sorriso, un miscuglio che tanto destabilizza, tanto rassicura. È innamorato della Spagna, della sua musica e della sua letteratura, ha studiato per sei mesi a Barcellona, dove ha sviluppato un’antipatia viscerale per l’ambiente Erasmus, fatto di gente che gli sembra voler collezionare amici da tutte le parti del mondo, «Ciao-nome-età-nazionalità-ciao», senza mai soffermarsi un po’ di più.
Paweł invece è tanto più buffo, smilzo con i capelli rossi e la faccia che sembra essere modellata dalla penna di un fumettista, sembra Figaro del Pinocchio di Walt Disney quando articola una catena bassa di «Hmm-hm, hmm-hm» e con la testa fa su e giù. Dei due l’avrei detto il più piccolo e invece è il contrario, lavora già nel reparto logistico di una qualche ditta di trasporti polacca, ma quello che mi sembra lo esalti di più è organizzare partite di ping-pong con i colleghi durante l’orario di ufficio. Di Milano, una delle cose che più gli è rimasta più impressa è la pasta al sugo col peperoncino – che neanche è propriamente di Milano –, ma ha confessato subito che per lui ogni tappa dei suoi viaggi va ricollegata a un buon piatto e che gli unici momenti di tensione con Kuba sono arrivati insieme allo stomaco vuoto.
Quando gli ho chiesto come si fossero conosciuti, Kuba e Paweł prima si sono guardati, poi hanno detto di non ricordarlo perché è stato tanti anni fa durante una festa del vino dove il motto in termini di alcool è «don’t mind the taste, but the waste», si capisce!
Per certi versi anche i nostri tre giorni insieme si possono trovare al fondo di una bottiglietta di Vodka Lubelska aromatizzata al pompelmo che ha viaggiato dalla Polonia a Milano, tre bottiglie di vino bianco Esselunga, un Lambrusco, due bottiglie di vino bianco Carrefour, una Vodka pura Keglevich, messe in fila sul piano del lavandino, e litri di Peroni. Non che ci siano affogati, piuttosto sono scivolati con leggerezza lungo le pareti di vetro, mentre storie e pensieri si innalzavano per intrecciarsi alle nuvole di tabacco sovrastanti.
Anche perché, nel frattempo, al nostro tavolo si è aggiunta tanta di quella gente con cui condividere i fondi delle bottiglie che affogare non ci si sarebbe riusciti neanche a provarci con caparbietà.
Sì, è un “to be continued”
Ottobre 2012, «E dopo?»
ottobre 27, 2012
Mood: sereneggiante
Reading: Paola Bressan, Il colore della luna
Listening to: Bonobo – Noctuary
Watching: Nuovomondo di Emanuele Crialese
Eating: latte e biscotti
Drinking: caffè
Questo ottobre 2012 è un mese inequivocabilmente degno di nota nella mia vita. Per la prima volta in ventitré anni, l’inizio di un nuovo anno accademico non mi ha trascinata di fronte a una qualche cattedra con congruo professorone in tale eccelsissima scienza – senza sottigliare sul fatto che quando ero al liceo dovevo rientrare in aula il primo lunedì di settembre, quando, a Sud dove sono cresciuta, tutto il resto dell’umanità se ne sta ancora abbarbicato sugli scogli per sfuggire alla bollitura a secco e mai nessun istituto si sognerebbe di aprire le porte di quella che sarà certamente una fornace, nessuno tranne il mio che era speciale e aveva anche le reti di sicurezza alle finestre.
Ritornando indietro di qualche riga, fino a prima dell’inciso, e riprendendo le fila del discorso, si tratta di una cosa che letteralmente deforma il tempo di ogni giorno per come ero abituata a viverlo e questo un po’ mi confonde, ma per lo più mi sconfinfera perché adesso, senza darmi alla nullafacenza, né sollazzarmi oltre misura, finalmente posso starmene con i muscoli di qualche centimetro più distesi e persino concedermi un diletto di tanto, in tanto.
