Sala d’attesa
luglio 6, 2015
Mood: crucciato
Reading: Jon Krakauer, Into the wild
Listening to: Röyksopp – I Had This Thing
Watching: “In silence I feel my deepest being”
Eating: fragole con panna
Drinking: acqua
L’asetticità delle sale d’attesa dell’ospedale mi sconcerta ogni volta come la prima. Qui non c’è neanche una poltrona contro il muro a indicare il minimo tentativo di rendere l’ambiente un po’ familiare. Inalo a fatica il puzzo della sterilità.
L’unica altra persona nella stanza è mia madre: sta in piedi accanto a me, ma non mi parla. Le chiedo perché mi fanno aspettare così a lungo?, sono impaziente di mettere al mondo mio figlio. Ma sono ore che aspetto e mi sento in una condizione terribile. Mia madre mi dice qualcosa a proposito della malasanità. Non mi si sono ancora aperte le acque, le confesso, non ho neanche avuto le contrazioni, sono incinta – si o no? Oh…, farfuglia mia madre,
Ma allora non sei incinta.
Cosa?, affondo lo sguardo dentro l’ombelico, il buco al centro di me stessa dove precipita ogni cosa che non c’è mai stata: com’è piatto il mio ventre, una spianata candida tra i fianchi. All’improvviso mi sento smarrita, in preda a una pena tra le più inconsolabili. Com’è potuto succedere?
Mi raccolgo. Spingo giù. Spingo ancora più giù. Spingo con forza dalla testa ai piedi. Cerco di accumulare tutta la vitalità di cui dispongo tra la pancia e il sesso. Spingo insistentemente, non mi do per vinta: voglio essere gravida. Voglio dare la vita a mio figlio, a qualcosa di meritevole, a un’idea, a qualsiasi cosa. Qualsiasi cosa purchè mi senta feconda e fiorisca con esuberanza.
Ma sono vuota.
E non c’è niente che io possa creare.
Dopotutto guardati intorno, Dorotea. Cosa mai potresti creare in questa camera mortuaria?
Marilù
giugno 15, 2013
Mood: felice
Reading: Elio Grazioli, Corpo e figura umana nella fotografia
Listening to: quello che ci si racconta attorno a una birra tra amici che si ritrovano tanto tempo dopo
Eating: pita vegetariana, se ben ricordo
Drinking: birra
Di questa notte, Marilù avrebbe raccontato che all’improvviso si era sentita come Forrest Gump: doveva iniziare a correre. E così fece, corse lungo tutta la strada,
calciando il vuoto con l’impeto nelle scarpe di chi vuole riempirsi d’aria il torace.
Quando si fermò, il suo affanno diceva Non sono triste, non sono triste.
“… e questo è tutto mi pare.”
I legami che sento io soltanto,
giugno 5, 2013
Mood: costernato
Reading: Elio Grazioli, Corpo e figura umana nella fotografia
Listening to: Muse – Blackout
Eating: biscotti
Drinking: latte freddo
oh sì, magari, lo confesso!, fossero immaginazione enfatizzata.
Peggio di non essere sentiti dall’altro capo di un legame profondo evidentemente malandato dagli eventi e dal tempo è sentire quello stess’altro capo per ognuno dei suoi intimi moti e non sapere cosa far[n]e
[un prudere e tirare da una parte all’altra, un susseguirsi di violente scosse emozionali per così dire estranee, all’improvviso di un giorno qualunque in mezzo alle vene dove resiste un intrico di viuzze e di crocicchi trasfusionali a controprova di un’epoca che fu in cui se n’è fatta di strada tra i due capi del legame – quantunque adesso non passino che container zeppi di zero parole,
Che succede, laggiù?
aggiù?
giù?
ù?
ù?
ù?
]
Fa sentire completamente soli.
Tras-locare #4
aprile 27, 2013
Mood: entusiasta
Reading: notizie dall’Italia
Listening to: Vinicio Capossela – Che coss’è l’amor
Watching: il sole, finalmente il sole
Eating: toast
Drinking: caffè per non addormentarmi sul computer
Avrei potuto andar via da Milano subito dopo aver svuotato l’appartamento del sesto piano, al centro a destra dov’era stata PaRecchia – se non proprio in mezzo ai miei stessi scatoloni e alla pasta fresca in un camion Guanzate-Delftauw. Ma vivere per tre giorni ancora a Milano, usando il mio vecchio appartamento immerso nella luce intensa più che mai ora che a diffonderla erano pareti bianco-vuoto mi è sembrato un opportuno rito di passaggio. In termini pratici: il primo volo abbordabile per l’Olanda sarebbe partito solo tre giorni più in là.
Vuoto, l’appartamento del sesto piano, al centro a destra lo era per davvero, a meno di non voler tenere in elevata considerazione il te e il caffè in uno scaffale in alto della cucina, un bollitore e una caffettiera sul fornello, una valigia con lo stretto necessario per andare altrove-ovunque – pochi vestiti, il computer e la macchina fotografica, un barattolo di peperoncino e uno di cannella – nel corridoio d’ingresso o d’uscita che dir si voglia, il sacco a pelo sul materasso in camera da letto per dormirci la notte,
«e che problema ci sarà mai per una zingara?»
L’eco, forse.
Voglio dire, l’eco è un elemento tale che
quando colto in uno spazio appena occupato, genera un forte senso di appartenenza costruttiva in colui che lo sta abitando, esprimendo tutta la disponibilità dello spazio appena occupato a farsi modellare secondo i desideri e le necessità di colui che lo sta abitando;
quando invece ritrovato in uno spazio un tempo occupato, ma lì lì per essere lasciato in favore di un altro spazio lontano, genera un insalubre senso di disagio e impazienza in colui che lo ha un tempo abitato, ma sta per andare a occupare un altro spazio, rimarcando se non la natura morta dello spazio un tempo occupato, il richiamo da parte di quell’altro lontano che sta per essere occupato,
“Devo andare, grazie di tutto” [citazione non a caso], ma
A un uomo che sia in attesa di tras-locare sembra che la vita resti in sospeso fin tanto che non sarà partito. A dire il vero, fintanto che non sarà arrivato
, ma che ci faccio qui, mentre il resto della mia vita è già altrove?
[del resto, proiettandosi tutto il suo concentrato emotivo nel futuro, finisce che davvero la sua vita resti in un certo qual senso in sospeso]
Invece.
Finestra sprangata, al centro
luglio 31, 2010
Mood: stanca
Listening: il silenzio
Drinking: acqua
France, Nantes, marzo 2013
Poi c’è quel sentore di un pavimento scivoloso, incerto, di un pasto consumato in solitudine e di uno sguardo triste, perso nel vuoto, di un grammofono il cui canto rimbalza per stanze vuote sempre più flebile finché non si fa silenzio.
E non è per il bianconero, né per il cielo bruciato o il tetto scrostato, sapremmo rimediare con i colori e la fantasia.
E’ per quella finestra al centro. Quell’unica finestra sprangata. Quello spiraglio sui recessi ultimi del tuo cuore. Continui a negarmelo.
Ma io resto qui. Fuori. Aspetto. Speranzosa.
Ho il tempo di una vita.
Aspetto sempre tu apra quell’unica finestra sprangata, al centro.