Parole

aprile 13, 2015

Mood: terso
Reading: Italo Calvino, Lezioni americane
Listening to: Paolo Nutini – Iron Sky
Watching: Kacper Kowalski’s
Eating: cioccolata, un pensiero fisso
Drinking: fiori ed erbette



A metà pomeriggio della domenica di Pasqua, sono stata sopraffatta da una domanda infinitamente pressante e ho trascorso minuti lunghi a guardare la neve cadere bianca sulle cime verdi di Sankt Georgen im Schwarzwald. Ho continuato a guardare anche quando i fiocchi hanno smesso di mulinare per aria e tutto si è fermato a respirare sommesso sotto una spessa coltre lattea. Perché la scrittura mi è venuta a mancare? Scrutavo il paesaggio – silenzio – e a ogni minuto che passava la domanda diventava più assillante, l’assenza di un qualsiasi confronto a tu per tu con le parole più pesante.
Mi dicevo: è perché sto vivendo con un tale slancio che diventa difficile trattenere qualsiasi cosa e, all’improvviso, di fronte a questa osservazione, mi sono sentita sperduta. Peggio della domanda che mi stavo ponendo c’era una cosa soltanto: non provavo alcun disagio. Ma pur sempre qui si parlava della perdita della scrittura, la scrittura! per cui da sempre ho un debole, un certo amore, una certa ossessione. E, si capisce, il fatto di non avvertire alcun disagio mi metteva a disagio, tutto ciò non so se è un bene, non so se è un male. Ma non è poi così necessario venire al bene e venire al male in questi termini.

Sono passata alle uova nascoste in giardino, al te nero con la torta al rabarbaro e al solletico tra le lenzuola pulite, alla fiducia nella felicità che provo d’istinto. E sono rimasta di nuovo con zero parole, ma come prima di domandarmi perché la scrittura fosse venuta a mancarmi, voglio dire serenamente. Ho idea che, se mi lascio respirare, le parole mi torneranno tra le mani.

Apofisi

marzo 1, 2014

Mood: spazientito
Reading: L’uomo autografo di Zadie Smith
Listening to: passi e gocce lungo i tubi di riscaldamento
Watching: The secret life of Walter Mitty di Ben Stiller
Eating: pizza
Drinking: acqua dal rubinetto



Tutto potrebbe ricominciare dalla mole abbondante di lavoro che ho lasciato in sospeso, lá dove si concentra la frustrazione della mia personale caccia metodica a una formula espressiva sempre più chiara e essenziale, ma estremamente capace di guardare in profondità e fare breccia in interi complessi di idee e emozioni. Adduco come scusa l’insoddisfazione stilistica,

fin quando almeno mi sarà accettabile.

Quanto segue è evidentemente un’ammissione, ovvero: prima di trattare di riduzione a una formula espressiva chiara e essenziale, c’è bisogno di chiarificare gli interi complessi di idee e emozioni da ridurre a una formula espressiva chiara e essenziale.
Di fatto, io negli ultimi tempi penso, penso, penso e mi emoziono per tutto, ma – o per effetto di un tale surplus – non so proprio dove adare a parare. Ecco perché lascio tutto in sospeso.
E non mi riferisco al lavoro soltanto.

Mood: (in)quieto
Reading: la nuova normativa sulla mobilità olandese per capire come spostarmi
Listening to: Birdy – Shelter
Watching: la condensa alle finestre
Eating: a breve, sento puzza di rape, si salvi chi può
Drinking: te asprigno



(Andare. Per miglia. Talvolta più vicino. Talaltra più lontano.)

Di certo non si sarebbe potuto dire che per amore avesse mai risparmiato le scarpe.



***

Com’è sospettabile, un esercizio di stile liberamente ispirato a fatti di cronaca personale. Poi neanche troppo liberamente. Direi pedissequamente, questa volta.
Tanto per apporre un inciso, stamattina non avevo voglia di perdonarmi il desiderio di aver cura di me e di essere nauseata, se non proprio arrabbiata, senza per questo crocifiggermi con sensi di colpa illegittimi.

