Mood: costernato
Reading: Elio Grazioli, Corpo e figura umana nella fotografia
Listening to: Muse – Blackout
Eating: biscotti
Drinking: latte freddo



oh sì, magari, lo confesso!, fossero immaginazione enfatizzata.

Peggio di non essere sentiti dall’altro capo di un legame profondo evidentemente malandato dagli eventi e dal tempo è sentire quello stess’altro capo per ognuno dei suoi intimi moti e non sapere cosa far[n]e

[un prudere e tirare da una parte all’altra, un susseguirsi di violente scosse emozionali per così dire estranee, all’improvviso di un giorno qualunque in mezzo alle vene dove resiste un intrico di viuzze e di crocicchi trasfusionali a controprova di un’epoca che fu in cui se n’è fatta di strada tra i due capi del legame – quantunque adesso non passino che container zeppi di zero parole,
Che succede, laggiù?
aggiù?
giù?
ù?

ù?
ù?










]

Fa sentire completamente soli.

Fili rossi 2.0

Maggio 27, 2013

Mood: quieto
Listening: Awkward I – Rock is the Road (Amsterdam Acoustic)
Watching: mamma che si stende sulla panza di papà
Eating: risotto ai funghi
Drinking: acqua



Il teorema dei fili rossi è al centro di me stessa una di quelle molle da dove tutta la mia vita trova slancio,
voglio dire, la sensazione che un reticolo fitto e infinito di vie alluse color rosso, passando attraverso un orifizio posto all’altezza dello stomaco, connetta e annodi un essere umano a miliardi di altri più o meno conosciuti e sconosciuti e questi ultimi a miliardi di altri ancora e così via, tutti, per meglio dire, prolungati l’uno dentro l’altro nella positura un giorno – supponiamo – voluta dagli eventi perfetta per sentirsi e comprendersi d’istinto affini e a fondo con una scarica uniforme di meraviglia,
ecco, pensare ai fili rossi mi fa sentire ben-disposta e entusiasta verso ogni cosa dell’universo e sentirmi così ben-disposta e entusiasta verso ogni cosa dell’universo mi frutta sempre pezzi di splendore.

***

Chi ha prodotto il web aveva, io credo, ben presente il teorema dei fili rossi, al punto da averne fatto il presupposto. È evidente, no?, i link sono i fili rossi 2.0 che è proprio ciò che mi piace del web, in altri termini la sua attitudine a intensificare l’accensione e l’oscillazione delle linee di [inter]scambio e di amicizia tra punti trasversali.

Così succede che Eta – Utrecht, Olanda, Europa – collabori al progetto musicale di Heidi Harris – Astoria, New York, USA, America -, firmando prima la copertina del suo album Cut the Line (disponibile su Inner Ocean Records sia in versione digitale, sia in edizione limitata su vinile), poi contribuendo alla realizzazione della traccia Nine Feathers e infine producendo il videoclip di Animal Insect – al quale ho anche potuto partecipare in fase di scrittura, trovandovi uno scambio molto fecondo. Non che Eta e Heidi si fossero mai incontrate fisicamente, vivendo la prima a Utrecht, la seconda a New York, ma umanamente sì e molto profondamente  [qui tendo un altro filo rosso dalle mie parole a quelle di Eta che, giorno dopo giorno, mette a nudo sul suo blog il processo dietro questo “empathy experiment” tra lei e Heidi.]

Così succede anche che Traslocare #2 entri tra i contenuti che danno vita al secondo numero di Quinta, periodico digitale – qui in versione base e qui a contenuti ampliati – di Casa Liquida, un neonato cantiere creativo palermitano, “residenza e laboratorio, studio di design e galleria d’arte, sede di wozlab e redazione di bdc, the letterario e teatro culinario, biblioteca e videoteca, astronave e velodromo, luogo di sosta e stazione di posta, porto di mare e approdo silenzioso, casa liquida” che per sua natura mi mette proprio di buon umore, spero di passarci fisicamente un giorno o l’altro.
Casa Liquida posa la sua pratica intera sulla poetica del fil rouge, come dichiara Link, la sua prima esposizione. Allo stesso modo, con Quinta, Casa Liquida tende di volta in volta un filo rosso – il viaggio in occasione del secondo numero – e gli annoda parole e immagini raccolte o offerte dal web, arricchendole con una nuova misura che è quella data dalla relazione tra contributi. Mi fa sorridere, per esempio, che [ri]pubblicando Traslocare #2 su Quinta|02 qualcuno abbia pensato di associargli una canzone, Traslocando di Loredana Bertè, e di impaginargli di fianco Trasporti del Signor L., grazie – e a maggior ragione per aver accostato il mio nome all’aggettivo “viscerale”.