Facendo i conti in rapidità, a oggi mi trovo a un esame, una tesi e una dissertazione di distanza dal mio brillante foglio di carta da incorniciare nello studio che mai avrò. A febbraio avrò azzerato anche questi numeri,
«E dopo?»
«Dopo arriverà», rispondo generalmente.
Ebbene, la mia potrebbe definirsi una crisi communis da laureando in merito alla quale non c’è bisogno di aggiungere alcunché. Effettivamente ci sono giorni che mai come adesso mi sono sentita tanto uguale a tutti gli altri.
In realtà io, se mi metto la testa alla rovescia, chiunque potrebbe vedere che non è vuota, ma che è frullata ininterrottamente da un gran numero di idee tutte di prima classe, desiderabili e persino attuabili, ma tutte intrugliate con un numero superiore di eventualità, cause e effetti precisabili da me, dagli altri, dalle situazioni, dal caso, cioè da tante cose che – chiunque converrà con me – variano di giorno, in giorno, e sulle quali non si può fare affidamento quando si tratta di prevederne gli esiti. Un matematico definirebbe questa condizione “sistema complesso”, se fosse più pignolo “sistema caotico”.
Del resto io, se mi metto a pensare al dopo, mi distraggo subito perché non voglio fare come chi se ne va lontano dal presente a causa di un’attrazione superiore per il futuro che, invece, io dico, si riempirà delle cose che saranno passate sicché adesso mi limito – se di limitazione si può parlare, senza farmi torto – a vivere al meglio che posso tutto quello che mi circonda, “sistema complesso” incluso.
Accordo però che, tra gli elementi che mi rimescolano il cervello, il più frequentemente a galla è esodo
1 // da me che, determinata come sono nell’inseguire quello che voglio e abituata a superare ogni momento di crisi, non ho voluto riconoscere di essermi ridotta con i nervi a pezzi nell’ultimo anno, errore mai tanto grande perché adesso l’unica cosa che mi va a fagiolo è stare appesa a testa in giù dal ramo di un albero mentre il mondo fa avanti e dietro e io lo interiorizzo per alimentare il mio genio ammutolito.
2 // da uno Stato che, miseria di offerta di lavoro a parte – a maggior ragione per eretiche come me che osano pensare di poter svolgere una professione di appannaggio maschile –, ma non del tutto, si arricchisce di “puttanieri, faccendieri e tragattini”, demolisce continuamente i diritti fondamentali dell’essere umano in virtù di una legge tutt’altro che laica, millanta un ideale di democrazia che non bacia la realtà tanto più perché è vuoto fin dalle origini dei concetti di cittadino e di popolo sicché tutti l’importante è il mio piatto di pasta due volte al dì, per quello si può scendere in piazza, fottere e ammazzare, ma del bene comune, dello Stato sociale – quei famosi – chissenefrega, e quali virtù, quali beni può trasmettere tutto questo al piccolo figlio – che forse mai avrò – quando dovrà insegnargli a stare al mondo, quale serenità a me che non mi ci riconosco e che me ne vergogno? Dicono che ho il dovere di essere arrabbiata e giuro, lo sono. Fino a qualche anno fa, sarei anche stata nelle schiere di chi resta a dare capocciate contro i muri, guadagnando infine [con tempi da olocene] piccole crepe interstiziali – tanta stima a riguardo –. Ma onestamente io, non che abbia mai affinato un forte sentimento di italianità e questo scombussola un po’ i fatti: oggi andrei via perché vedo mancare le condizioni per restare o forse semplicemente perché oggi sono geneticamente italiana più di qualche anno fa e voglio interessarmi di me soltanto e non dell’Italia.
Fra l’altro, prima o poi, dovrà arrivare il momento in cui fare per davvero i conti con la mia irrequietezza che tanto mi spinge a vagabondare, tanto mi tormenta – talvolta morbosamente – con la ricerca delle radici.