Per quanto riguarda l’esercizio, tentavo da mesi di scrivere un racconto brevissimo.
Sono stata educata abbastanza in fretta alle virtù della sintesi. Ogni volta prima di iniziare a scrivere, la mia prof.ssa di letteratura al liceo, ci ammoniva di essere “chiari, concisi e compendiosi”, ché non serve imbastire archi verbali e ghirigori estetici per raccontare qualcosa. Tutto quello che scriviamo, a una seconda lettura si può ridurre sempre quantomeno alla metà, senza per questo perdere il senso. A patto che le parole e i costrutti sintattici da utilizzare siano ponderati e non lasciati al caso.
Del resto, questa faccenda del valore di ogni singolo termine mi sta molto a cuore, è risaputo. Tanto più oggi, quando, a causa delle dosi massicce di materiale alfabetico che mettiamo in circolazione – per gran parte con mediocre qualità da scribacchini –, le parole sono le prime a sprecarsi, perdendo spessore e profondità.
Ebbene, (provare a) scrivere un racconto concentrato in una frase è un ammonimento continuo a dosare il peso di ogni singola parola, in modo tale che la suggestione di una vita possa respirare dentro poche lettere.
Io resto della convinzione che scrivere bene è un esercizio, non un’istintività felina.

Mood: sereno
Reading: il nuovo blog vuordpréss di Lou, hippippippihurrà!
Watching: vecchi video ignobili
Playing: a soffiarmi il naso
Eating: risotto piselli e zafferano
Drinking: te



Pochi metri dietro di te e già sei fradicia. Il firmamento intero si rovescia a secchiate, sciogliendo sfavillii e contorni della città e paralizzando il viavai di pinco pallini e carretti a motore. Ritrarsi alla pioggia per te è delitto, ti rende felice concederti e sentire che ti possiede, centimetro dopo centimetro, accarezzando e picchiando, non smettere, e ormai i capelli si sono appiccicati alla fronte, i solchi delle labbra si sono raffinati dal color melograno rappreso e ti costa fatica focalizzare il mondo oltre la coltre di gocce appese a stento tra le ciglia e respirare senza rimettere il fiato, non smettere ancora, ed ecco che la pioggia ti scivola sotto i vestiti appesantiti, ti percorre, ti svela, non fa sconti sulle distanze e ti senti esposta e pietosa, ma non opponi resistenza, né cerchi di celare difetti e abrasioni, non smettere adesso, e le tempie martellano d’impazienza, poi la pioggia filtra attraverso la pelle e inizia a gorgogliare come antidoto benefico tra le ossa e la carne viva dove ogni ferita esterna è radicata e incerta e reclama clemenza, non smettere mai, posso ancora guarire.
Stanotte la pioggia è densa e viscida, si trascina nel collasso polveri e gas armonizzati nelle flebili variazioni degli stessi odori intimi e ferrosi che ti sono stati nell’incavo della spalla e tra le cosce per così tanti anni che scinderli dalla piena delle orgie olfattive di ogni giorno per te è diventato istintivo. Be my baby, implori, cercando appigli nello spazio, ma no, non è colpa del tizio che cammina pochi passi avanti e che per ironia della sorte si è annaffiato con fragranze simili, è proprio la pioggia che si è imbellettata con i feticci di tale storia vecchia anni e anni, bagascia traditrice, e adesso ti sta scivolando senza ritegno nel petto e nella testa, rivitalizzando crepe anestetizzate e visioni oppressive. Resti in silenzio ad ascoltare. Hai difeso l’anima, confidato nel tempo e nelle distanze, magari ci mancheremo, ma la vita andrà avanti, funziona così, e ci renderà bimbi cresciuti e consapevoli che a modo nostro ci siamo amati anche noi. Così sono passati gli anni e sei arrivata a pensare che se avessi beccato lo stronzo che ha detto che il tempo è santo nella scienza della convalescenza, gliene avresti contate a caterva. Ma ciò che devi accettare è che la guarigione non procede a ritmo preimpostato e a te, pare, è toccato il posto speciale tra i lenti. Perciò se mettessi il freno al traino scapestrato del groviglio di serpi annidato nella gola e ti concentrassi nell’oscillazione pacifica dell’anca e della gamba a passo costante, ti renderesti conto che stanotte le condizioni non sono particolarmente aspre e che non provi dolore, ma nostalgia.
Tempo fa, al limitare dei sobborghi maleodoranti dei metabolismi interrotti, non eri sola sotto la pioggia a tentare di lavare via le lacrime e i sorrisi disincantati ereditati dalla vita. C’eravate entrambi, smagriti bimbi tremolanti, e vi esistevate accanto con mostri pelosi e giganteschi sotto i letti e meccaniche emotive che vi atterrivano. L’amore per cosa differisce dal resto? Per un bacio soltanto? Cercavate chiarezza, speravate di farla prima o poi, ma in fondo perché? L’amore va sentito e improvvisato, non schematizzato. Avevate aspettative grandi e presenti striminziti. Idealizzavate troppo, sognavate di giorni migliori, come se la felicità fosse programmabile, e terre grandi abbastanza da riversarci le vostre anime incendiate per risanarvi a vicenda, vi giravate attorno, aspirandovi e scarabocchiando mappe e diagrammi di scolo, senza però stabilire contatti a braccia aperte, oltre i limiti della vostra interezza divisa e moltiplicata. Vi baciavate con le lamette tra i denti e le sacche del piacere e del dolore esplodevano insieme alla prima vicinanza. Spariremo nella pioggia, non è vero? Siete rimasti a vedere come vi perdevate senza passo mettere e avete impiegato le distrazioni momentanee per scappare e ammansire le passioni. Vorrei che vi foste amati e vi foste salvati, per certo vi avrebbero atteso tempi meno bastardi.
Ma nel mezzo ha circolato la vita ed ecco che stanotte la pioggia odora di voi, gli stessi ormai diversi che secoli fa si sono sciolti in pozze fangose di scrosci torrenziali. E se soltanto smettessi di agitare le catene e allentassi la tensione stridente che hai imposto alle carni, ti renderesti conto che ora le circostanze sono cambiate. Ti sorprenderesti allora a pensare che non hai mai desiderato davvero il cambiamento, che ti fiacca e ti allarma. Ma stanotte la pioggia ha finalmente decantato nel vento le emozioni violente e violate. E se soltanto smettessi di ostinarti nei circuiti noti, scopriresti nel nevrotico di sempre il sereno e i bisogni novelli che non hai confessato. Ti stringeresti allora nelle spalle e ti scioglieresti in sorrisi mesti e commossi, indifferente al viavai asfissiante di pinco pallini e carretti a motore, e ti sorprenderebbe scoprire che hai gli occhi di chi ha scritto l’epilogo senza troppo permettere alla vita di sbalzare acredini e rigidità.