[Così succedono e succederanno tante altre cose.]

Mood: annoiato, cresce il bisogno di mare
Reading: in rete
Listening to: Bon Iver – I Can’t Make You Love Me
Watching: il sole fuori da questa casa dove sono costretta su una sedia
Playing: a immaginare il mare
Drinking: caffè
Eating: foglie di insata scondita e yogurt al caffè





che per noi che ci siamo conosciuti in quel modo significa una sequenza infinita di fatti e sogni,

[incluso un seguito che non c’è stato e chissà se a qualcuno ancora importa il perché]

.

(perché a volte – nella turbina dove ci infiliamo – manca anche soltanto il tempo per ripensare

che non siamo strusciate soltanto

e da questo ci lasciamo fagocitare senza neanche un saluto di dovere.)


Eppure si dirà ancora di me che sono una persona poco affettuosa poco sentimentale, poco




Cose che iniziano dal ritrovamento di una bozza un bozzo una bozza a proposito di.

Mood: dis-equilibrato
Reading: Nick Hornby, Non buttiamoci giù
Listening to: taaaaaanti discorsi in inglese il che fa molto bene
Playing: a scrollarmi di dosso gli imbarazzi linguistici
Watching: itinerari attraverso la Norvegia
Eating: un tipico piatto turco, per l’occasione senza carne, in altri termini le meraviglie del couch surfing
Drinking: tanta acqua





Adesso che ci sono io,
cosa c’è al di là?


‹‹Voglio dire,
nella realtà



(…)
com’è che ci si innamora?››

Mood: sereneggiante
Reading: Anna Marchesini, Il terrazzino dei gerani timidi
Listening to: Niccolò Agliardi – L’ultimo giorno d’inverno e mia sorella che instancabilmente ripete per gli orali della sua maturità
Eating: focaccia
Drinking: acqua



‹‹La stazione mi era familiare, il babbo mi aveva portato molto spesso sulle pensiline del treno, quando avevo avuto la tosse convulsa, per farmi respirare un’aria diversa – così gli aveva consigliato il dottore, di cambiare aria. Mi piaceva tutto lì dentro; i riti di transito dei treni, i rumori che rompevano il silenzio senza turbarlo, il movimento lento ed eccezionale dei passeggeri quasi tutti militari o parenti di militari.
Mi affascinava quella sorta di schiaffo sonoro che faceva girare la faccia e inseguire il treno in corsa, quando sfilava davanti agli occhi, compartimenti di vite estranee l’una all’altra eppure insieme e accanto, lunghi condomini orizzontali disordinati o amorfi, vivaci, con le luci accese, o del tutto segreti, dove l’esistenza si era organizzata per qualche ora attorno ad una stessa casualità. Mi emozionava essere per un istante risucchiata da ogni rettangolo di luce che scorreva veloce, testimone io della fiammella invisibile che quelle famiglie di sconosciuti tenevano accesa senza saperlo e che li costringeva ad una effimera intimità. Dopo aver dormito accanto l’uno all’altro, estranei, si erano intrattenuti in una scandalosa confidenza che aveva aperto un varco involontario nelle loro esistenze abbottonate, il tempo breve della durata di una tratta e poi tutto si sarebbe richiuso frettolosamente, ciascuno uscito dallo scompartimento, appena scivolato via, avrebbe lasciato solo una sfoglia di sé e un posto vuoto, pronto ad accogliere un’altra breve rappresentazione.››

[Anna Marchesini, Il terrazzino dei gerani timidi]