Finestre
ottobre 18, 2012
Mood: squilibrato
Reading: Ercole Visconti, Parole illuminanti
Listening to: il ticchettio dell’orologio della cucina, passi sul ballatoio, papà che dorme in camera da letto
Watching: Rune Guneriussen’s photography
Playing: a scontornare salamelle e caciottine in photoshop, alias le gioie del mio lavoro
Eating: torta al limone
Drinking: acqua
Holland, Rijswijk, my own home, 15 ottobre 2012
Holland, Utrecht, Eta‘s home, 17 ottobre 2012
Joseph Conrad si domandava come fare a spiegare a sua moglie che quando guardava fuori dalla finestra stava lavorando.
*
Io in questi ultimi giorni sto lavorando tantissimo.
Non faccio molto altro.
*
Nello specifico, le grandi finestre olandesi restano il trip per eccellenza.
*
[Forse] è arrivata la suggestione che mi mancava.
[Forseforse] l’idea.
*
Sono un po’ più felice.
La Germania, quella che ho visto // Giorno due
ottobre 12, 2012
Mood: sereno
Listening to: Awolnation – Sail
Watching: Asaf Avidan – Different Pulses / Official Video /
Eating: paglia e fieno alla boscaiola
Drinking: halfvolle chocolademelk con cannuccia
Mainz, Hotel Ibis, Room 251
Mainz’s Old Town
Mainz, Brooderie
Mainz, Marktplatz
Mainz, going to the Rhein
Mainz, Stephanskirche, Chagall windows
Mainz, restaurant
La Germania, quella che ho visto // Giorno uno
ottobre 10, 2012
Mood: riflessivo
Listening to: gocce d’acqua nel lavandino
Watching: consueto disordine prepartenza
Eating: il frigo è vuoto
Drinking: latte fresco
Mainz, railway station
Frankfurt Stadion, railway station
Frankfurt, Shoppingmeile Zeil
Frankfurt, Kleinmarkthalle
Frankfurt, Eschenheimer Tor, Post-War New Town architecture and traffic
Frankfurt, marriage in Romer
Frankfurt, Eiserner Steg
La Germania, quella che ho visto
ottobre 10, 2012
Mood: affaticato
Reading: Ercole Visconti, Parole illuminanti
Listening to: The Lumineers – Ho Hey
Watching: Anna Ådén Photography
Playing: con le immagini
Eating: pastina al brodino, sinonimo di influenza
Drinking: brodino
Mercoledì mattina mi sono svegliata in pantofole. Fuori c’era la caligine accecante d’inizio ottobre a Milano – una peculiarità –. Ho trascinato il cervello stigio fino al primo caffè della giornata, cercando di persuaderlo a propositi di natura più operativa, ma già millantando vie di fuga di maggiore interesse, mostre, eventi, convegni.
Un’ora dopo ero in partenza per la Germania. Ho agguantato in volata la proposta di un passaggio in macchina direzione Mainz. Stava nell’aria da qualche giorno. Si sarebbe trattato di una toccata e fuga da due giorni in mezzo a sedici ore di autostrada.
Con me c’erano Arianna, Carlo l’amico di Arianna, Fabio il padre di Carlo che a Mainz lo aspettavano ragioni di lavoro. Quando abbiamo impilato i trolley nel bagagliaio della Ford e ci siamo avviati, la giornata era diventata assai calda. Il cappotto sarebbe servito solo qualche ora dopo.
Lungo le autostrade lombarde che portano fuori da Milano, il cielo si riempie sempre poco a poco di azzurro, come se la velocità dei mille viaggi intrecciati per ogni dove gli strappasse di dosso polveri e foschie. Alla frontiera con Svizzera, si è fatto largo anche il verde, cascando dalle montagne insieme all’acqua dei ghiacciai, prima smunto, poi acceso e macchiettato d’autunno giallo e rosso.