***

Il presente non è che l’ennesimo esercizio di stile, liberamente ispirato a fatti di cronaca personale e vita navigata, in cinquemilacentoventitre caratteri, senza mai scrivere la “u”.
Così voleva Gianni Biondillo, architetto, scrittore e nuovo prof. di scrittura. All’incirca. La comanda precisa era un racconto in quattromila battute, togliendo una vocale. Lì per lì, ho pensato di uscirci scema. In verità, mi ha divertito dover fare tanta attenzione alle parole.
Concludo scrivendo che è fin troppo evidente che nell’ultimo periodo sono tornata a leggere David Grossman.

L’Intronauta

luglio 7, 2011

Mood: quieto
Listening to: la ninna nanna di questa notte
Watching: le poche finestre ancora accese nei palazzi circostanti
Playing: con i riccioli
Eating: frugalmente
Drinking: caffè, uno per ogni persona che sto rincontrando





Negli ultimi giorni, scrivo tanto, ascolto canzoni, leggo libri, scandaglio in profondità i testi e le parole, le mie e quelle degli altri, compulsivamente direi, con compulsiva-mente, ho fame di parole, le pronuncio a voce alta per avvertirne la consistenza tra il palato e la lingua, per sentirne il fiato che rende tremuli gli organi interni e le ossa anche quand’è già sfuggito alle labbra e all’insidia delle sue screpolature, cerco significati, sinonimi e contrari, scompongo e ricompongo, provo ad abbozzare definizioni ed ora confesso che le definizioni a me non piacciono neanche un po’ perché sono i limiti concreti al vivere e al sentire più profondo e contraddittorio, ma che di tanto, in tanto devo farci ricorso per capire qualcosa di me e companatico, mettere un puntinoeacapo e, a proposito di puntini, rendo manifesta la mia consapevolezza che, negli ultimi giorni, non solo scrivo tanto, ma scrivo anche manzonianamente, che a cercare il punto nelle miei frasi e nei miei raggiri non è sufficiente un binocolo.