Riflettevo, ieri pomeriggio, a bordo del Freccia Bianca Milano-Bari, in merito al carico di vite tra loro estranee che affollava lo scompartimento e che, scendendo sempre più il treno verso il tacco d’Italia, si organizzava per istinto in un sistema intrecciato di relazioni e scambi e simpatie ed antipatie, è questo che mi piace dei treni, il loro diventare micro-habitat ambulanti ed interinali in cui si accalcano e restano sospese come foschia le vite e le storie, oltre che le possibilità di costruirle queste vite e queste storie e di immaginarle, i signori infervorati di politica senza troppe cognizioni di causa e corrosi dal vivere amaro e gli interventi sporadici di qualcun’altro a caso e gli sguardi tra il sarcastico e il divertito e l’infastidito, il gruppetto aggregato attorno ad una partita a briscola o scopa, la signora preoccupata per le mie gambe deformate dalla reazione allergica alle punture di zanzare e incapace di togliermi gli occhi di dosso e voci e passi uno sopra l’altro e suggerimenti su come trascorrere il tempo di un lungo, lungo viaggio.

In ragione di queste coincidenze relazionali, S. ed io ci siamo conosciute. Stavo ascoltando la musica in cuffia ed elaborando in Lightroom le foto del mio Natale olandese, ché sì, tra una cosa e l’altra, ancora non ho avuto modo di concludere il lavoro, insomma ero così impegnata e S. che mi sedeva accanto se ne stava col naso appiccicato sul mio monitor, ascoltava con attenzione quello che canticchiavo e mi studiava nei gesti, nelle espressione, in quello che avevo attorno, più tardi le avrei confessato che io ho lo stesso vizio all’attenzione e alla curiosità, a trasformare in intimità l’estraneità. Sarà stato all’altezza di questo scarto che a S. non è tornata la ragione per la quale io non facessi le ascoltare quello che stavo ascoltando, sicché, al palesarsi delle sue perplessità, mi è sembrato onesto concederle una cuffia e ascoltare insieme Daniele Silvestri, che poi a lei la cuffia dovevo risistemarla di continuo perché di continuo le sgusciava fuori dall’orecchio troppo piccolo, circondato da ciuffi castano chiaro. Nella ripetitività di questo gesto, mentre mutava il panorama e si trasformava progressivamente in quel Sud caro al mio cuore, S. ed io siamo diventate amiche e lei chiedeva a me cosa stessi guardando e io chiedevo a lei cosa stesse guardando, abbiamo anche affrontato discorsi importanti come il matrimonio, in merito al quale lei mi ha confessato che avrebbe sposato la sua amica I., ma che una volta che la loro storia sarebbe finita, I. avrebbe sposato il suo amico J., gente del futuro!, motivo per cui sarebbe stato opportuno che io, non essendo ancora sposata, sposassi J., così che lei potesse rimanere per sempre con I., io le ho raccontato delle fate nello stomaco e di quelle che portano i sogni e lei mi ha detto che avrebbe pestato le fate dei sogni, che non è bello sognare perché ad ogni sogno si piange e quando le ho chiesto cosa sogna, S. mi ha detto che sogna i morti e non sapevo bene cosa raccontarle a quel punto, se non che non sono tutti brutti i sogni, che ce ne sono di belli e che sono importanti, solo a volte capita che un troll rubi un sogno ad una fata e lo infetti con la paura e per distrarci, S. ed io, abbiamo fatto merenda con i grissini spezzettati ed abbiamo giocato a chi mastica più veloce, uno, due, tre, via! e a chi resiste di più senza ridere e S. rideva tanto con un sorriso davvero bello e profumato di fiori e ad un certo punto, S. mi ha guardata dritto negli occhi e mi ha detto “Perché tu stai sempre così?” e ha ritratto il volto nell’espressione più accigliata ed altezzosa e contrariata che le riuscisse, ha stretto i denti ed ha incrociato le braccia ed io mi sono sentita come colta di sorpresa nella mia nudità di fronte a lei e ho cercato appigli che non esistevano per darle una risposta, storie che non tornavano al computo, ma più avanti, S. mi ha detto anche “Tu mi fai proprio ridere!” e quasi si stava strozzando con le caramelle che le navigavano tra la lingua e il palato ed io mi sono sentita ancora più nuda, come se mi avesse tolto la pelle e mi stesse dando la possibilità di perdonarmi ed arrotondare gli spigoli e ridimensionare ogni cosa in un solo sorso di vita. A Pescara, S. ed io ci siamo salutate, ci siamo abbracciate e ci siamo date un bacio, le ho detto che per questa volta non potevo andare con lei dalla nonna, ma che non è improbabile rincontrarsi un giorno per giocare ancora, magari su un altro treno in corsa ad energia propulsiva “verso il bambino”. S. ha quattro anni, quattro anni complessi e sinceri che in me hanno lasciato molto più di una semplice sfoglia di sé e non hanno svuotato un posto, ma l’hanno riempito.