Abbiamo superato il confine da Chiasso, procedendo per Lugano e Bellinzona, un percorso già fatto quattro anni fa, in un’occasione molto diversa della quale non ricordavo nient’altro oltre la sensazione di un violento esilio emotivo, riverberato dalle barriere metalliche autostradali. Da sud a nord, lungo l’autostrada del San Gottardo, il paesaggio svizzero è fatto da mucche e laghi nella regione italiana, da distese di patate e lama nella zona tedesca. Le montagne accompagnano tutto il percorso attraverso la Svizzera, ma la loro altezza digrada, passando dall’una, all’altra, fino a sfumare nella verdeggiante pianura tedesca del Reno ai piedi della zona montuosa del Mittelgebirge, sempre uguale a se stessa fino a Mainz. Osservando, sulle linee fisiche dell’ambiente, si sovrapponevano nella mia mente tratti di rincorse [verso cosa?] impedite sul finire [o iniziare] da una ritorsione indietro, indentro. La radio passava “la meteo” e Una lacrima sul viso.
Dalle pagine che stavo leggendo.
“[…] gli aborigeni non potevano immaginare il territorio come un pezzo di terra circondato da frontiere, ma piuttosto come un reticolato di «vie» o «percorsi».
«Tutte le nostre parole per “paese”» disse «sono le stesse che usiamo per “via”».
Il perché si spiega facilmente. Gran parte dell’outback australiano era costituito da aride distese di arbusti o da deserto sabbioso; là le precipitazioni erano sempre irregolari e a un anno di abbondanza potevano seguire sette anni di carestia. In un paesaggio simile, muoversi voleva dire sopravvivere, mentre rimanere nello stesso posto voleva dire suicidarsi. Il «paese natale» di un uomo era definito «il posto in cui non devo chiedere». Però, sentirsi «a casa» in quel paese dipendeva dalla possibilità di lasciarlo. Ognuno sperava di avere almeno quattro «vie d’uscita» da seguire in tempo di crisi.”
Abbiamo raggiunto Mainz che era notte da un po’, le strade deserte come gran parte delle città nel Nord Europa in settimana dopo le otto di sera, le case tinteggiate di rosa e panna con intelaiatura a traliccio immobili con pochi occhi accesi nel buio.
Siamo andati per prima cosa in albergo dove Fabio aveva prenotato due stanze. Mi è bastato guardarlo in altezza e larghezza per sentirmi stretta, ristretta, costretta. Fino ad allora, l’ultima volta che mi ero infilata in un posto del genere risaliva a tre anni fa, a Nantes. Ciò che proprio non sopporto degli alberghi è l’idea di viaggio come di merce di consumo – una tra le tante in vetrina – sottesa a quella corporatura da incolonnamento di capsule stagne tutte identiche per un turismo di massa, reiterato senza la minima variazione in ogni parte del mondo. Sono uscita subito dopo aver posato i bagagli.
Agognavo la Germania da tanto tempo. Un giorno – ero ancora al liceo – una delle poche personalità di grande importanza nel mio percorso formativo raccontò alla classe di un viaggio a Berlino e de Il Secolo Breve di Hobsbawm. Ci disse, Berlino è una città ferita e questo è palpabile ancora oggi, dopo la guerra, dopo il muro, dopo tutta la storia tedesca, non c’è un solo angolo della città che conceda di ignorarlo. Sono certa che la mia attrazione per la Germania sia dipesa da questa osservazione.
Poi, due anni fa, di passaggio per andare a Rijswijk, scesi per la prima volta a Weeze, l’aereoporto di Düsseldorf. Lì, non appena fuori dall’aereo – lungo il percorso che, segnalato da strisce bianche e transenne di metallo, porta in colonna dalla pista d’atterraggio alla sala degli arrivi, nel buio freddo illuminato a crudo dai neon degli interni e dalle luci degli aereoplani – avvertii davvero il presentimento di qualcosa da approfondire al più presto, l’impatto immediato di un’onda frequenza emotiva molto, ma molto bassa contro il petto, qualcosa che mi fece stringere nelle braccia.