Ma si dà il caso, e a quest’altezza del discorso chiunque potrebbe supporlo ben da sé, dicevo, si dà il caso che questo puntinoeacapo a me non riesce proprio di scovarlo e piazzarlo nel tormentoso rimescolio della mia esistenza, prim’ancora che nei miei scritti. Ora, che l’esistenza sia per gran parte tormentoso rimescolio non è certo la dichiarazione più geniale che potessi fare: letterati e pensatori, artisti e scarpari illustrerrimi che mi hanno preceduta tanto per le tempistiche, quanto per l’intelletto, hanno ampiamente disquisito e problematizzato la faccenda. Per quel che mi riguarda, me ne son fatta una ragione senza particolari isterismi e del tormentoso rimescolio sbrodoloso sbrodolino mi sono persino innamorata, fortuna che è così la vita, altrimenti sai la noia!, il che non vuol dire che il tormentoso rimescolio ed io non siamo contemporaneamente acerrimi nemici, ma quel che conta è che grossomodo mi barcameno e di questo farmi spazio a scossoni ho fatto uno stile di vita.
Il vero guazzabuglio è che nell’ultimo periodo, di cose ne sono successe e, repentinamente, ne sono cambiate e ne stanno cambiando ed io, che pure convulsamente cerco di seguire una direzione, non sto capendo nulla di tutto quello che al momento penso, provo, voglio, ché io al momento penso, provo, voglio non una sola cosa per volta, ma infinite cose e contrastanti e neanche so da dove partire per venirne a capo. A voler concretizzare, è come essere seduti davanti ad una montagnola collosa di spaghetti in un piatto troppo piccolo, senza riuscire a rintracciare lo spaghetto da cui iniziare ad arrotolare una forchettata.
Sono preda di una confusione totale e totalizzante che mi confonde – una confusione che confonde! – debilita, corrode, distrae, astrae, svuota, senza mai abbandonarmi per un solo momento, al punto che dopo l’ennesimo muretto a secco e l’ennesimo rinculo dell’auto a precedere scansati per un soffio, ho preso la per me-drammatica decisione di non guidare finché non sarò riuscita a tenermi sotto controllo, donnina coscienziosa. Si direbbe che tra cuore e cervello mi si sia innescato un attacco fork bomb di pensieri ed emozioni e desideri e paure contrastanti che non so decifrare e riequilibrare e che minacciano brutalmente di mandarmi in crash.

Penso che talvolta sarebbe massimamente utile se a vivermi e sentirmi ci fosse qualcun’altro più bravo di me a capire com’è che mi vanno le cose lì dentro, per poi riferirmelo con dovizia di particolari. Certamente sarebbe tutto molto più semplice, ma non sono certa che sarebbe la soluzione migliore, dopotutto è una grande avventura conoscere se stessi e dal confronto e dal conflitto si emerge necessariamente arricchiti e più consapevoli.
Qualche sera fa, tra le pagine de Il giardino dei gerani timidi, ho incontrato il termine “intronauta” e ne sono rimasta estasiata, non c’è dubbio che nel ventaglio di parole che ho rintracciato nel corso delle mie più recenti ricerche allo scopo di darmi un volto e di raccontarmi, “intronauta” sia proprio la più interessante, la più necessaria, “intronauta”, esploratore dell’interiorità. Nella mia immagine, l’intronauta ha uno scafandro sulle spalle, ed in mano una lanterna, una penna e un taccuino, viaggia in silenzio, si fa strada col respiro nei più intimi grovigli e valuta e annota e valuta e separa e valuta e chiarifica. Io sono un intronauta e sono in viaggio, dal cuore della mia nebulosa emotiva tutto sembra stazionario, ma semplicemente perché muove impercettibilmente verso una soluzione d’incastro, centro di controllo, abbi pazienza, qui ci vuole solo tempo, ce n’è di strada da coprire e di fogli da riempire, ma prest’o tardi la nuova strada sarà costruita!

Venerdì Diciassette

settembre 18, 2010

Mood: teso
Reading: volantino delle offerte del Simply
Watching and Listening to: Perturbazione – Agosto
Eating: macine
Drinking: caffè-latte




Venerdì diciassette.
Per il folklore popolare, una sfiga che a trovarne una uguale non ci si riesce neanche pagandola a peso d’oro.
Per me, la liberazione.


La sessione d’esami autunnale si è chiusa. Posso farla finita con l’ansia dello studio, quando proprio non voglio, non ci riesco, dannato cervello pensante, ma devo. Ora posso anche svegliarmi con la malinconia che mi pende sulla testa, come avrà fatto Damocle a sopravvivere alla tensione della spada, ora si stacca, ora mi attraversa la testa?, ma scendere in strada, ed andare per il mondo a cercare un sorriso, invece di costringermi ad oltranza su una sedia per poi non combinare comunque nulla.
Nonostante tutte le difficoltà, ne sono uscita a testa alta, lode al blabblio* e alla forma mentis**, alla testardaggine e all’orgoglio, laddove ne è rimasto, alla passione e alla volontà di riuscire, ri-uscire.
Porto a casa anche una dose di dolcezza stupita perché a fronteggiare l’ansia e lo scoraggiamento del momento, la stanchezza e l’assenza di entusiasmo, ho incontrato la stima altrui.