Mood: morfinizzato tendente, in fase di recupero
Listening to: strani moti di rivolta del mio stomaco
Watching: bucce di clementine disseminate senza ritegno sul tavolo
Eating: taralli
Drinking: vino bianco



Sabato e domenica velati di nostalgia, quando si acquieta il tram-tram e scompaiono gli “amici della settimana”, quelli che incontri a scuola, al supermarket, per strada, si fa silenzio e s’insinua il ronzio di una solitudine pensierosa e malinconica, troppo impalpabile per essere comunicata, e il pianto in fondo ad un orgasmo che scava il vuoto, non lo riempie come si può sperare.



Niente punti esclamativi. Niente punti di sospensione. Bado agli incisi.
Sto bene, nonstomale.
Solo continuo a fare sogni orribili e troppo reali, carichi di inquietudini e paure e neanche me li spiego. Poi penso e m’arrovello per un po’.


Ho pensato alle metamorfosi. Il mio più caro Amico, torna a Bari oggi, gli ho chiesto di abbracciarla per me che non la vedrò fino al mese prossimo, ma soprattutto non la vedrò ancora una volta al suo fianco. Il mio più caro amico vive a Roma da tre anni e nel corso del tempo è diventato sempre più difficile incontrarsi da me, da lui, a metà strada, anche solo far coincidere i nostri ritorni in madre terra. L’ultima volta che ci siamo visti è stato a marzo scorso, in terra francese per un viaggio lui ed io, uno dei più belli di cui serbi memoria. E’ il mio-me, lui, siamo cresciuti insieme quando farlo ci sembrava un’impresa troppo ardua e ci tenevamo per mano per farci forza così stretti che ci credevano fidanzati. Ieri ha preso il suo diploma in fotografia ed io non ero con lui. Mi manca e tanto, tutt’oggi è difficile accettare la nostra lontananza, l’assenza del nostro stare bene insieme costante ed indiscutibile, del ridere insieme e piangere insieme, senza vergogna. Penso a quanto Milano sia diventata la mia quotidianità, a quanto perché ciò potesse avvenire, abbia dovuto rinunciato (brrrrrrividi) a tutto ciò che prima reputavo irrinunciabile. Amicizie come la nostra tornano raramente, forse mai, perché rare sono le condizioni per cui riuscire a crederci. Un giorno gli ho scritto “manchi tu”, mi ha risposto “tu ci sei, ti vedo bene, proprio qui…”. Ed ho capito. Quando ci re-incontreremo, fosse anche tra un anno ancora (e no, sarà pur prima!), ci stringeremo forte e ci riconosceremo ancora come se non ci vedessimo che da qualche ora. Funziona così tra di Noi. Allo squillo, scendi!


Ho pensato di contro a quello che dice Joel in Eternal Sunshine of Spotless Mind: “Che spreco passare tanto tempo con una persona, solo per scoprire che è un’estranea.” ed io ora avverto il peso delle parole non dette, delle mezza verità in fondo ai frammenti di una storia. Bastardi buchi neri relazionali. Presto o tardi, toglierò le catene alle mie domande. Ho bisogno di quelle verità, mi sia concesso almeno loro. Che senso abbiamo altrimenti? … Dovresti restare, lo faresti? Mi piacerebbe.



Credimi se ti dico che, nonostante la soddisfazione complessiva attuale, ci sono giorni difficili anche per me. Eppure basterebbe un abbraccio sincero per sistemare tutto.
Perché sto bene, nonstomale.
Solo continuo a fare sogni orribili e troppo reali, carichi di inquietudini e paure e neanche me li spiego. Poi penso e m’arrovello per un po’.