Credo di non aver mai più potuto prescindere dall’immagine della ferita di Berlino, neanche quest’ultima volta.
In due giorni in Germania, ho leccato piombo sotto la lingua.
Mi sono mossa tra Francoforte e Mainz senza studiare gli itinerari per lasciar lavorare le impressioni. Ho prestato molto ascolto con orecchio mite. Al respiro sommesso che si annida nei casermoni di periferia con i filari di finestrelle frantumate. Alle stazioni sconfinate con le decine di binari interrotti e vagoni inutilizzati. All’allineamento massiccio dei tralicci dell’alta tensione che intelaiano sul cielo centinaia di cavi di ferro carichi di uccelli neri, tutto immerso in un grigiore fumoso, impiastricciato da aloni di lampioni alogeni. Alla vicinanza fragorosa tra i palazzi nuovi, gli edifici storici e le strutture ricostruite, dove mi è parso di poter toccare ancora gli sconfinati spazi vuoti e le macerie lasciate dalla seconda guerra mondiale.
Ho dato fiducia all’udito più che a ogni altro senso perché in Germania il silenzio fa impressione. È materico, ha profondità spaziale, si prende tutto quello che c’è intorno, diventa tutto quello che c’è intorno, spazi urbani, sale da cafè, carrozze del treno, volto occhi grandi di una donna di mezza età che sorride con discrezione. Avrei voluto avere con me un registratore, prima ancora che una macchina fotografica. Sarebbe stato uno strumento più discreto, più adeguato per raccontare quello che ho visto.
In Germania, c’è qualcosa che chiede, impone di essere compreso, con un’intensità che non ritrovo in nessun altro luogo dove sono stata fin’ora. A primo impatto, le sue sono maniere da penetrazione che non comportano la grazia della compenetrazione. Mi sono sentita presa da un disagio bastardo e un’inquietudine febbrile – mi sono mossa con le spalle contro i muri – e da multipli processi di congestione – mi sono messa sulle spalle il cappotto.
A posteriori, sono ritornata più e più volte in Germania con la memoria, cercando di scandagliare e razionalizzare le percezioni sfuggenti, ma animose che mi si sono stipate dentro. Ho vagliato gli appunti fitti, ho richiamato l’aria tedesca nelle orecchie e nei polmoni. Ne ho discusso più e più volte con persone diverse. Ci ho camminato su. Le idee migliori mi arrivano chiacchierandone – e muovendomi.
Può darsi che due soli giorni non siano sufficienti per parlare con coscienza di un luogo. Questa idea mi sta ossessionando, a maggior ragione perché in Germania, per la prima volta mi sono sorpresa a domandarmi quali fossero i rapporti di forza in atto nel mio sguardo: per certo ho risentito del condizionamento culturale dovuto a ciò che la storia mi ha raccontato della Germania, ma ho anche avvertito subito la sensazione di un luogo con un’identità storica e culturale così circostante e così densa da sbattermela in petto nel giro di pochi secondi, senza preamboli e edulcoranti, che è l’atteggiamento di ciò che ha consapevolezza di sé e del proprio valore.
Ci sono persone pronte ad acclamare alle vergogne tedesche – dimenticando per altro cose di alto pregio a caso come l’arte e la filosofia che in buona parte sono germogliate in quelle terre –. Per quel che mi riguarda, da tempo sono matura abbastanza per non indulgere in coppie di concetti ossimorici come “buono” e “cattivo” o “bello” e “brutto” che aspirano tutto il senso più profondo di una problematica.
L’identità storica e culturale tedesca è un fatto e ho l’impressione – se soltanto di impressione per ora posso parlare – che lo sia nel “buono” e nel “cattivo”, nel “bello” e nel “brutto”, soprattutto nell’interstizio tra i due, dentro la ferita lasciata dagli ultimi decenni. La Germania che io ho visto è quella che, nel “buono” e nel “cattivo”, nel “bello” e nel “brutto”, sta tutta quanta raccolta, stretta come un pugno. Quella che, nel “buono” e nel “cattivo”, nel “bello” e nel “brutto”, emana solennità e austerità, mestizia e dignità senza precedenti. Soprattutto pudicizia.