“Noi siamo molto contenti di te.”

Ringrazio a testa bassa. Sorrido imbarazzata. Insegnate a me ad esserlo di me.
Se c’è una cosa che proprio non va bene in me, questa è la scarsa fiducia che ripongo in me stessa. Nel lavoro quanto nella vita privata. Superba e priva di autostima. Mi definisco all’interno di questi due poli. Paradossale. Come sempre. Non so che farci.


Ora si prospettano due o tre settimane libere. Le occhieggiavo con entusiasmo da un po’ e mi ci sono tuffata a braccia spalancate fin da ieri pomeriggio.
Ho una lista in fieri dei buoni progetti, cose frivole perché sono stufa di rinnegarle per fini intellettuali che non è scritto da nessuna parte che “frivolezza” è sinonimo di “deficienza”, potrebbe esserlo anche di “semplicità”, all’occasione, e cose più spesse e profonde. Comunque cose lasciate indietro da tempo e che mi reclamano con urgenza.
Ho bisogno di tempo da dedicarmi. Negli ultimi anni, la vita ha fatto un giro un po’ strano, vuoi l’amore, vuoi gli studi, vuoi il lavoro, vuoi la famiglia, vuoi le seghe mentali, e io mi sono dimenticata, abbandonata a qualche curva di questo fluire travolgente. Non sono passata a prendermi. Ora lo farò, mi tenderò una mano e la prenderò.
Aiutati, che Dio t’aiuta”, dice nonna. C’è saggezza nel folklore popolare, venerdì diciassette e gatti neri a parte. O perchè no?, venerdì diciassette e gatti neri inclusi.

Comprare l’aspirapolvere ***
Liberare aggressivamente casa dalla polvere
Andare ad Ikea
Arredare casa e colorare
Pastrocchiare in cucina
Invitare gente a cena o festini
Barboneggiare in Colonne, una birra in mano, le chiacchiere con gli amici e i tamburi di sottofondo con la testa a ritmo
Scoprire la fiera di Senigallia
Buttarmi in una pista da ballo
Saltare sotto il palco di un concerto
Shoppingare
Conoscere Milano
Non perdermi la mostra di Dalì e qualsiasi altro evento interessante
Tornare a teatro
Andare a cinema ****
Curiosare almeno un giorno al Milano FilmFestival
Andare al Museo del Cinema di Torino
Curiosare nel Libraccio nuovapertura *****
Sfoltire la pila dei libri “da leggere”, leggendoli
Ricominciare a scrivere
Realizzare uno stop motion
Studiare fotografia
Comprare la macchina fotografica nuova
Fotografare, fotografare, fotografare
Vagabondare senza sosta
Salire un un treno, perché no?, anche due o tre


Ritrovarmi. Questo è un imperativo.



* dicasi blablio la capacità di intortare per mezzo della dialettica colta e bombardante il proprio ascoltatore così che quest’ultimo abbia l’impressione di essere al cospetto di una persona che ne sa più del diavolo e che ne sia anche molto convinto
** dicasi forma mentis la forma della mente, per l’appunto, ramificata definirei la mia, tanto troppo che mi ci perdo a volte, ma, come dice De Carlo, siamo noi che manchiamo d’orientamento, mentre le strade da sé sanno dove vanno e per quanto si attorciglino, s’incastrino, si spezzino, si inabissino o s’innalzino, non mancano di un punto di convergenza, di risoluzione.
*** Ieri sera, a Mediaworld, Yanna ed io abbiamo conosciuto Robberta (per Yanna, “Robbi”, per me “Berta”, a tutti gli altri libera scelta, le possibilità non mancano), scopa elettrica arancione, senza sacchetto. S’è creato subito feeling e ce la siamo portata a casa. A breve vado a battezzarla.
**** Ieri sera ho visto Mangia, Prega, Ama.

La gente in sala è uscita perplessa. Io l’ho vissuto in prima persona con l’anima. Si sa, il livello dell’emotività è una questione tutta personale.
***** Sugli scaffali ho incrociato il mio prossimo acquisto, Trattato di funambolismo di Philippe Petit, funambolista francese. Nel 1974, ha camminato su un filo teso tra le Twin Towers, lui, le ha attraversate.




“Uomo dell’aria, tu colora col sangue le ore sontuose del tuo passaggio fra noi. I limiti esistono soltanto nell’anima di chi è a corto di sogni.”