(Oltre che quella della birra a litro, delle uova strapazzate e del formaggio – a colazione –, della kartoffeln, della flummkuchen, del bretzel, della soup di pomodoro,
e dei viaggiatori irlandesi dagli occhi azzurri come il mare e i denti storti come le sue onde)
Trilogie di fine settembre
ottobre 2, 2012
Mood: placido
Reading: Bruce Chatwin, Le vie dei canti
Listening to: Patty Pravo – Pensiero stupendo
Watching: possedimenti in espansione in termini di smalti con Yanna
Eating: pasta e fagioli
Drinking: caffè
Verona – Peschiera del Garda – Borghetto, 28 e 29 settembre 2012
Dai fogli di bordo, nodi della crisi
settembre 6, 2012
Mood: teso
Reading: stupide carte di metodologia di design, ma che frega a me?
Listening and watching: l’arrivo del temporale
Eating: poco
Drinking: tea chai
Mi sono strappata di dosso l’universo che mi ero appiccicata alle ossa, ago e filo,
ho scoperto in stadio avanzato un buco nero emozionale,
– roba da strozza-fiato lacrime a singhiozzo –
l’ho srotolato nel vento.
Adesso ballonzolo nuda a mezz’aria, con uno scafandro gigantesco sulla testa tra milioni di possibilità accese tutt’attorno a fulcri bollenti di necessità in evasione da Sottocontrollo,
prima o poi doveva succedere
Ogni tanto ci sta,
ballonzolare a mezz’aria e niente di più,
è fuori questione una guerra a breve termine per la conquista di scampoli di suoli e materia stellare da addobbo,
ballonzolo a mezz’aria e niente di più,
mi serve per s-gravitare la testa,
Dai fogli di bordo, nodi della crisi
il giorno in cui la mia fantasia ha defezionato
il giorno in cui una bufera spazio temporale mi ha trascinata in un universo lontano (tantissimo) di cose ancora da scoprire
il giorni in cui i cavi comunicazionali con un paio di universi vicini (tantissimo) sono saltati
il giorno in cui ho riconosciuto di essere affetta da una forma gravissima di loco-patia
il giorno in cui ho scoperto che allora l’avvicinarsi della chiusura di un ciclo mi fa paura
i giorni in cui ho desiderato [e anche quelli in cui ho sfiorato]
prima o poi.
Io il giorno che muoio
agosto 13, 2012
Mood: tra felicità e nostalgia per un tempo che non c’è più
Listening to: deliri adolescenziali alla barese sull’autobus Bari-Castellana Grotte
Watching: certi volti lasciati sul pullman Bari-Castellana Grotte sei anni fa e ritrovati allo stesso identico posto
Playing: a sorridere per non .
Eating: panzerotto al forno
Drinking: birrino peroncino
Io il giorno che muoio avrò vissuto una vita bellissima anche se oggi non so dire bellissima in che modo esistono mille e un modo d’essere “bellissima”, sarò vecchissima con i capelli bianchissimi e un mare di rughe profondissime sulla pelle una per ognuna delle cose che avrò vissuto e avrò vissuto mille e una cosa camminato su mille e una terra sotto mille e una pioggia e io il giorno che muoio tutte queste mille e una cosa mi cascheranno fino ai piedi dagli occhi grandissimi che diranno invece della bocca per fare silenzio sentire com’è la morte quando arriva la vita tutta fino all’ultimissimo respiro quando smette, guarderò il cielo ci saranno un drago bianchissimo d’ovatta che insegue un porcello bianchissimo d’ovatta e un colibrì che intreccia una corona con le corde rossissime del mio cuore sfiatatissimo, mi succhierò il pollice paffutellissimo, mi accoccolerò tra i miei capelli bianchissimi mi addormenterò nell’utero di mia madre e tutto sarà come non so dire, ma ne sono certa io il giorno che muoio avrò vissuto una vita bellissima.
[Nove Agosto Duemilaundici, sera quasi notte,
autobus Bari-Triggiano-Capurso-Noicattaro-Rutigliano-Conversano-Castellana Grotte, casa dove sono stata bambina-ragazza, letto, profumo.
Tra le bozze del cellulare.]
Pare che si parta per Santa Fe
luglio 9, 2012
Mood: euforico
Reading: Jonathan Safran Foer, Ogni cosa è illuminata
Listening to: Edward Sharpe and The Magnetic Zeros – Kisses over Babylon
Eating: melanzane grigliate e certosa
Drinking: caffè
Pare che Indovina che manca a cena? sia stato eletto vincitore del progetto Momenti di Pane (NABA-Mulino Bianco) di cui ho raccontato a lungo su queste pagine e che Lou, Raffa e io venerdì 13 – una data buona per un inizio buono – si parta per Santa Fe, quella in New Mexico, in qualità di ospiti della University of Art and Design in occasione dell’ArtFest12 che è un evento annuale – soprattutto internazionale – indetto dal network delle Laureate International Universities nelle settimane dal 16 luglio al 3 agosto, un vero e proprio pullulare di workshop, corsi di lingua, esibizioni, film festival, concerti, performances, attività di ogni genere, tipo così
Per tutto questo Lou, Raffa, io e il broccolo – ovviamente –
ringraziamo di cuore chi ha votato e votato e ancora votato Indovina che manca a cena?
Pare che si parta dicevo perché è successo tutto nel giro di dieci giorni all’improvviso e nonostante adesso sia entrata in possesso del passaporto che fino a quattro giorni fa non avevo con tanto di fototessera in cui assomiglio a una con precedenti penali e intenzioni terroristiche – proprio ciò che non dovrei sembrare – che per averlo ho fatto un viaggio da milleottocentottantotto chilometri in trentaquattro ore senza contare i chilometri di oratoria sprecati tra commissariati e questura, ma anche del biglietto aereo Milano-Atlanta-Santa Fe e ritorno, del visto per gli USA e dell’assicurazione,
io non ho ancora realizzato nemmeno un po’ che tra quattro giorni vado a otto ore di fuso e sedici ore di volo in un luogo che con buona probabilità non conosce il caffè espresso, ma nasconde il peyote nel deserto tra un coyote e un serpente a sonagli timore di ogni madre che si rispetti, devo assolutamente munirmi di ciglia finte e sombrero tutto il resto arriverà strada facendo consapevolezza inclusa, di qui parto a valige semi-vuote.
Aspettando treni – Stazione a Sud Italia, strada facendo
luglio 3, 2012
Mood: flemmatico, causa caldo [mi sono messa in costume in casa]
Reading: dispense, dispense, dispense
Listening to: Devendra Banhart – Angelika
Watching: il sole che disegna geometrie sui miei fogli, distraendomi
Eating: fette biscottate a marmellata
Drinking: tazzoni di caffè
Qualche giorno fa, Alberto ha scattato delle foto che per fortuna ha scattato mi piacciono tanto perché hanno in sé la forza per ricordarmi all’occorrenza – tipo in qualche ora di questi ultimi giorni – tutta la felicità che posso provare,
senza possedere niente più che la certezza di averne diritto e possibilità
– e Gianvito qualche centimetro in là, intento per certo a rendere giustizia a una qualche puttanata con tutta le sue attitudini potenziate da cantastorie –.
Dovrebbe essere così per tutte le persone del mondo, sarebbe bello davvero perché le persone di tutto il mondo si sorriderebbero augurandosi il buon-giorno anche senza conoscersi e camminerebbero per strada senza sprofondare nell’asfalto ciascuno probabilmente con uno strumento musicale col quale improvvisare concerti, succede così quando ci si sente felici.
“[…] tu sei l’immagine del sole.”
Ma quant’è l’aria che si inghiottisce con una risata?